19 agosto 2006

ARGENTO! capitolo 40



Trottavano sconsolatamente verso nord. Uomo e bambino, a cavallo di Herr Doktor. Senza pronunciare una parola. Ascoltavano il vento fischiare mentre il sole poco a poco asciugava quell’umido che appena un giorno prima sembrava eterno.
Con gli occhi da ebreo triste, che tante donne avevano sedotto in passato, ora osservava meravigliato un paesaggio cangiante, che lentissimamente, riscaldato dal sole, riportava arbusti e rocce e fronde e perfino i cartelli stradali superstiti al loro tono opaco e polveroso di sempre.
Non avevano mangiato nulla da un pezzo e le loro pance vuote gorgogliavano a commento di quello spettacolo inatteso.
Il cavallo, incurante, procedeva, nel suo incedere ritmico, manco fosse l’unico ad avere una meta precisa.
Era l’ignoto a spaventarlo? Vladymir non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che il senso di malinconia che gli serrava la gola, aveva fattezze femminili, e se avesse interrogato, alla ricerca di un nome, il fastidio che gli indolenziva le ossa sarebbe stato chiaro che non era artrite, ma Lupita quel nome.
Lupita Lupita Lupita. Gli piaceva come risuonava il nome della sua malattia incurabile. E Soffiava. Soffiava e sibilava dentro di lui molto più potente del vento del nord che lo rinfrescava di tanto in tanto in quella sua avanzata verso il non si sa dove.
Non gli piaceva pensare. A chi piace pensare quando soffre per amore? Ma era uomo di mondo, dopotutto, e aveva imparato che i mali della vita si schivano, sino a stordirli, come fanno i toreri nell’arena. E si schivano con stile, se non vuoi solamente sopravvivere. Per cui sorrideva e faceva le sue veronicas con grazia sopraffina.
Aveva imparato da adolescente, muovendosi in quel mondo di adulti che lo aveva chiamato uomo troppo presto.
Vladymir era questo probabilmente: un bambino mai cresciuto, restato in solitudine per tanto di quel tempo da non ricordare più niente di sé.

Un giorno prima, Elmer, nascosto tra le frasche, mentre lo spiava rassettarsi e riportare a un aspetto civile le cose e il cavallo, aveva creduto di riconoscere la sua stessa solitudine di bambino.
Ed era stato rapito dalla passione con cui Vladymir nettava; con maniacale precisione, quei volumi dall’aspetto antico e prezioso.
Lui che il suo volume nero, sottratto al Duca di Porcellana a prezzo altissimo, aveva perso per sempre in quel mare di mota.

I gabbiani volteggiavano su di loro, e questo fu prima che intravedessero la baracca del cercatore, e prima che si illudessero di mettere qualcosa sotto i denti. Sollevò la tesa della lobbia, solo il tanto per vedere quegli uccelli sgraziati che interpretavano il ruolo di avvoltoi.
“Avete sconfinato, piccoli, il mare è lontano, a sud”.
Elmer fissava quei gabbiani con intenzione. Vlad, pur senza vederlo avvertiva quello sguardo fisso.
“Elmer sa. Io sa cacciare uccelletti”.
“Non sono uccelletti figliolo. Sanno di stoppa e di pesce. Pessimo connubio”.
“Elmer fame; bisogno nourriture”
“Vladymir capito, ma gabbiano no buono.”

Poi Herr Doktor imboccò la strada più piccola a un bivio e di li a breve si ritrovarono per una piana sconfinata, Quel che restava di un cartello penzolava, a pezzi, e portava un’iscrizione ancora leggibile.
“Sa Stria” diceva.
Era una grande distesa bionda di grano che costeggiava la carrettera.
“Questa è terra coltivata” disse Vladymir.
In fondo alla vallata, dietro il letto di un torrente secco, una piccola baracca da cercatore d’oro che avrebbe avuto bisogno di un restauro serio aveva un comignolo fumante.


Una donna intenta a issare un secchio d’acqua da un pozzo li vide in lontananza.
Cavalcavano da diverse ore e anche le borracce erano ormai quasi a secco. Scacciò con un soffio le mosche che si accanivano sulle labbra screpolate e apparecchiò il suo sorriso più rassicurante. Se la donna era sola non si sarebbe sentita a suo agio con un uomo e un bambino alla porta. Questo era logico. L’esperienza lo insegnava.
Erano circostanze strambe quelle, suonate da un destino avverso e stonato che dettava il ritmo a una giornata schifosa. Vladymir se lo diceva mentre, con aria sussiegosa, cercava di apparire il meno morto di fame possibile.

La donna lo fissò e si allontanò rapidamente con i due secchi d’acqua.
“a quanto pare non siamo i benvenuti figliolo”.
La porta si rinchiuse.
Era un gesto che non ammetteva repliche quello.
Ma Vladymir non era tipo da arrendersi alle prime difficoltà.

Scese da cavallo e si portò Elmer a fare da spalla in quella recita miserevole e poco plausibile. Con il cappello in mano attaccò la solfa:
“Gentildonna, non abbiate timore, sono un uomo di fede, mi chiamo Vladymir Andrey Rostropovitch. A dispetto delle apparenze sono un uomo onesto. Le circostanze avverse conducono me e mio figlio Homer …”
“Mio nome Elmer no Homer”
“Si, dopo figliolo, adesso taci, grazie”
“Me e mio figlio Homer, dicevo, costretti a chiedervi asilo. So che siete donna caritatevole, sono i vostri lineamenti a dirmelo e io che fui studioso di fisiognomica non sbaglio su questi …”
“Siete sotto tiro e sto per aprire il fuoco”.

“Comprendo i vostri argomenti Gentildonna e pur tuttavia mi trovo costretto a insistere…”
“Uno…”
“Due…”
“Possiamo almeno riempire le nostre borracce?”

La schioppettata sdrucì la spalla sinistra della marsina di Vladymir ed eccheggiò per la vallata terrorizzando Herr Doktor.

“Il prossimo colpo non miro alla spallina ma dritto in fronte. Capito straniero?”

“Capito capito, femmina della malora”. Sentiva che si stava già innamorando; aveva un debole per le donne di carattere, ma il suo senso di sopravvivenza unito all’istinto molto terreno di Herr Doktor lo portarono subito fuori tiro.

Poi si voltò di colpo e disse “Maledizione. Il bambino”

Non c’era traccia a perdita d’occhio. Non poteva mica essersi volatilizzato.
Decise di accamparsi ad attenderlo poco distante, seppur decisamente fuori tiro; ne aveva avute abbastanza in quelle ultime ore.
Accese un fuoco, per dare un segnale e poco dopo sentì un altro colpo di fucile e poi un altro ancora. Ma non ebbe il coraggio di andare a vedere cosa stava accadendo.

Quando se lo vide apparire, di colpo e sorridente, con una gallina morta tra le braccia Vladymir ebbe un sussulto. Capì subito che quel ragazzino aveva delle risorse inaspettate. E questo fu un sollievo per lui perché non ci si vedeva a viaggiare zavorrato dovendosi occupare di quel marmocchio oltre che di sé e di Herr Doktor.

“Bene bene bene bene, figliolo.”

Fecero un lauto pasto gustando gli ultimi sorsi d’acqua delle loro borracce, come fosse nettare. E una mezz’ora dopo erano ancora accampati perché Vladymir, per ringraziare il suo Dio che gli aveva inviato Elmer e la sua forza di iniziativa prese a leggere:

“L’uomo dai molti percorsi, o Musa, tu cantami, colui che molto vagò dopo avere abbattuto la rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città, scrutò la mente e molti dolori sul mare patì nel suo cuore per guadagnare a sé la vita, il ritorno ai compagni”.

Il sole era alto. La vallata coltivata a grano era accarezzata da folate di vento fresco che muovevano le fronde dell’ulivo sotto cui erano accampati Vladymir ed Elmer. All’ombra e con la frescura, a stomaco pieno e con un buon libo in mano Vladymir cominciava a riacquistare il suo sorriso abituale.

“Questa è la storia di un grande guerriero che tutti credono morto, figliolo. Un racconto di viaggi e incontri formidabili. La più bella storia che sia mai stata scritta”.

“continua leggere. A Elmer piace”

Ma neppure così li salvò, per quanto lottasse….”

Furono interrotti da una voce grossolana, un accento forestiero che diceva:
“guarda guarda, che bella scenetta” e si voltarono entrambi, disturbati e un tantino sconsolati, e videro delle canne di fucile spianate all’altezza dei loro volti.

“alzatevi lentamente, e non una mossa falsa, bastardi”