17 luglio 2014

Diario ucraino. 17 luglio 2014. Ore 10,52.

Ieri notte telefonate febbrili dall'Ucraina, tensione, screzi. Da qui la guerra sembra invisibile. Al telefono, nelle notizie scarse che circolano, storie di terrore e di morte. I mini autobus, i machrout, come si chiamano in Ucraina, che attraversano le strade di Chesnoije, a pochi chilometri da Donetzk, vengono fermati da un checkpoint, sono piccole famiglie che scappano cercano di allontanarsi dalla zona calda, vecchi, donne, bambini, qualche ragazzo. I ragazzi vengono fatti scendere, all'autista dell'autobus viene chiesto di allontanarsi. Le donne piangono, non vogliono chiudere le portiere. I ragazzi rimangono con gli uomini armati. Due di loro vengono uccisi, un colpo alla testa. Pianti. Urla. Terrore. Questa la realtà nascosta. Queste quello che nessuno di noi sa, che giornali non dicono, che le televisioni non trasmettono. In Ucraina i canali televisivi hanno sulla parte destra in basso una piccola candela, in segno di lutto. Tutte le reti. Indistintamente. Ieri, alla notizia di quello che è successo vicino a Donetzk, Petija piangeva. Suo figlio e' in età di leva, nel villaggio di Maxima Gorkogo hanno tutti il terrore che arrivino le lettere di precetto. Nessuno vuole partire per il fronte. Questa è una guerra insensata, alimentata ad arte dal Cremlino, che sfonda i confini, per creare corridoi illegali da cui far passare le armi pesanti. L'Europa finge di non vedere, volge la testa dall'altra parte. In territorio russo, nel distretto di Rostov, poco distante dal confine, i missili Graad partono per bombardare le case dell'Ucraina.
La città ucraina di Sloviansk viene bombardata dallo stesso esercito ucraino. E' paradossale. Nella zona dell'aeroporto di Donetzk le auto vengono fermate, i passeggeri assassinati a sangue freddo. Come qualcuno ha scritto, questa è un'estate di dolore per l'Ucraina. Nel silenzio, nell'indifferenza, nella totale ignoranza di quanto accade da parte di noi europei. Vedere le lacrime di Lera, di fronte alla sua casa in fiamme, che osserva atterrita tutto quel poco che aveva andare in fumo, in attesa dei pompieri che non arrivano, fa male al cuore.
Questa povera gente e' innocente, non ha più niente, ora la loro vita sarà piena di odio. Nella zona est le persone che ancora ce l'hanno una casa, si preparano a vivere nelle cantine, nei sotterranei, nelle parti solitamente disabitate, portano i materassi: donne, vecchi, bambini, tutti andranno a vivere lì , in quel loro bunker provvisorio. Senza intonaco alle pareti, acqua corrente, energia elettrica, né porte o finestre. I bambini giocano con le lamiere arruginite, mentre la pioggia di bombe, sventra case fa saltare in aria le macchine, investe i passanti. Dopo rimane la misera contabilità dei morti. Frattanto la disinformazione russa diffonde foto false, notizie false, è l'arma della propaganda: sembriamo tornati agli anni 50, eppure tutto questo accade, oggi.

12 luglio 2014

Diario ucraino. 11 luglio 2014. Ore 23,57.

Telefonate notturne piene di angoscia, apprensione, notizie frammentarie. Gli ospedali a est sono pieni di feriti, abbondano, ufficialmente sono dodici, tredici in realtà centinaia. Hanno atteso un aereo per il trasporto dei feriti a ovest, per tutto il giorno. Frattanto i più gravi morivano. Non c'erano medicinali, gli ospedali sono sovraccarichi, il personale medico non è più abituato a lavorare giorno e notte, a fare operazioni chirurgiche di alta precisione. La disperazione dei familiari è alta. Telefonate di Natasha da Odessa, suo figlio Sergeij è in età di leva, sta ancora studiando. Il poliziotto del villaggio è venuto allo spaccio, da Akimovka, ha detto che partiranno in tanti, dal villaggio. Maxima Gorkoga, un villaggio di poco più di 300 abitanti.
La vecchia Emilia ha ascoltato quelle parole, lei e' la nonna di Sergeij. E'tornata a casa di corsa, in bicicletta. Lasciando al negozio la busta con la spesa appena fatta. Si è messa a piangere, non riuscivano più a consolarla. Ogni giorno Emilia aspetta di rimanere sola, non vuole farsi vedere da Sergeij, non vuole farsi vedere da suo figlio Petia; aspetta di rimanere sola e si mette a piangere. Vive nel terrore di vedere partire i suoi cari per la guerra. Questa la sua quotidianità. Si cerca di capire cosa si può fare per questi ragazzi, ora comunque non partono solo i ragazzi. Un uomo di 49 anni, che aveva fatto il militare ed era un graduato, tenente, nonostante avesse un bambino di appena pochi mesi, e' stato richiamato alla leva. Adesso è al fronte. Si vivono ore di angoscia. La domanda che le persone normali si fanno, questo è un paese in guerra, che sta vivendo una guerra civile, anche se l'Europa finge di non accorgersene. La domanda che le persone normali si fanno, dicevo, è: "hanno diritto all'asilo politico, hanno diritto allo status di rifugiato?" Sergeij dice che non vuole uccidere qualcuno in guerra, dice che non vuole rimanere senza fare niente, non vuole venire in maniera illegale.
Sergeij vorrebbe semplicemente trovare un lavoro fuori, aspettare qualche mese che la tensione cali, si spera, e poi darsi da fare, tornare al suo villaggio, trovare un'occupazione. Farsi una vita. Hanno guardato i paesi in cui potrebbe andare senza il visto. Il Kossovo, la Serbia, la Moldovia. Poco altro; la Turchia forse. I discorsi sono di questo tenore: "adesso che sono sani tanto vale spendere i soldi. Perché dopo se li feriscono gravemente, rischiano la vita, se vengono colpiti, se vengono feriti al fronte, i soldi li spendi comunque e poi magari non ci sarà più niente da fare". I discorsi sono di questo tenore. I soldi, i soldi che non ci sono, i soldi da trovare. Per cercare di salvare una vita. Per cercare di salvare la salute dei propri figli. La salute dei propri cari. Natasha dice che vuole vendere la macchina che ha appena comprato. Una macchina che doveva fare dei soldi per lei, una slot-machine. Natasha dice che non le importa più. Che non le importa guadagnare, lei vuole salvare la vita del figlio. Il figlio e' Sergeij. Lui dice che non vuole venire da illegale. A lui fa schifo l'idea di essere un clandestino, di non potere lavorare. Di vivere ai margini.