17 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 17)




Alvino d’estate pativa maggiormente perché con il bel tempo i bambini del villaggio organizzavano i tornei di pallastraccia, o giocavano alla caccia con archi e frecce, o si rincorrevano e tiravano i sassi. A lui quei giochi piacevano tutti moltissimo ma ne era escluso.
A causa della sua malattia si trascinava.
La polio aveva attaccato il suo midollo spinale, e ucciso la sua infanzia sin dai primi anni.
Questo ne aveva fatto un bambino introverso e incline alle fantasie. Precoce, aveva imparato a leggere a soli quattro anni; malgrado ciò amava farsi leggere le favole da nonna Aurelia.

Le favole.

Questa cosa gli ricordava un tempo sospeso e felice, quando il suo corpo non aveva ancora manifestato i primi segni del “dono” ed entrambi vivevano dall’altra parte della piana, a Su Puntori.

La sua vita era tagliata in due, segnata da quel prima e quel dopo che lo aveva influenzato fortemente.

Poi una sera, di ritorno da una passeggiata a osservare le lucciole, un gatto, attraversandogli la strada si era incurvato e gli aveva soffiato contro, per poi fuggire come una saetta.
E quello era stato il segnale per Donna Aurelia; il primo sospetto, trasformatosi poi in certezza, il bambino aveva “il dono”.
Così lei aveva imparato a scorgere i primi lineamenti ferini dietro quel sorriso di chi non ha ancora provato il dolore.

Poi, a tre anni, la luna piena aveva mostrato nettamente il suo influsso. E Alvino una sera di maggio, si era ricoperto di una peluria soffice, un primo timido pelo, una lanugine, ancora molto umana.
La donna aveva dissotterrato il libro nero e cominciato ad annotare, che lei era addestrata sin da bambina, come tutte le Picocca, nell’evenienza. Era, lei stessa, una predestinata, e doveva vegliare su quel cucciolo di uomo lupo.

Luna nera, luna piena. I lineamenti avevano cominciato a mutare visibilmente attorno ai 5 anni ed erano arrivati i primi terrificanti dolori.
Lacerava pelli, squadernava ossa e squarciava muscoli, la mutazione.

Alvino si contorceva dal dolore, rotolandosi per terra, in preda ai singulti, e lei atterrita consultava il taccuino dei misteri alla ricerca di qualche parola, di un’indicazione che le dicesse cosa fare. Doveva fare attenzione, questo dicevano le righe antiche, attenzione, un lupo mannaro è pericoloso per chiunque, pure per chi lo ama.

I lupi Mannari, macchine perfette di un aldilà insondabile, celavano, così insegnava il libro nero, una sostanza nella ghiandola pineale, che sarebbe con il tempo servita per alleviare il dolore, una sorta di morfina naturale. Ma la scienza arcana era del tutto istintiva, a nulla servivano spiegazioni logiche, poiché era necessario che un uomo lupo imparasse a servirsene (natura matrigna) a prezzo di sofferenze indicibili.
Poi, una volta superata questa prova, dopo qualche anno, era arrivata la gioia. E Alvino, una volta mutato saltava e si arrampicava con una forza straordinaria, dimostrando come fondata la teoria secondo la quale la sua menomazione scompariva con l’avvento della dimensione animale.

Donna Aurelia ne aveva sorriso compiaciuta. Non era più zoppo? Una piccola rivincita nei confronti di un Dio distratto o smemorato. Che mali aveva mai compiuto quel figlio per essere intaccato dalle febbri della poliomielite e dalla perdita dei genitori?
D’atra parte il “dono” aveva fatto di lui un adulto. Un adulto di neppure quattro anni.

Poi comincianoro i sogni, e con questi i presagi. E invece avrebbe voluto rimanere bambino per sempre, Alvino. E starsene, notte dopo notte, insonne a spiare i disegni delle ombre della candela o della lampada a carburo, sulla parete, mentre la voce della nonna si arrochiva e affievoliva sempre più fino a scomparire in un russare cavernoso, rapita dal sonno profondo mentre gli leggeva quelle fiabe.

Gli piacevano i fratelli Grimm, anche se lo impaurivano moltissimo, anzi forse proprio perché lo impaurivano moltissimo. Ma il momento che preferiva era quando Donna Aurelia, molto stanca, abbassava le difese e lui poteva impadronirsi del famoso taccuino e leggere le gesta dei suoi avi.

Era allora che le sue fantasie di bambino malinconico si scatenavano e sognava che sarebbe diventato un uomo lupo leggendario, il più grande di tutti.


Una goletta.

Proveniente dall’inghilterra del nord, teso l’orecchio su leggende e dicerie, aguzzato lo sguardo verso prospettive di ricchezza possibile, era assorto, un nefando, in navigazione verso la piccola isola nell’America del Sud, nota anche con il nome di Parador.

Nato a Bucarest trentasette anni prima Leopold Degla Norbescu, detto il guercio, a causa di un occhio di vetro che lo rendeva ora enigmatico ora spaventoso come il volto di una bambola di porcellana, assaporava il gusto di una nuova splendida caccia tutta da costruire.

Non era un bracconiere lui, e non conosceva il sapore dell’assassinio. Ma i suoi crimini erano forse ancora peggiori.
Viaggiava di villaggio in villaggio con una ciurma di marmocchi luridi e violenti, dediti a giochi circensi e accattonaggio. Ed era temuto, ma anche osannato, che dove lui metteva piedi c’era sempre spasso e sperpero. E in Parador c’era già venuto. Poi cacciato e adesso, caparbiamente, stava facendo ritorno schiavo dei sogni malvagi che gli divoravano l’anima.

In Parador erano noti quelli della sua stirpe bislacca sotto il nome de “is cumprachicos”.

E fu sognando un volto di porcellana dallo sguardo di vetro, a migliaia di migia di distanza, che Alvino si svegliò si soprassalto.

"Aaaahhhhhhhhh" urlò, e svegliò Donna Aurelia.

9 commenti:

igort ha detto...

Ausonia, se hai bisogno di metterti in contatto la mia mail è nota:

igort@igort.com

(adesso sono in viaggio comunque)

ausonia ha detto...

oh, grazie!

igort ha detto...

PLIN PLON

sono in viaggio. Per questo motivo la pubblicazione degli ultimi due capitoli di Argento è stata differita.
Mi scuso e provvedo al più presto.

PLIN PLON

Nei giorni scorsi si è inaugurata la mostra alla triennale di Milano sulla graphic novel. Un bel lavoro e una cosa importante per la causa della narrazione.
So che Tito Faraci si lamenta del fatto che lui lavora in sala macchine e noi siamo "il salotto buono" ( Noi, del romanzo grafico, saremmo gli snob in sostanza).
E poi ho pure sentito dire che "il romanzo grafico non esiste".

( ma se è così perché ti da tanto fastidio?)

Negare l'esistenza di una realtà e buttarla sul "proletariato del racconto" mi pare ozioso e insincero. Caro Tito, sarebbe la prima volta che in sala macchine ci stanno i ricchi. Non lamentarti. I proletari del racconto siamo noi, sei tu che fai i soldi con il pop. Fare i soldi e riscuotere anche la solidarietà di critica e militanti, son cose che non vanno insieme. Non te ne puoi lamentare.

Lo so, è un mondo difficile.

E siamo noi che facciamo le lotte contro i mulini a vento per affermare che c'è spazio per una narrazione possibile. Tu fai spallucce e vendi con le major.

Ma te o dico in amicizia, perchè ci credo. Che ognuno faccia il proprio lavoro e si porti avanti una battaglia contro la banalità:
Avanti popolo!

igort ha detto...

Caro Paolo, io credo che il problema invece non sia nella definizione, ma nella pratica. Gli albi di tex contengono una foliazione massiccia, sono a tutti gli effetti dei romanzi grafici, eppure io non li rintengo tali.
Il fumetto è la graphic novel sono due cose distinte, come le serie tv e i film.
Entrambi nobili certo (dipende dal film e dalla serie) ma diverse.
Per me, lo ripeto, Tarkowsky e Vanzina non fanno lo stesso lavoro.
I Residents o Casadei non fanno lo stesso lavoro.

Tutto qui.

igort ha detto...

Chiarisco l'intervento di Boris:

Josip Broz (Cirillico serbo: Јосип Броз), più conosciuto con il soprannome di Maresciallo Tito

ale ha detto...

Igort, anche io come Spari d'inchiostro non capisco bene la questione. Tu fino ad oggi, se non ho capito male, hai sempre detto di volere un fumetto popolare come un feuilleton, ma artistico, sperimentale, che tracci nuove rotte ; che è sbagliato considerare il fumetto un mezzo invece che un linguaggio. Fin qui sono completamente d'accordo, mi sembra anzi un intento potente, ma quando dici che il fumetto e la graphic novel sono due cose distinte così come film e telefilm non ti seguo più. Forse è anche il fatto che mi mancano i termini della discussione e non so cosa ha detto Faraci.
Distinguere tra "fumetto di massa" e graphic novel non rischia di ghettizzare quest'ultima? è proprio vero che il fumetto di massa non descrive il mondo? E non si rischia di fare la solita "guerra tra poveri"?

ale ha detto...

Mi sembra una visione un po' ristretta. Sono i Bonellidi a creare il proprio pubblico? Sono le Witch a creare le loro lettrici? Sono tutti instupiditi dalla pubblicità? O in qualche modo, questi prodotti, pur con le loro ruffianerie, il loro prostituirsi al marketing, soddisfano qualche necessità? Pensare che se non ci fossero i Vanzina tutti apprezzerebbero Tarkovski è un'utopia. Bella, ma irrealizzabile. Togli i Vanzina e molti non andranno più al cinema. E' vero invece che questi lavori spesso (anche se mi piacerebbe che fosse più spesso) sono il passaggio attraverso cui affezionarsi al fumetto, e arrivare alle opere più "valide". Se non avessi letto topolino e Martin Mystere, non sarei arrivato a David B. e Seth. Diventa vero quello che dice Igort, allora, (e adesso forse lo capisco di più), e cioè che i Vanzina e Tarkowsky sono diversi, perché attirano un pubblico diverso. In questo senso, allora, il problema è un problema di spazi e di visibilità. E' così?

igort ha detto...

Sono le pratiche e il tono di voce a essere diverse.


Io posso apprezzare i mc donald ma distinguo dalla cucina mediterranea.

Ho amato e amo molte cose popolari ma capisco che Kirby ha fatto un lavoro meraviglioso sulla forma estetico-grafica. Un lavoro eccezionale, ma spiegelman ha fatto un fumetto complesso. Si è posto delle domande sul linguaggio, sul narrare, ha aperto nuove strade; che è un'altra cosa.

Non siamo ipocriti, cerchiamo di capire cosa sono certe cose e che cosa portano.

La questione è anche politica. E noi viviamo in una melassa di finta libertà, che si chiama liberismo.

Questione di prassi. Di estetiche.

Che chi lavora per le major si affretti a negare l'esistenza di un lavoro di ricerca mi pare ingiusto.
Io non ho nulla contro le major, a patto che mi lascino fare quello che credo giusto. Se non me lo consentono mi auto pubblico. Mi domando se Tito Faraci farebbe lo stesso.


Il punto è creare una definizione perchè i fumetti non siano solo un linguaggio legato ai simpatici pupazzetti.
( che, come si sa, mi piacciono. Ma non sono disposto a sottoscrivere l'idea che i fumetti siano solo questo).

Aprire le finestre significa avere il coraggio di dire "io faccio un lavoro di narrazione che prescinde dalle ricette".
Miinteressa la narrativa popolare, non mi interessa il pre-digerito.

Punto e a capo:

Ma siamo onesti.

Doctor Ban ha detto...

TAP..TAP..TAP...e allora??vogliamo muoverci o no??forse credi di lasciarci così,a mezzaria??battiamo con le ditina sulla tastiera da bravo...su ...su....