26 giugno 2014

Tokyo, 25 giugno 2014

Yuka mi porta nella casa delle geishe, me la mostra. E' un locale silenzioso, nascosto in un vicoletto di Kagurazaka. Un posto frequentato da persone piuttosto facoltose. Il mito delle geishe mi interrogava già da anni, tanto da averle disegnate, nelle pagine di Goodbye Baobab, anno di grazia 1982. Queste donne misteriose, con il koto e lo shamisen, i due strumenti che usano per raccontare e cantare le loro storie, erano la quintessenza del Giappone antico e sfuggente.
Meno di dieci anni più tardi, nel mio primo viaggio a Tokyo, in compagnia di Patrizia, allora mia moglie, fummo ospiti della famiglia O., i più grandi costruttori del Giappone. Era un viaggio di lavoro al quale mi accodai volentieri per visitare un luogo a lungo sognato. Non ricordo come fu precisamente, ma assistemmo a uno spettacolo kabuki. Che era uno spettacolo speciale, perché ospitava numerose geiko e si chiamava appunto kabuki-geisha. Queste alternavano i loro canti sinuosi e gutturali ai recitati gravi e baritonali dei cantanti maschi. Lo spettacolo fu una cosa che mi fece capire per sempre il potere magico del teatro, e del racconto, mi ricordo una nevicata, evocata da un roteare di luci, che faceva venire freddo. Rimasi ammirato per una tecnica di emissione vocale che una vecchia geisha aveva messo a punto. Un'impostazione del tutto sconosciuta da noi, per nulla praticata, intendo, che dava delle coloriture scure e profonde a questa vocina che si ostinava a voler apparire come flebile e fragile. Il palco era immenso e con costumi e colori degni di un ukiyo-e; entravano e uscivano non meno di una dozzina di attori, più i servi di scena, che mascherati di nero svolgevano il loro lavoro, spostando scenografie e costumi caduti nell'azione scenica. Ai lati 22 musicisti e cantanti raccontavano e accompagnavano la storia. Assistevo in estasi a quel prodigio. Una visione antica, popolare, come lo era il teatro kabuki, naif, negli espedienti da teatro primitivo capace tuttavia di creare emozioni importanti, che riverberano profondamente dentro lo spettatore, e portano suggestioni quasi inspiegabili. E l'inspiegabile si palesò, dopo, a spettacolo terminato, quando i nostri facoltosi ospiti ci inviatrono a cena, in un ristorante antico nel retro del teatro. Lo scorrere degli shoji ed ecco entrare per intrattenerci 2 geishe e una maiko (apprendista geisha). Provenivano direttamente dal palco. Erano alcune di quelle che avevo ammirato cantare poco prima. Loro servivano da bere a un ospite imbambolato che le fissava come si fissa un essere proveniente dalla luna. Sembravano di gesso, con il volto dipinto di bianco e le movenze cadenzate. Chiesero chi ero (dato che a me e ai miei era riservata un'accoglienza regale, dovevo essere importante, e invece ero solo un uomo fortunato). Gli ospiti giapponesi alzarono la posta e fecero intendere che ero importantissimo e ricchissimo, al punto che una di queste, che mi intratteneva con i suoi canti, mi porse un meishi, il suo biglietto da visita. E io, naturalmente, lo presi. Scatenando l'ilarita generale, perché significava che avevo accettato di prenderla sotto la mia tutela, e di impegnarmi a pagare kimono e parrucche che costavano una fortuna. "Igo chan" mi sussurrava lei, mentre mi accompagnava in un nuovo locale per assaporare un whiskey giapponese, totalmente soggiocato dal fashino di quella donna. Ricordo distintamente quando apparve nella mia mente, come un bagliore, un'illuminazione, il titolo di un romanzo di Tanizaki che avevo molto apprezzato: "l'amore di uno sciocco", così si chiamava.

24 giugno 2014

Tokyo, 24 giugno 2014

BROANNN. Piovigina e poi piove decisamente. Tokyo si rinfresca. Dopo poche ore il sole nuovamente. Esco, in metropolitana un signore dall'aspetto sereno si avvicina a un sedile, si inchina e raccoglie un portafogli rigonfio. Lo mostra e chiede a tutti di chi sia. Una donna dice che è caduto a qualcuno che è appena sceso, che sedeva lì, di fianco a lei. L'uomo e tutti si preoccupano, nessuno osa aprirlo, il portafogli. L'uomo scende alla fermata successiva, la mia, lo vedo che va all'ufficio degli oggetti smarriti, consegna, ridiscende e aspetta la metropolitana successiva.
Più tardi vedo Corinne, suo marito è un importante fotografo giapponese, originario della zona di Fukushima. Il villaggio di pescatori in cui è nato è stato spazzato via dallo tsunami. Sono rimaste solo le strade. Un reticolato di strade che non conduce da nessuna parte. Si tratta di ricostruire il villaggio. Ma più al riparo. Sono pescatori, hanno imparato a rispettare il mare, a temerlo anche. Ma non possono vivere lontano. Suo marito, che aveva fatto diversi scatti di vita quotidiana, si è trovato ad andare negli stessi luoghi dove ora c'erano solo macerie.
Ha dovuto elaborare il lutto. Comparare le foto, il prima e il dopo. Era sbigottito. Si rimane devastati dentro, incapaci di comprendere, quando perdi di colpo parenti e amici, e non hai più un luogo dei ricordi. Ora, per la ricostruzione si pensa di segare la montagna, di spostarne una parte, a mò di riparo. Un'opera di grande ingegneria che racconta molto della volontà dei giapponesi di trovare un compromesso, non sempre facile, con la natura. Fukushima è una ferita aperta, che ha lasciato il segno. Oggi, in ogni mercato del Giappone, è comparso, sotto al pesce esposto, un nuovo tampone che spiega l'origine e dice che il pesce è stato sottoposto all'esame e non è radioattivo. Corinne mi chiede se voglio raccontare la storia di questo villaggio. Mi dice che ognuno ha reagito in modo diverso. C'è chi lascia per sempre e se ne va lontano, dove ha studiato da ragazzo, chi invece vuole partecipare attivamente alla ricostruzione. Mi dice che ci sono storie di tutti i tipi, che sarebbe bello raccontare. Come quella di un loro amico pasticcere, che si è trovato a ripartire da capo. Dopo lo tsunami doveva ricomprarsi forno, teglie, impastatrice, tutti gli utensili di lavoro. Ha fatto la sua ricerca via internet. E, contattato il venditore, una volta accertatosi di aver trovato le cose che gli servivano, ha fatto l'ordine di acquisto. Il venditore ha ricevuto l'ordine, poi ha letto l'indirizzo e ha chiamato il pasticcere. "Non posso prendere soldi da lei, che ha avuto una tale sciagura".
Gli ha spedito tutto quanto era stato richiesto senza incassare uno yen.

23 giugno 2014

Tokyo, 23 giugno 2014

A volte mi perdo a osservare i grandi magazzini, ci vado come se andassi in un grande museo, un museo delle merci. Due salti da Mitsukoshi, che è come dire Gli Uffizi di Tokyo. Tutto corre veloce, una miriade di persone intente a scegliere, assaggiare, guardare, ordinare, incartare, porgere: "arigato gozai masu" ed è tutto un inchino. Le vetrine. Ah! Bisogna essere insensibili per non commuoversi davanti a certe composizioni, certe architetture cromatiche. Che sono, al pari di quelle dei piatti nei ristoranti, di una bellezza commovente. Io ammiro, il mio sguardo si sazia. Ecco dei dolci tradizionali giapponesi, i Daifuku, fatti con i fagioli azuki. Delicati e fini. Li si impara ad apprezzare dopo un pò. Ecco, questo penso: se il tempo si fermasse e noi cessassimo di agitarci inutilmente, temo che coglieremmo la portata kafkiana di questo rito di consumo e accumulazione. Ma, frattanto, come non arrendersi a queste geometrie, come non lasciarsi accarezzare da questi colori pastello?
Tornato al Niwa spengo l'aria condizionata e apro il vasistas verticale della mia finestra. Entra una brezzolina molto più salutare, ma anche il CLANG CLANG dei cantieri vicini.
Li sento che sferragliano, gli operai, e martellano le putrelle d'acciaio, costruiscono gigantesche impalcature in pochi giorni. Il loro frastuono si confonde con quello dei treni della JR, poco distante. Tokyo è davvero il luogo del mondo fluttuante, come si diceva un tempo degli ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) l'operosità giapponese modifica l'aspetto della città di giorno in giorno. Oda San mi mostra il luogo dove sorgeva il palazzo della Shogakkukan, ora vuoto, un cantiere è sorto, e in pochi mesi ci sarà il nuovo palazzo, più grande di quello precedente. Mentre facciamo quattro passi nella zona di Kagurazaka, Giorgio mi mostra un grattacielo, mi dice, "Vedi? Quello è il palazzo della Kadokawa", poi specifica, "anzi, no quello è il palazzo della terza divisione della Kadokawa". L'industria dei media qui sembra non conoscere crisi. "Siamo a un punto di svolta, è chiaro", dice Oda San. "Prima si leggevano più riviste, ma ora i fumetti si leggono nei telefonini e i libri si vendono più di prima".
Alla sera, cena con Yuka, E Yuko, e Shin San, editor della Kodansha. E brindare in onore dell'impero della carta, che volge al termine. In pochi anni i fumetti saranno perlopiù per i tablet. E li collezioneremo, quelli belli, stampati su carta, come oggi collezioniamo i vinili. Shin è preoccupato, dice, "la pirateria non la puoi fermare. Il consumo è volto alla quantità, non alla qualità. Guarda come ascoltiamo la musica oggi. E' gratis, ma sono degli mp3, un formato qualitativamente scadente." Si levano i bicchieri. "Già, campaaaaaiii".

22 giugno 2014

Tokyo, 22 giugno 2014

Nel suo bell'appartamento al dodicesimo piano, vicino a Kudanshita, Giorgio mi mostra una meravigliosa edizione firmata di Ba ra kei. Ordeal by roses. Il libro di Eikoh Hosoe, che raccoglie le immagini delle sessioni fotografiche in cui Yukio Mishima posò, interpretando vari ruoli, tutti tragici e decadenti. Sono le foto a cui pensiamo quando pensiamo a Mishima. Un lascito, una porta su un mondo altrimenti esplorato in varie altre forme e con varie narrazioni. Tutte degne di nota.
E stamani, verso le 4, rivedo Yukoku, (憂国, Patrottismo). Il dramma filmato che Mishima interpretò e diresse nel 1966. Quattro anni prima di togliersi la vita. Nel film, dalla regia stlizzata e teatrale, anticipa il suo suicido rituale. E mostra la morte, in tutta la sua fatica fisica. Il bianco e nero sobrio è letteralmente sporcato dal sangue di questo corpo che non vuole morire. Mishima, lo scrittore giapponese più tradotto nel mondo, cambia le regole del narrare in Giappone, intrecciando letteratura, teatro e cinema. Una figura complessa che mi fa pensare ad altre visioni artistiche, per certi versi simili eppure diversissime come quelle di P.P. Pasolini o Jean Genet che attraversanono i linguaggi con un senso di inquietudine forsennata, che pareva non trovar pace.
Era la scrittura che si faceva corpo e che si incarnava, appunto, giungendo al regno del corpo, il teatro, e poi alla sublimazione metafisica di questo, il cinema, dove il corpo diventa un'ombra bidimensionale.

21 giugno 2014

Tokyo, 21 giugno 2014

Abbiamo appuntamento alle 2 al suo studio. Secondo piano, appartamento 210. Lui è lì che lavora come un matto, con i suoi 3 assistenti, fa crescere il suo nuovo libro, pensato non solo più per il Giappone ma anche per l'Europa, che ora lo ama. Io e Jiro siamo amici da vent'anni esatti, da quando cioè, vinsi la MMF Morning Manga Fellowship, che mi consentiva di stare un anno in Giappone. Potevo girarmi le dita ma invece colsi al balzo quella occasione unica per vedere il mondo del manga da vicino. Quando mi chiesero se c'era qualcuno dei mangaka che mi avrebbe fatto piacere incontrare, io dissi che, sì, Taniguchi mi interessava. Lui, strappando del tempo prezioso alle sue scadenze venne una sera a cena, nel ristorante di un grande albergo di Tokyo. Un uomo mite e timido che aveva l'aria di soffrire rispetto alle regole dell'industria della carta stampata nipponica, che imponeva scandenze inumane. Lui conosceva diverse cose del fumetto europeo. Si interessava di quello realistico, Giardino e Micheluzzi gli erano affini. E mi chiese se li conoscevo. Io ero curioso di quel suo modo di lavorare, personale e sensibile, che riusciva a sopravvivere alle onde oceaniche di un'industria della quantità. "sono un mangaka lento" diceva, "qui mi surclassano tutti". Ma i suoi occhi sorridevano, era chiaro che lui era un guerriero che la sapeva lunga, un vecchio maestro che non si faceva spaventare per così poco.
Negli anni il rito dei regali a ogni incontro divenne meno formale, "pensano tutti che io ascolti solo musica classica, ma a me piace il rock", scherzava, e mi regalava dischi dei calexico, o dei cibo matto. Io ricambiavo con musica dei latin playboys o di the black keys. "invecchiando sto diventando più lento, Igorto san" mi dice. Adesso faccio la metà di quello che disegnavo prima. Un solo libro all'anno. Mi parla di lavori che ruotano attorno alle 200 pagine, una produzione per cui ogni autore occidentale sarebbe felice. E lui, che in fondo lo sa, sorride sornione. "Ora che sei amatissimo in Europa, vorresti vivere da noi? Lavorare con i nostri ritmi?" Lui ci pensa e nei suoi occhi appare la nostalgia, fluttua per un momento nell'aria la silouhuette dell'isola incantata, il Giappone. "no, dice" non saprei vivere lontano da qui".
Sorridiamo, in questo pomeriggio caldo, sappiamo entrambi che è vero. E mentre ci offre del té verde gelato, e io scatto qualche foto al suo studio, lui si schermisce: "è molto disordinato, mi dispiace".
"Ma è tuo, Jiro san, questo studio è il tuo studio, si sente che qui nascono le tue storie". Parliamo de Gli anni dolci, un lavoro che ho molto amato. "Sai è tratto da un romanzo molto interessante". "lo so, Jiro San, ma tu hai fatto un lavoro di adattamento meraviglioso", Sorride imbarazzato. Poi, dato che ci dobbiamo rivedere dopo poche ore a cena lo lascio lavorare, so che per un mangaka essere interrotto nel momento della concentrazione è una violenza, un'invasione vera e propria. Prima di uscire gli dico, "un'ultima cosa Jiro San, questo inchiostro Pilot è buono? E' coprente? Lui dice che è molto buono, non è nerissimo ma è idro-repellente, e quell'altro è migliore, forse, non sa, l'ha appena preso. "Prendi la boccetta". "Ma no grazie, Jiro San, la trovo, volevo solo sapere come ti trovi". Poi mi fa vedere che traccia le linee con dei pennarelli calibrati Multiliner. Dice che li aveva chiesti anche Moebius, ma che poi non gli son piaciuti. Poi parliamo di pennini. I ferri del mestiere insomma. Lui insiste, vuole che prenda il suo pennino in regalo. Io dico: "ma come sarebbe Jiro San? E' come se due samurai si scambiassero le spade, una cosa insensata". Ridacchia: "no, no, io non sono un samurai, dai provalo". E così il pennino di Jiro san farà un lungo viaggio e verrà a vivere in Europa, farà compagnia ai miei Brause. E, ne sono certo, diventeranno amici.

20 giugno 2014

Tokyo, 20 giugno 2014

E' una serata umidiccia e calda di questo giugno giapponese, quando incontro Oda San. Lui è un henshu, (editor) della Shogakkukan, editore di punta del firmamento giapponese, e si occupa di alcuni tra gli autori più celebrati. Assiste il parto della regina del manga: Rumiko Takahashi, creatrice di Lamu, Ranma 1/2, maison Hikkoku ecc, una signora sulla cresta dell'onda da più di trentacinque anni, che ha veduto oltre duecento milioni di copie delle sue opere nel solo Giappone. Lei, multimilionaria, ha 6 assistenti, che la aiutano a produrre e confezionare graficamente, capitolo dopo capitolo, delle saghe infinite (38 volumi, quando non 56, per dire). Oceani di narrazioni vissuti in leggerezza, con il pragmatismo che è divenuto proverbiale. Hai qualcosa da dire? La dici, e c'è qualcuno che ti ascolta. Parliamo di schiere di fan, milioni appunto, che aspettano con calma apparente l'uscita periodica di queste storie. Generazione dopo generazione il rito si è rinnovato. E la Takahashi rifiuta di lavorare per le riviste di lettori "più adulti. "Vuole restare in prima linea", mi conferma Oda San. I manga qui si disegnano in equipe, il fumetto somiglia al cinema e l'autore a un regista. Un regista che deve tenere ben salde le redini del racconto, Il polso della situazione, per rendere sempre interessante ciò che racconta. Un'arte, è chiaro, che si impara anche stando all'ascolto, anche tendendo l'orecchio per capire come il tuo narrare arrivi o non arrivi al cuore di chi ti segue. E così che si svolge, con religiosa precisione, la danza di composizione di una nuova storia di Rumiko Takahashi. Sono le 22 in punto, qualcuno suona alla porta. Lei sa già chi è: Oda San, il suo editor. Oda san si accocomoda sul divano della stanza adiacente allo studio e aspetta. In quel preciso momento i fogli del sensei (il maestro, come si dice in modo cermonioso) sono intonsi. Sensei Takahashi si chiude dentro la stanza per non meno di un paio di ore. Oda attende. Ha sulle spalle un'intera giornata, ma è ben consapevole della responsablità che gli è affidata. Quando la porta di apre sono ormai passate le 24. Rumiko Takahashi ha le prime 4 pagine di un nemu. Un nemu è un forma molto primitiva di storyboard. Un uovo al posto di una testa, con su scritto A o B, per distinguere i personaggi. Ma la scansione narrativa, vignetta dopo vignetta, e i dialoghi, quelli, sono precisi e definiti. Oda San raccoglie le sue forze, legge l'incipit della nuova storia. Comunica le sue impressioni a una Rumiko sensei molto esigente. D'altronte la macchina del manga funziona così: un giovane autore lavora con un editor esperto. E un mangaka navigato lavorerà con un editor giovane, che in questo modo si farà le ossa. Uno scambio continuo, un flusso assai salutare che permette alla conoscenza di passare di generazione in generazione. Ma non è un gioco. Rumiko Takahashi è assai seria nel suo comporre le storie e realmente vuole che un editor le faccia da specchio, che le consenta di sentire se quello che racconta arriva, va a segno. Finito il primo round si rinchiude ancora. Oda attende ancora, lei deve comporre lo sviluppo, e nel farlo sa che lui è li fuori. Dato che rispetta il suo editor, che ha famiglia, figli, e che resta in attesa, insonne, lei ce la mette tutta per andare al punto. Esce nuovamente a mostrare le altre 4 pagine. Segue lettura di Oda san, confronto. domande puntuali su questo o quel personaggio, questa o quella reazione. Poi ancora nello studio, sino a notte fonda, sino a che la struttura di un capitolo di 18 pagine non è completata.
La parte grafica, in tutto il processo compositivo, sino a questo punto, non c'entra. L'editor, che Oda San ha brillantemente paragonato al ruolo di uno sherpa in una scalata del Kilimanjaro, ha il ruolo di preparare la spedizione, verificare le piste, assistere, portare il fardello. Sono uomini invisibili, come i servi di scena del teatro kabuki, che aprono botole, fanno scorrere scenografie, vestiti di nero e dunque, appunto, invisibili. Tu li vedi benissimo, ma sai che non ci sono, che la storia è altrove, che quanto devi seguire è altro. Se lo scalatore si perde, per quanto esperto può capitare, allora il ruolo dello sherpa è quello di indirizzarlo sulla pista giusta, perché è chiaro a tutti che si deve arrivare in cima. Un buon editor è questo, e un buon storyteller giapponese ne è del tutto consapevole, per questo gli editor seguono gli autori nei viaggi, nelle cene di lavoro importanti o durante le cerimonie dei premi, in patria o all'estero. E' chiaro a tutti che si tratta di un lavoro di equipe. E dunque per un piccolo istante, che dura lo spazio di un battere di ciglia, il palcoscenico è condiviso, il servo di scena si toglie il cappuccio nero, saluta, ha un nome, si parla del suo ruolo indispensabile, poi lui, modestamente come gli hanno insegnato, si inchina e scompare nell'ombra, lasciando il palco al sensei di turno. Finita la maratona notturna per comporre la struttura delle 18 pagine Rumiko Takahashi licenzia Oda. Possono entrambi andare a dormire. Per lei, dopo qualche ora, arriverà l'armata degli assistenti. Sono 6, a libro paga, e la aiuteranno a disegnare le 18 pagine in pochi giorni lavorando ininterrottamente. Perché la settimana corre veloce, e il nuovo numero della rivista deve essere pubblicato. Ci sono i lettori che aspettano di ridere e piangere seguendo le storie lievi e sentimentali di Rumiko Takahashi, chiamata, non a caso, la regina del manga.

19 giugno 2014

Tokyo, 19 giugno 2014

"Erano coltivati, come passatempo perfino dai samurai, i crisantemi", mi dice Kaoru. E poi mi fa vedere nel suo libro di storia e legge "erano amati per la loro bellezza anche dall'ottantaduesimo imperatore, Gotoba Tenno (1183-1198) il quale li fece diventare il simbolo della sua casata". L'aristocrazia giaponese prese ad apprezzare quel fiore, simbolo di lunga vita, di pace, e di nobiltà d'animo. E con il tempo si instituì anche la festa del "giorno del crisantemo, 菊の節句 Kiku no Sekku, celebrata il nono giorno del nono mese (9 settembre). La fioritura avveniva con l'arrivo dei primi freddi e concludeva il periodo attivo e creativo dell’anno. Kaoru San, la maestra di ikeabana che incontro a Nishi Nippori, lo ama particolarmente. "E' il mio prediletto, questo fiore", dice, "forse perché è legato alla storia della mia famiglia". Racconta che suo padre le diceva: "guarda bene il crisantemo, è come un sole, con i suoi raggi". Mi rendo conto che la storia del crisantemo è da secoli intrecciata a quella del Giappone. Da quando almeno, sebbene esistessero degli esemplari autoctoni, una specie selezionata in Cina fu importata più di mille anni fa. Il simbolo di un sole con tredici petali lungi e stilizzati si trova ancora oggi nel tempio di Yasakuni. Il nono giorno del nono mese, durante la festa, le cortigiane sfilavano, nel quartiere dei piaceri, e le case d'appuntamento esponevano vasi di crisantemo davanti all'entrata. La processione conduceva a un santuario dedicato a Inari (la divinità volpe, simbolo di femminilità) dove si pregava per una giovinezza duratura e per una vita lunga e felice.
Con la crescente popolarità di questo fiore si arrivò a costruire delle figure umane a grandezza naturale, dette kiku ningyo (菊人形, letteralmente bambole di crisantemo) che si preparavano costruendo una leggera struttura in canne intrecciate o di fil di ferro, su cui venivano fatti crescere i fiori, a mo' di veste. Poi testa, mani e piedi li si modellava in cera e colorava in modo realistico. Spesso si poteva riconoscere il volto di un attore famoso del teatro kabuki. Il biglietto d’ingresso per questo genere di esposizioni era di solito carissimo, dato il costo elevato per produrre queste bambole a grandezza naturale. Oggi purtroppo l'usanza è scomparsa. L'idea che il crisantemo simboleggi la vita lunga viene dal fatto che cresce anche in zone desertiche, resista al gelo e non perda i petali neppure quando appassisce. Kaoru San mi offre dei biscotti e cerca un libro in inglese. "lo legga, me lo restituisce prima di partire". E' un libro degli anni Cinquanta che sfoglierò in seguito, assorto nella contemplazione delle numerose stampe Ukiyo-e, raffiguranti quel fiore. Il libro racconta che l'imperatore lo celebrava nell'augurio che l'affievolirsi della luce solare non coincidesse con un calo dell’energia vitale negli uomini. DIce anche che in Giappone, forse a causa di questo, una tradizione antica e curativa consiste nel porre un batuffolo di cotone sui fiori di crisantemo, l'8 settembre, alla vigilia del giorno del festival. La mattina successiva, il cotone, bagnato dalla rugiada, viene utilizzato per la pulizia del corpo; questa usanza di purificazione è nota come “cura da cotone del crisantemo”. Sono le 5 del mattino l'alba è sorta da circa un'ora, in questo giugno giapponese.

18 giugno 2014

Tokyo 18 giugno 2014

Di mattina torno a Tokyo kanda, la mia porta del tempo, la libreria a più piani che custodisce quaderni, libri, riviste di tutte le epoche. In quel posto, nessuno sa bene perché, ma si parla sottovoce. E' un tempio, un luogo di culto delle epoche remote. Molto diverso da Mandarake, libreria a 6 piani che vende dai giochi, ai manga, ai dvd e che somiglia più a una sala di pachinko, con il suo via vai formicolante. Tokyo Kanda è un palazzo dall'aria dimessa, a Jimbocho, nei suoi 8 piani ci sono tanti piccoli negozietti, che vendono essenzialmente libri o reliquie pubblicate. A me ricorda le rivendite di fumetti usati che frequentavo da bambino, quando, immerso nei sogni di carta, imparai il potere magico dei libri. La carta qui in Giappone è qualcosa di importante. Rimango ad osservare per dei minuti le edizioni dai colori avvolgenti di Osamu Tezuka o Sampei Shirato, Poi prendo in mano due volumetti fuori serie di Suhio Tagawa, sempre editate in modo curatissimo, come la serie Norakuro. I libri sono protetti, sia cofanetto che volume, da una sottile carta velina, ma sono consultabili. Li apro e la magia comincia. Ad avvilupparmi non è solo l'odore di quasi un secolo che conferisce alla carta il potere di evocare i milioni di avvenimenti di cui il libro è stato certo testimone, ma anche i colori vivaci che la patina avorio dell'invecchiamento ha reso struggenti. Il mio cuore esulta, sfoglio pagina dopo pagina cercando di assaporare al massimo quello che vedo. E vedo moltissimo Giappone dentro, vedo l'autore Suhio Tagawa giovanissimo, che consegna le pagine originali dei suoi manga alla Kodansha, negli anni Trenta. In quella palazzina che io stesso ho frequentato, dalle colonne possenti, in marmo, con gli spazi dai soffitti altissimi, che fanno risuonare il suono dei geta e dei tacchi. CLACK CLACK. Gli inchini rituali prima di ogni colloquio, le tazze di té verde bollente, le sigarette accese nelle riunioni per decidere il merchandising, che nel caso di Tagawa, giovane di genio, è stato tantissimo, paragonabile a quanto si produsse per Disney in quell'epoca. C'erano oggetti di legno, giochi di latta, orologi, con il volto e il corpo dei personaggi che prendevano vita, si animavano, che non volevano risiedere nella sola carta. Eppure la carta che qui, in Giappone, è territorio condiviso, attraversa l'esistere, un esistere tattile in cui la qualità del ruvido, increspato, trasparente, semitrasparente, sono categorie importanti. La carta avvolge gli oggetti, in quel rito di incartamento che vuole il foglio obliquo, a rombo, e non ortogonale a quadrato, come da noi, che contiene scatole di cartone vergato, su cui sono stampati spesso ideogrammi a pressione, tono su tono, apparentemente invisibili. Su cui la carta creerà ulteriori traparenze. Il tatto e la vista, il gioco del vedere e non vedere. Un'arte, un rito, che qui volge al sublime, secondo il costume che celebra "il dare" come gesto di condivisione simbolica più importante del regalo stesso. La carta avvolge anche il corpo, in un certo senso, dato che compone le pareti gelatinose e semoventi dei paraventi, che si chiamano shoji. E' una vita rasoterra, quella degli anni Trenta, il Giappone non è ancora contaminato troppo dall'occidente con la sua concezione del sedere elevato. Il letto non si chiama ancora beddo, si chiama Futon, ed è a somparsa, negli armadi a parete, una volta che la luce del giorno inonda queste case di legno. Tokyo è ancora una città sospesa, una democrazia illuminata, che lascia il passato medievale che qui dura sino agli anni Dieci e si sta per trasformare nel Giappone imperialista dell'epoca Showa, con l'imperatore Hirohito, insediatosi nel 1926.
Tagawa intuisce il nuovo corso, il suo personaggio cane, Norakuro, fa il soldato. Il giovane autore ha servito da poco, per ben tre anni, come usava allora, nell'esercito. Ironizza, nelle sue storie buffe, traspone i suoi ricordi. Così il cane va alla guerra. Ed è qui il tragico destino che rende struggente queste storie, il fatto che, come per il film Momotaro (di appena qualche anno dopo) il territorio dell'infanzia venga sporcato, violato, nella sua purezza, dall'idea della morte e dello scontro. C'è qualcosa di perdutamente tragico ed essenzialmente giapponese in tutto questo. Il sorriso amaro accarezzato da un crisantemo.

17 giugno 2014

Tokyo 17 giugno 2014

Mikiko dice che la questione dei burakumin è molto delicata, non tanto a Tokyo, quanto a Kyoto e Osaka. Dove i burakumin erano costretti a vivere in quartieri ghetto. Dice che suo marito è di Kyoto e che come tutti, in quella città, conosce i quartieri dove abitano i discendenti dei burakumin. Dice che è vero che ogni ditta giappponese ha accesso al database dei nomi di famiglie burakumin e che evita di assumere i discendenti degli appartenenti a questa casta di intoccabili. Mi spiega che le caste giapponesi erano 4: samurai, agricoltori, artigiani e commercianti. Che i burakumin erano al di sotto di queste , a tutti gli effetti considerati degradati, intoccabili. E non erano solo persone in contatto con il sangue per via della loro professione (boia, macellai, conciatori di pelle, beccamorti), ma anche ex detenuti, mendicanti, prostitute, spazzini, acrobati e altri intrattenitori. Una qualunqe persona di umili origini avrebbe potuto rientrare nella categoria se riconosciuto colpevole di determinati atti impuri, come l'incesto o peggio, i rapporti sessuali con un animale. Era per questo che li chiamavano hinin, non umani o eta, letteralmente massa lurida. Non solo, ma se per esempio la figlia di un agricltore, appartenente dunque a una casta superiore, a causa di avverse condizioni economiche fosse stata costretta a prostituirsi, allora le sue origini sarebbero state ignorate e lei sarabbe stata considerata a tutti gli effetti una burakumin. Mentre viceversa non era possibile per un burakumin aspirare ad accedere a classi superiori.
Quando dico a Mikiko che è successo un incidente diplomatico serio con Google Maps perché ha pubblicato le mappe dell'antica Edo e di Osaka che segnalavano i luoghi ghetto dei burakumin, e che grazie alle moderne tecnologie oggi è possibile vedere gli edifici sorti in quelle aree, quasi non mi crede. "E' una cosa del tutto irresponsabile" dice. Ed è chiaro che la libera circolazione di informazioni riapra una ferita mai veramente rimarginata nel Sol Levante. Dato che i circa 3 milioni di discendenti dei burakumin preferirebbero che questa triste storia di discriminazione e segregazione fosse dimenticata per sempre. "Oggi ci sono agenzie che ci fornisco dei dati, interi alberi genealogici, storia delle famiglie ecc.e quando crediamo che una persona sia discendente dei burakumin facciamo un'indagine. Se il risultato è positivo evitiamo di assumerla". E' quanto dichiara l'addetta al personale di una grande ditta giapponese, che parla a condizione che sia garantito l'anonimato a lei e alla sua ditta. Il governo giapponese ha recentemente emesso una nota di biasimo nei confronti di Google maps. E Google Maps si dichiara a favore dei diritti umani, ovviamente, ma parla di interesse storico. Sono due facce della stessa ipocrisia, dato che niente si fa veramente per evitare che questa discrimanzione cessi di esistere. Durante il Periodo Meiji, a metà dell'Ottocento, le caste furono abolite, e i cosidetti "degradati" furono considerati nuovi cittadini (un modo furbo per distinguerli comunque dai vecchi cittadini, appartenenti alle caste), ciononostante questi ultimi si dichiararono disgustati di essere parificati agli intoccabili, e coniarono il termine di Burakumin, apparentemente meno dispregiativo di non umani o lerci. Oggi passeggio per Asakusa, l'antichissimo quartiere dei divertimenti di Tokyo, dove sorse il Denkikan (電気館, letteralmente sala elettrica) il primo cinema, che proiettò nel 1914 Antonio e Cleopatra. C'erano teatri, locande, e case di piacere. Non è difficile rendersi conto che ancora oggi sono numerosi i negozietti o le imprese artigiane che lavorano la pelle. Questo era uno dei ghetti burakumin della vecchia Edo, oggi Tokyo. Il che spiega, tristemente, perché quell'area fosse anticamente malfamata.

16 giugno 2014

Tokyo 16 giugno 2014

Agli albori del manga le lastre per riprodurre delle tavole a fumetti, negli anni 30, si facevano a mano. E il giovane Osamu Tezuka, prima che la nuova tecnologia permettesse una riproduzione fotografica dei disegni originali, si dannava per parlare con gli artigiani incisori perché non gli modificassero nasi e orecchie a seconda della moda che cambiava o del loro gusto personale. "io voglio che voi facciate esattamente i miei nasi, non uno più lungo, o più schiacchiato. Vorrei proprio i miei". Stiamo parlando della prima metà del Novecento. E nonostante quel lavoro supplementare di "controllore", Tezuka, alla fine della sua carriera ammetteva di soffrire, nel vedere il suo lavoro di un tempo mortificato da quel passaggio tecnico così arbitrario. Oltre un secolo prima di lui si facevano gli ukiyo-e, le stampe del mondo fluttuante. Le stampe erano xilografie, e c'erano dei maestri incisori, che, incollato su una tavoletta di legno il disegno originale, fatto a inchiostro, cominciavano a inciderlo, al fine di ricavare la matrice per la stampa. Anche Katsushika Hokusai si lamentava con i maestri incisori dei primi Ottocento, che deformavano continuamente i suoi nasi o volti. Fu un tormento, questo, per gran parte della sua carriera, testimoniato da numerose lettere, che cessò di colpo, nel 1834. Quando Hokusai si imbattè in Egawa Tomekichi, l'artigiano che aveva lavorato sul 12º volume dei cosidetti "manga". Il termine MANGA lo si deve a lui, a Hokusai, ben prima che il fumetto facesse la sua comparsa ufficiale. Questo per dire che passano le epoche e si rincorrono i sogni di perfezione, che comunque è sempre una questione di nasi e di forme, e di compiutezza. Di questo parlavo con Saeki San, che incide i timbri, poco lontano dallo Spiral, a Omotesando. Lui mi dice che i timbri erano in uso nel passato anche presso i grandi pittori, gli artisti di Ukiyo-e, per esempio. I quali avevano il privilegio di poter adoperare il cognome, cosa di solito concessa agli appartenenti delle grandi casate. Oggi ce lo abbiamo tutti un cognome, ma prima dell'era meiji non era così. Ed erano in tanti a vivere come opere incompiute, persone a metà, cui non si riconosceva la forma corretta, la dignità di individuo finito. Il timbro in Giappone, arrivò a sugellare la fine di tutto questo, a completare la firma. "E' una cosa importante", dice. Rappresenta la persona. Per ribadire la cosa mi racconta che secondo una tradizione Shinto, alla morte di qualcuno, il timbro lo si deve custodire con cura, non può essere semplicemete gettato come una cosa vecchia e inutile. No, lo si deve prendere e ardere, in un rito. Accompagnandolo con delle preghiere. In Giappone segni e disegni sono la stessa cosa.

Tokyo 15 giugno 2014

Mi sveglio cullato dolcemente, da una danza che verso le 5 fa oscillare la camera al settimo piano di un palazzo nel quartiere Chiyoda-Ku. E' il mio quinto terremoto a Tokyo. Eppure non riesco a percepirne il pericolo, rimane per me un'esperienza astratta. Un dolce dondolio. Apro gli occhi. Luce. Poco prima stavo sognando dei Burakumin, la casta degli intoccabili giapponesi, i cui discendenti sono discriminati ancora oggi. La storia è questa: Il Giappone, al pari dell'India era suddiviso in caste. La più infima era quella dei cosidetti Burakumin (Buraku, vlllaggio, Min abitante: villici in pratica, ma se questo appellativo vi appare dispregiativo pensate che li si chiamava anche 穢多,"lerci" o 非人, "non umani") La loro colpa era che si occupavano di lavori umili, spesso collegati al sangue, un tabù per lo shintoismo. Potevano essere: boia, becchini, macellai o conciatori di pelle. Queste caste furono legalmente eliminate nel 1871, ma la discriminazione nei confronti dei Burakumin non cessò, e fu anzi tramandata, anche attraverso un libro pubblicato clandestinamente. Una sorta di lista nera che elencava famiglia per famiglia i discendenti di questi paria.
Il libro circolò morbosamente fino al 1975 e fu venduto per corrispondenza, provocando un grosso scandalo, che prese il nome di Tokushu Buraku Chimei Soukan, dato che grosse ditte come Honda, Nissan e Toyota ne fecero uso per evitare di assumere discendenti di Burakumin tra i loro operai e impiegati. Lo stesso zelo fu praticato da molti privati. Un'amica giapponese mi dice che non vuole sapere chi dei suoi amici sia discendente dei Burakumin. "cosa cambia? Sono tuoi amici, no?" "Sì, certo, ma credo che non riuscirei più a guardarli con gli stessi occhi, voi occidentali non potete capire questo". "Oh sì, invece", le dico. "Il razzismo non ha mica gli occhi a mandorla". Questo le dicevo in sogno quando la dolce musica di Strauss si unì al lento dondolio del mio palazzo.

14 giugno 2014

Tokyo, 14 giugno 2014

Tomomi fa la hostess. Cerca di adescare i clienti perché entrino e consumino nel karaoke bar per cui lavora. Non le piace che un gaijin la fotografi, non le piace essere osservata come fosse una cosplayer, lei lavora. E' quanto basta. Non le serve mica per vivere, ha una famiglia che la mantiene agli studi, ma con il modesto salario che guadagna può comprarsi dei capi di moda; Prada, Gucci o Vuitton. Io passo veloce, ma non posso fare a meno di notare quante siano quelle, come lei, in divisa da studentessa, che consegnano cartoline e buoni sconto per il locale, gridando il benvenuto "irasshaimaseeeee" ai passanti distratti. La sera a Shibuya, babelica come sempre. Migliaia di ragazzi chiassosi che si ritrovano. Salgo al terzo piano di un palazzo pieno di ristoranti. Chiedo se c'è posto, la cameriera, imbarazzata, non sa come fare a dirmi che il locale è prenotato da un gruppo di studenti, per una festa privata. Il posto, all'antica, come le vecchie locande, ha un pavimento lucido e liscio, in legno nero. Si entra scalzi. Il ragazzo che è uscito dall'ascensore insieme a me si leva le scarpe e raggiunge la tavolata, tra urla di saluto e risate generali. C'è molto fumo. A Tokyo si fuma ancora nei luoghi pubblici. Al piano superiore un altro ristorante, sempre Goku, ma diverso, ha tanti piccoli box,chiusi da separè (gli shoji) e da tendine di garza di cotone di color bruno, che benché trasparenti, garantiscono la privacy. Luci soffuse, aria di altri tempi. Shibuya sembra un pò il fantasma di se stessa, centro culturale della vita underground ha lanciato anche mode e pose estreme che hanno attechito. Oggi non ci sono più le ragazze vestite come in Spazio 1999, con trucco argentato o fluo su palpebre e labbra, che si muovono al rallentatore. Ha perduto lo smalto, il formicolare di ragazzi e ragazze è più normale e gli stessi negozi, con le insegne sgargianti e in movimento, che ispirarono Blade runner, ora sono molto più banali. Venti anni fa c'erano gang di motociclisti dall'aspetto minaccioso che facevano rombare i loro motori. Mi sembravano l'incarnazione di Kaneda e le gang raccontate da Otomo. Oggi ci sono i guardian angels, con il loro basco rosso, ma niente di realmente pericoloso pare accadere. C'è, costante, questo sì, come allora, un gusto diffuso per "impersonare", un estensione di un gioco di ruolo esistenziale. I guardian angels, a differenza di quelli americani, non fanno davvero la guardia, semplicemente posano a guardian angels, in questo gioco di rappresentazione che conferisce un ruolo a tutti, per il sabato sera.

13 giugno 2014

Tokyo, 13 giugno 2014

Nascosto tra la folla distratta di Akihabara un vecchio chiromante legge il palmo della mano a un salary-man desideroso di un altro futuro.
La nota operosità giapponese fornisce a tutti un ruolo a buon mercato. Hotel, negozi, società, gestite da ragazzi, fanno pensare a un mondo che si rinnova.
Riempirsi, svuotarsi, riempirsi svuotarsi. Un gioco infinito attraverso cui passa il nostro esistere.
Tokyo, mi alzo alle 4, è già luce, il sole si leva presto in questa tarda primavera. 170 yen. Il tragitto Jimbocho-Sendagi. 4 passi nel mio vecchio quartiere. Al Tennoji la vita di tutti i giorni interrompe la quotidianità spirituale. Suona il postino, i monaci contano le lettere arrivate, firmano. Poco dopo arriva una giovane maestra del té, vestita in kimono, si siede di fianco a me, nel giardino, ad aspettare che le aprano. Poi da una finestra un monaco le fa cenno di entrare: "Dozo" e lei sparisce con la sua valigetta. Le divise, tanto amate, i ruoli, come se fosse facile risolverla così. Baluginano abissi di grande solitudine, dentro queste divise.
Non basta l'arte dell'imballaggio, che con un quadrato di bella stoffa dai disegni antichi, il furoshiki, contiene e veste. La vita è liquida. E può nascondere spesso molto altro. Lo sapeva bene il maestro Ueshiba.
Le vetrine dei negozi di giochi sono cimiteri di forme rutilanti, masse di plasica, corpi, involucri dai colori vividi e seducenti, che ci parlano della vita più di quanto non vogliamo noi stessi ammettere.
Ritorno bambino e sogno Ultraman, in missione per scortare il mostro Bemular al Cimitero Spaziale. WUIIIIIISSSSSSSSSSSSSS!!!!!

Tokyo, 12 giugno 2014

Ritorno a Jimbocho, a vedere cosa è rimasto dei posti cari. La velocità della vita a Tokyo violenta ricordi, spazza via luoghi fisici: una brutalità che lascia attoniti.
L'ascensore del tokyo kanda non si ferma al sesto piano, eppure ho premuto il tasto 6. Il negozio evdidentemente è chiuso. La cabina si ferma al settimo piano, entra un ragazzo, imbarazzato. Ha un sacchetto che nasconde il suo acquisto al piano del porno. L'ascensore scende, lui guarda per terra. Usciamo, il tempo di fare una visita al grande negozio di libri antichi e lisi, ci sono delle belle maschere in vetrina, giacciono dentro scatole che hanno attraversato i decenni.
Mi perdo a osservare pile di libricini sottili, che sembrano quaderni di scuola, migliaia, uno sopra l'altro. Sono racconti, milioni di racconti che si intrecciano. A volte penso a questo fiume di storie, come le vedrebbe qualcuno di una civiltà aliena? Qualcuno che trovasse queste tracce del passato e pensasse: "ecco, questo era l'uomo, in Giappone, nel XX secolo". Speranze, lotte, desideri, delusioni, incertezze, viaggi, vittorie, sconfitte, catarsi. La fabbrica del sogno non cessa di rinnovarsi. E lo fa attraverso quanto di più semplice l'uomo disponga, la sua voce, la sua capacità di tracciare dei segni, delle forme. La scrittura giapponese in questo è il perfetto equilibrio, tra segno e parola.
Uscito mi imbatto in un negozio di pennelli per la calligrafia. Rimango dei minuti, ad ammirarli. Sono così belli, puri, puliti, ancora con la chioma chiara, di chi non è mai stato intinto nell'inchiostro.