30 luglio 2006

ARGENTO! capitolo 39




Quando portarono il corpo di Donna Aurelia interamente coperto di fango Erminio su dottori non la riconobbe neppure.
Non cerano che uomini tra i sopravvissuti e quel corpo minuto non attrasse la sua attenzione fino a che qualcuno non gridò: Ë una donna.
Sembra la vecchia Aurelia.
Don Erminio sentì venir meno il fiato, un colpo preciso, quasi che quel fango gli si accumulasse allimprovviso, come un sasso, alla bocca dello stomaco.
"liberatele le vie respiratorie dal fango, presto". Disse.
Ma era un ordine superfluo; gli uomini si stavano già occupando di lei. Poco a poco la sua fisionomia emergeva in un'espressione di sofferenza, come quelle, rare, che Erminio aveva scorto di tanto in tanto, accuratamente dissimulate dall'aria di alterigia che spesso i poveri si impongono per non dichiararsi sconfitti dalle durezze della vita.

Lavavano con delle pezze inumidite, riportando alla luce di quel sole invadente le forme orginarie, come archeologi alla scoperta di antiche vestigia.
Il sole, che improvvisamente brillava alto e vigoroso, arroventava la piana essicando il fango a vista docchio. I colori schiarivano e le cose sembravano assumere forme irreali, come oggetti colati da un altro mondo. Ma solide, a dispetto di quanto erano apparse in quelle ultime settimane di pioggia.
"Respira ancora?"
"No. Sembra di no."
Erminio ascoltava quei dialoghi, l'orecchio teso, mentre praticava la respirazione bocca a bocca a Catarino il vecchio, che tutti, ma proprio tutti, dicevano morto da tre anni. E che invece adesso faceva
"Ihhhhhh" respirando all'improvviso a pieni polmoni.
Aveva lo sguardo spiritato di chi ha appena visto l'anticamera di un altro mondo, Catarino. E non pareva affatto che la vita lo avesse abbandonato da 1000 giorni.
Continuava a rantolare, con quel sibilo grottesco, portandosi le mani alternativamente alla gola e alla fronte.
"piano, piano, respira con calma"
Gli posò una mano sulla spalla, il dottore, quasi a rassicurarlo che sì, era proprio vivo, mentre Catarino continuava in quella sua attività di mantice.
"coraggio vecchio" gli disse mentre lo lasciava alle cure di Ramon, il fabbro ferraio.

"fatelo distendere una volta che si Ë calmato".
"va bene dottore"

I pompieri, poco distante, facevano opera di recupero. Con un argano, che avevano sostituito alla scala di ordinanza, agganciavano, uno per uno, quei corpi immersi in una stramba salamoia color del muschio che un giorno era stata roccia e terraferma, e li trainavano in secca.

Ai confini di quel teatro di guerra naturale si erano stipati decine di curiosi: perdigiorno, pistoleros e latifondisti perlopiù, che seguivano con scherno e ilarità l'attività febbrile dei soccorritori.
Sbraitavano e cantavano a squarciagola canzoni oscene con l'entusiasmo puerile di chi fa qualcosa di inopportuno e lo fa apposta. Volevano significare due cose semplici: non temevano lautorità e disprezzavano la morte, specie quella altrui.

"Li faccia tacere tenente" intimò il dottore.
"non hanno rispetto per nulla, neppure per il dolore".

Mentre il tenente dei federales sembrava convenire su quell'evidenza l'alcalde si mordeva la lingua.
"Non dia ordini ai miei uomini dottore, potrebbe pentirsene".
Aveva dei capogiri e qualche linea di febbre; ma non era a causa di questo che si sentiva inadeguato. Non sapeva esattamente cosa fare se non darsi un'aria indaffarata.
"fate tacere questi schiamazzi" ordinò subito dopo, come se fosse una sua libera iniziativa.

E cercò di riprendere un'aria assorta osservando con ostentazione il difficile recupero di un carro che i pompieri stavano tentando da una ventina di minuti.
Spuntavano a decine i corpi da quel fango.
E la domanda che si facevano tutti era la stessa:
"cosa diavolo ci fa tutta questa gente sottoterra?"
Se lo domandava l'alcalde ignaro delle voci che i volontari si passavano e che non promettevano niente di buono.

Man mano che si annotava lidentità dei sopravvissuti pareva che la popolazione del cimitero di Mammarranca si fosse riversata nelle viscere della piana Do Diablo. Questo vociferavano i campesinos accorsi a dare una mano.

E il malumore dilagava a dispetto del successo dei soccorsi. Perché non portava certamente bene risvegliare i morti.
Qualcuno aveva poi fatto notare le strambe anomalie.
Non era normale che i morti tornassero in vita dalle viscere della terra.
Non era normale che smottasse un'intera piana, non era normale che piovesse per settimane in pieno agosto con la siccità endemica che aveva da secoli flagellato il Parador.

A dare conferma degli infausti presagi giunse in quel momento Mommotti. Lo chiamavano così, come l'uomo nero di Papassinas, perché sin da piccolo aveva interpretato i segni della natura e aveva predetto ricchezze o miserie del raccolto, senza mai fallire. Adesso era un vecchio decrepito che a malapena si reggeva in piedi ma nonostante questo la sua autoritas era rimasta immutata negli anni. Lo videro arrivare dietro la curva della carrettiera 56, indossava una pelliccia nera di capra, incurante del caldo asfissiante.
"Non Ë Mommotti quello?"
E la notizia si sparse in un battibaleno.
Aveva impiegato tre ore e mezzo a percorrere meno di tre chilometri, a piedi, come faceva sempre: senza che nessuno lo avvertisse.
Tutti sapevano che le disgrazie si presentavano da sole, bussando alla porta dei suoi sogni. Non parlava quasi più Mommotti, che anni di eremitaggio lo avevano condotto a una sorta di bizzarra saggezza.
Si presentò davanti al posto di blocco dei federales e semplicemente guardò il soldato negli occhi.
Questi si fece da parte e Mommotti passò, senza che nessuno degli astanti avesse nulla da dire.

Quel silenzio accompagnava il suo procedere.
Al suo arrivo le donne avevano tremato, e c'era chi si fece il segno della croce, data la nota misoginia.
Le aveva in antipatia, da quando, giovane innamorato era stato abbandonato, senza preavviso, da Tranquillina Abbanoa, sua futura sposa.
Lui si era chiuso in sé stesso e aveva cominciato durissimi esercizi spirituali.
"si fa prete, si fa prete" mormoravano le malelingue del villaggio, ma lui non ci pensava neppure. E a chi gli poneva la questione del perché non si decidesse se amare altre donne o entrare in convento lui rispondeva con una scrollata di spalle.
Poi un giorno, quindici anni più tardi, giunse la notizia.

Tranquillina era morta, in quel di Parigi, soffocata nel sonno dalla sua stessa lingua.

Un sorriso gli increspò le labbra. Andò allo spaccio di Coloriu Arrubiu e ordinò una bottiglia di bianco secco per festeggiare da solo.
Quella fu lunica volta che lo videro bere.

Andò a vedere i corpi ammassati, quelli senza vita disposti in file ordinate. Si aspettava il prete per l'estrema unzione.
Mommotti guardava quei corpi che sembravano fossili, frammenti di selce ricoperti di terra e mota, neri e rigidi come stecchi, come fossero tracce di un altro mondo. Cercò di sollevare un braccio ma il rigor mortis aveva fatto il suo effetto. E c'erano corpi che parevano di carta, sottili e avvolti in quelle vesti un tempo chiare e leggere e che adesso pesavano amplificando i drappeggi come in un quadro antico.

"che vuoi vecchio?"
L'alcalde sfidava quel silenzio fastidioso. Mommotti non lo degnò di uno sguardo e continuò a osservare la scena di quella piana devastata.
"chi ti manda?"
E lo afferrò per una spalla fissando il suo sguardo antico e impenetrabile.
Fu allora che il rintocco delle campane si udì distintamente provenire da Mammarranca. Mentre Mommotti alzò il suo braccio destro e benedisse l'alcalde.
Poi gli pose la mano sugli occhi e tutti compresero che quello era un presagio di morte.

18 luglio 2006

ARGENTO! (capitolo 38)




Intontito. Era quello il suo stato. Si teneva eretto in quella posizione ridicola e innaturale per un traumatizzato. Giusto per darsi un contegno.
Ed era scomparso dietro il canneto, a cavallo di Herr Doktor, che a dispetto di tutte le sue previsioni, aveva riacquisito il trotto. Cosa c’era da trottare? Erano scampati, ecco tutto. Dei miracolati, ancora capaci a marciare sui propri piedi e zoccoli. Da non credere, va bene. Ma che c’era di tanto bello?
A volte, come quel giorno, la semplice gioia di vivere gli pareva ingiustificata.
“Non c’è nulla da festeggiare, caro Herr Doktor” bofonchiava Vladymir Andrey Rostropovitch.
“proprio nulla, nossignore”.
Tutto gli appariva di quel colore cacchettico, tra il grigio e il marron. Si sentiva nauseato e la testa gli pulsava come il giorno prima e quello prima ancora.
Clopete clopete faceva il fedele compagno caudato e lui, dimentico del suo grande amore, Lupita, e di quella vecchia che lo guardava con astio e di quei rivoltosi che avevano minacciato il suo osso del collo, si allontanava con passo quadrupede e trottante.
Non era in grado di dare soccorso ad alcuno.
Nossignore.
E quindi che lo lasciasse in pace quella coscienza di ebreo errante, sempre lì a punzecchiarlo, non poteva. E quando mai? Lui stesso era vittima della catastrofe. Bisognava saper leggere le circostanze. Soppesarle per bene.
Ecco, era chiaro, sempre più chiaro. Il suo amore non era per questo meno autentico, forte, assoluto. Nossignore.
Erano delle insensatezze, tutte quelle manfrine.
Come spesso accadeva quando la sua vita era in pericolo, a dispetto di qualunque venatura nostalgica o sentimentale, elementi dei quali era pregna la sua esistenza, un insospettabile spirito pratico prendeva il comando di quella nave allo sbando e dettava legge con una risolutezza di cui, quando aveva ripreso il comando di sé, rimaneva ammirato.
Era dunque, all’improvviso, apparsa una scritta nel buio del suo cranio. Questa scritta recitava: “non puoi, fattene una ragione e taglia la corda”.
Non parlava come si vede neppure troppo forbito, , il suo cranio, a dispetto delle letture colte e coltissime, quando c’era da essere pragmatici.

E in effetti questo dono insperato gli aveva salvato la vita, più di una volta.
Adesso, per dire, la zona della catastrofe era infestata da federales e ficcanaso di ogni risma. Gente da cui guardarsi quando si è piena forma, figurarsi in momenti come quelli in cui si trascina a malapena.
La sua lingua era un tappeto di terra e il colorito della sua pelle, per quel che poteva vedere, piuttosto bruno. Sentiva i lineamenti tirare, man mano che il fango seccava. Il sudiciume di cui era interamente ricoperto, imbevuto sin negli indumenti intimi, lo ingombrava perfino nei movimenti.

Cercava con quello sguardo querulo, un ruscelletto qualunque. Un piccolo rio che avesse potuto fare il miracolo di rimetterlo a nuovo. Un bagno. “Ah”, sospirava, come una damigella francese il giorno delle nozze.
E se mai aveva amato l’acqua come materia e l’aveva considerata nobile (che in quei tempi quelli erano ragionamenti da contadino, non certo da picaro frequentatore di locali notturni e ipnotizzatore da feste di paese) in nessun modo si era sentito di adularla come adesso. Acqua, la cercava come un disperso nel deserto. Acqua. Era quasi un battesimo, un ritorno alla vita.
Perché lavarsi avrebbe certamente significato ritrovare tutto; il suo essere, la sua figura, la sua persona.
Aveva inoltre un’altra spina nel fianco; i suoi adorati Padri Spirituali, appartenenti alla categoria 1, che nella loro veste terrena (erano pieni di saggezza, e finemente rilegati, ma semplici libri dopotutto) ) minacciavano di essere stati danneggiati da quel lerciume liquido. La borsa da sella che li custodiva era bella solida e chiusa con due cinghie di cuoio, ma nondimeno, il fango è materia perfida e strisciante e avrebbe potuto benissimo (era così, lo sapeva, non voleva saperlo ma lo sapeva) minacciare, rovinare, distruggere le sue guide spirituali.
Soffriva.
Poi fu distratto.
All’improvviso apparvero le prime case, maledizione, si stava perdendo. Non era vicino alle case che avrebbe trovato un ruscelletto, conosceva la zona. E un pozzo lo avrebbe esposto agli sguardi dei più, sarebbe stato localizzato e quei momenti non erano propizi a uno straniero. Si diventa diffidenti nei confronti di tutti quando c’è una sciagura, figurarsi nei confronti di un possibile sciacallo o borsaiolo.

Virò decisamente facendosi guidare dall’ istinto. E discese per una piccola scarpata sassosa. A ogni modo doveva sdraiarsi. Trovare riposo, sentiva le ossa che gli dolevano. Quanto tempo era rimasto senza riposare? Gli ultimi avvenimenti lo avevano coinvolto, turbato, erano riusciti nell’impresa di fare a pezzi la sua fiera, e apparentemente indistruttibile, fiducia in sé stesso.
Cominciò il malumore e nei suoi occhi apparve la nebbia di un senso lamentoso che lui stesso detestava di sé stesso.
Poi, graziato dal suo ironico Dio, finalmente qualcosa di inaspettato apparve.
Era un vecchio ponte i pietra. Quanti anni aveva quel ponte? Trecentomila? Era consunto e a dispetto di ogni evidenza, efficace nella sua funzione. Perché Vlad lo vide con i suoi occhi azzurri e sorridenti. Quella era acqua.
Sotto il ponte scorreva il piccolo ruscello gorgogliante.

Ci arrivo in pochi minuti e scese da cavallo senza neppure accorgersene, poi una volta atterrato i suoi talloni inviarono una fitta di dolore acuto che rimbombò nel cervello.
BUM fece.
Ma era tale la gioia adesso di trovarsi in quel posto che finalmente si sentì di fischiare una nenia della sua infanzia, era d’accordo con Herr Doktor dopotutto, c’era da festeggiare.

Fischiettando si spogliò, lentamente, come se danzasse da solo, staccando quei panni collosi e viscidi e disponendoli con cura sui rami di un’acacia. Avrebbe pensato dopo a loro, adesso voleva lavarsi e cullarsi e ritrovarsi semplicemente.
Incurante della temperatura si immerse. E quella sferzata di gelo improvviso gli fece emettere un piccolo gemito ma poi si abbandonò a quella gioia fresca e pulita. Si immerse sino alla testa e si staccò il fango dai capelli. Rimase a godere di quell’acqua tonificante per minuti che parvero ore, giornate intere. Poi coi primi brividi si decise a uscire, e si accostò a Herr Doktor che bevevo. Slacciò la sua sella, i finimenti e lo liberò.
“scusi Herr Doktor, sono un egoista, lo so bene. Un irrimediabile egoista”.
Portò il cavallo in acqua e cominciò a strigliarlo e lavarlo e carezzarlo. Adesso addirittura canticchiava.

Poi aprì la borsa di destra ed estrasse il rasoio, e il sapone francese. Erano un po’ infangati ma, tutto sommato, integri.

Questo gli diede speranza per i suoi libri, che non osava ancora verificare. Sapeva che era difficile deprimersi, ma se cadeva in quel pantano di spleen e malinconia poi gli durava per giorni e giorni e adesso non poteva permetterselo. “Vladymir Andrei Rostropovitch tu sei un fuggiasco adesso. Chiaro? Un picaro viaggia, un fuggiasco fugge.” Disse a se stesso mentre nudo e ben rasato si pettinava come un damerino.
Poi le acacie frusciarono e lui, con la coda dell’occhio intravide qualcosa. Si voltò e si accorse che due occhietti color miele lo fissavano, da dietro a quegli alberi. Ebbe un sussulto (che non aveva neppure provato le colt per sapere se il fango le aveva otturate o meno) ma poi, subito per fortuna, si accorse che quello non era un vero pericolo, si trattava di un bambino.
Scarmigliato, pesto e sudicio ma null’altro che un bambino.

“Goodmorning seniore, me fame. Avere food? Nourriture?”
Si fece avanti quello, avà avuto neppure dieci anni.
Ed era tale il sollievo che si sentì, per la prima volta, battere in petto lo spirito paterno. Dunque esisteva. Quello spirito, pulsava nelle vene di Vladymir? Se lo era domandato da tanto tempo, da quando meditava di accasarsi e di mettere a parte spettacoli da saltimbanco per fare il ricco possidente mantenuto, studioso dei veri valori della vita (Pensava ai suoi vati: Cervantes e Omero, e chi altri?).
Il brontolio nello stomaco rispose per lui, e si limitò a soggiungere.
“me pure fame. No cibo, no food, my boy”.

E si fece avanti sorridente quel bambino dall’aria indifesa sedendosi ad ammirare quella sella che seppure infangata rimaneva oggetto di fine fattura, confezionato a Papassinas con cuoi di prima categoria.

“Come ti chiami ragazzo?” chiese al suo figlio adottivo dandogli una carezza.
“Elmer seniore”.
“Dovremmo darci una lavata Elmer, che ne dici?”
“No capisce Elmer.”
“Sì, sì Elmer capisce. Solo Elmer molto furbo.”

10 luglio 2006

ARGENTO! (capitolo 37)




Quando si sentì risuonare la campanella del camion dei pompieri, un immenso silenzio aveva mangiato il fruscio delle acacie, inghiottite dai gorghi di fango e pioggia.
Videro arrivare il camion rosso fuoco, i pochi presenti giunti a dare il primo aiuto, e seguirono con lo sguardo quegli omini in uniforme argentata arrampicati alle fiancate come uccelli di marzapane in un albero di natale.
E dietro di loro i federales e dietro ancora una piccola armata di curiosi a cavallo. Rumorosi e inopportuni come solo i pistoleros perdigiorno e i loro padroni latifondisti sapevano essere. Aveva il suo pubblico, l‘alcalde e se ne compiaceva perché era in quelle occasioni, che, lo sapeva, dava il meglio di sé.
Rimpiangeva solamente che in uno staterello dimenticato da Dio come il Parador le catastrofi o le emergenze fossero merce rara.
Per il resto sembrava che tutta Mammarranca si fosse rovesciata sulla Piana do Diablo. Disordinatamente come i bastoncini di un gioco di shangai.
Così, per curiosità, per assistere allo spettacolo, ognuno con aspettative differenti.

Giacevano distesi alle prime luci del sole; un sole pallido che ancora non riscaldava, decine di corpi, recuperati dal fango e restituiti alla terra ferma grazie all’ausilio dei pochi primi soccorritori. Composti per file ordinate venivano distesi uno dopo l’altro.

Sembravano pesci che la terra avesse sputato fuori dalle viscere, manco fosse cibo indigesto.
E somigliavano ad aringhe, tutti ricoperti da quello strato di fango che ne cambiava colore e lineamenti. Enormi aringhe bipedi. Distese in fila ordinata.

Il silenzio quasi irreale che aveva accompagnato le voci confuse dei primi campesinos accorsi in aiuto fu rotto dagli ordini del capitano dei pompieri
“tagliate della legna!”
“Posizionate della frasche sotto le ruote del camion!”.
“Lanciate le cime dove vedete un corpo galleggiare!”
Cui faceva eco, simmetrica e sfasata di qualche secondo, la voce del sottotenente Lopez
“lanciate la cima!”
“Posizionate della frasche sotto le ruote del camion!”.
“Lanciate le cime dove vedete un corpo galleggiare!”

Quasi che le urla potessero recuperare il tempo ed evitare quella tragedia che era sotto gli occhi di tutti.

Poi scese l’alcalde con barba non rasata e uniforme sgualcita.
“Riferitemi quanto prima” ordinò al suo attendente.
E si portò sul ciglio del cratere, ove la terra ancora franava. Osservava sussiegoso e vide una cosa che attrasse la sua attenzione. Un volumetto nero mezzo coperto di fango.
Lieto della sua scoperta si inchinò per recuperarlo. Ma non aveva bene calcolato i movimenti e lentamente cominciò a sprofondare.
Ora ricordava confusamente di aver udito che nelle sabbie mobili l’unica cosa da non fare è agitarsi. E dunque cercava di darsi un contegno mentre tutto impettito come un soldatino di piombo veniva poco a poco inghiottito.
Non voleva neppure perdere la reputazione, che un soccorritore da soccorrere è roba ridicola che fa il giro della regione in men che non si dica. Quindi si limitava a girare la sua testa a destra e a manca cercando con gli occhi di rendere evidente la sua situazione.

Quando finalmente una cima fu lanciata verso di lui era immerso sino alla vita. E un pompiere urlò distintamente: “aiutatemi a tirare in secco l’alcalde”
E i campesinos risero, come tutti d’altra parte. E lui maledì quel libro nero che scompariva nel fango e le sue balzane idee. E con un sorriso autoironico di circostanza stampato sul volto teso cominciò a inzaccherarsi perché le cime lo tiravano e trainavano davvero come un pesce preso all’amo.

“dannata fanghiglia” fu tutto quel che disse per ringraziare a Heriberto Herrera Senior, il piccolo pompiere dallo sguardo ridente.

E senza attendere risposta cercò riparo nel camion dei federales.

Lo salvò dall’imbarazzo il fido attendente. “il colonnello dice che servono delle ambulanze signore. Molte più ambulanze di quelle che abbiamo a disposizione.”

“Occorrono dei carri decine di carri per trasportare le vittime dell’incidente alla vicina Coloriu Arrubiu, Signore. Occorre allertare l’ospedale”.

Incurante di quelle chiacchiere futili Don Erminio si fece avanti e prese in mano la situazione.
Parlò con i campesinos a voce bassa e definì con loro che dovevano portare i primi soccorsi, lì, subito e su due piedi. Una decina di volontari si fece avanti e cominciarono a lavare dal fango quei corpi e cercare di rianimarli.
L’alcalde prese la cosa come un affronto personale.
“che diamine cerca di fare dottore?”

“separiamo i feriti dai morti”.
E si rese conto che dopotutto quella era, evidentemente, la cosa più logica da fare. La prima elementare decisione.

“costruiamo un ospedale da campo, per prestare i primi soccorsi indispensabili”.
Non aveva previsto, l’alcalde, che in una situazione del genere l’autorità sul campo non erano le mostrine a darla ma l’esigenza primaria di salvare delle vite. E in questo la sua autoritas era ovviamente seconda a quella di Don Erminio, su dottori, con il quale avrebbe dovuto confrontarsi.


Ines, poco distante, cercava tra quei corpi, cercava suo figlio. In silenzio, senza lasciar trasparire nessuna impazienza o disperazione. Cercava come si setaccia un fiume alla ricerca di una pepita. Per lei, dopo la riconciliazione, quel figlio era diventato, se ne rendeva conto adesso forse per la prima volta, l’unica ragione di vita.

Il cratere era ricoperto di un fango dalla consistenza irregolare. Alcune parti sembravano più ghiaiose e franavano ma altre, verso occidente, erano ancora più liquide e melmose. Da quei gorghi di tanto in tanto affioravano braccia o gambe, tronchi o stracci, elementi di un mondo il cui ordine naturale era stato messo a soqquadro.

C’erano frasche, o interi alberi, e detriti che affondavano o emergevano lentamente a seconda de capricci di quei mulinelli.

“Agganciate quel carro”.

Ines sentì quell’ordine e vide, con apprensione che ciò che fluttuava a qualche centinaia di metri da lei era proprio un carro. Era di colore chiaro, come quello di Astor, ma non era certa che si trattasse proprio del carro di suo figlio.
Si arrampicò su un masso che sembrava ancorato solidamente alle rive di quel lago marron e nero e si sporse come poté per osservare. Il labbro le tremava e cominciò a sudare. Piccole perle apparvero sotto il naso e sulle tempie. Serrava gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco e cercava di mantenere tutta la calma possibile.
Poi, all’ultimo, una ruota emerse e si sentì felice. Ebbe la prova che cercava. Non era il carro di Astor, dato che il suo aveva, tradizione di famiglia, i mozzi delle ruote tinti di rosso.
E le sembrò d’improvviso di comprendere meglio il senso di quelle tradizioni che lei aveva sempre giudicato delle futilità di uomini.

Le sembrò che la speranza tornasse adesso che quel pericolo si allontanava dalla sua mente. Ma non voleva dire molto, Astor poteva avere avuto un incidente qua o là. Lo sapeva, e cercava di non farsi illusioni, a dispetto dei presentimenti, che cercava di leggere per abitudine, come le avevano insegnato da bambina.
Ma era titubante, quasi scettica, poiché anche quando morì suo marito aveva avuto presagi non troppo funesti ma il cuore le aveva mentito.

Discese da quel masso e continuò a cercare sino a quando, dietro a un canneto che costeggiava la carrettiera, non vide una ruota fracassata. Aveva il mozzo rosso.
Affrettò il passo perché era nervosa e diceva a sé stessa che non c’era tempo da perdere. Non un attimo.
Fin quando dietro a un cespuglio riverso a faccia in giù non vide il corpo di suo figlio e si sentì mancare.

Poggiata contro quelle canne troppo esili per sostenerla tirò il respiro e si avvicinò.
“Astor” disse.
“figlio mio”
E lo girò. Vide quel corpo pesto e macilento, ricoperto di sangue e fango, privo di segni di vita. Lo osservò con tutta l’attenzione di cui era capace, sino a quando non udì il suono.
Un suono che per lei fu come una sinfonia, il suono della vita pulsante.
Che faceva “mmm llmmm”
E proveniva da quella bocca con i denti rotti e le labbra gonfie.

Ines abbracciò delicatamente Astor, una cosa che non faceva da quando lui era in fasce.
E prese quasi a cullarlo, cantando una sorta di nenia che credeva dimenticata per sempre, e ringraziando il suo cuore, già che non aveva Dio quella donna, per avere salvato suo figlio.

Poi malgrado le lacrime che le velavano gli occhi sorrise e constatò che aveva finalmente smesso di piovere.

8 luglio 2006

ARGENTO! (capitolo 36)




Vivendo come era sempre vissuto concepiva il mondo esterno a lui come un’ unica, immensa carta postale. Visione illustrata di paesaggi e luoghi e panorami, che variavano come varia la latitudine geografica.
In quei luoghi, che non abitava neppure ipoteticamente, poteva esserci vita, materia prima, perfino ricchezza. Cose che lui considerava unicamente come beni da amministrare.
Non che questo sguardo, che agli occhi dei più sarebbe apparso forse “cinico”, lo allontanasse dalla vita palpitante. Tutt’altro. L’alcalde si considerava un viveur.
Uomo di mondo e discreto navigatore nei flutti dell’esistenza.
Ma amava? Aveva mai saputo amare?
Questa domanda lo attanagliava, nelle notti insonni di tedio invernale e si faceva strada nella sua psiche con quell’incedere marziale che aveva dettato il ritmo della sua intera esistenza. Era allora che, con piacere, eccitazione quasi, decideva di reagire. Era uno che combatteva, dopotutto.
Con tutte le sue forze rinchiudeva in un’ipotetica cella quel suo dubbio atroce e faceva aprire, all’attendente di turno, una cella reale per dedicarsi, con lo scrupolo necessario ma anche con la spinta inesorabile, all’arte dell’interrogatorio dei prigionieri.
Erano temutissime quelle notti di sangue, perché l’alcalde non era solo spietato sui prigionieri ma, per dimostrare in quale considerazione tenesse le umane debolezze, lo era pure su se stesso.
Si sottoponeva alle torture che poi avrebbe inflitto (con ben altra forza, ma questo appariva quasi come un dettaglio) al prigioniero sotto i suoi occhi impietriti.
Ed era questo macabro rituale di rivincita interiore a sancire spesso, dopo ore infinite passate a estorcere confessioni improbabili a prigionieri politici, la morte stessa del prigioniero.

Allora, con passo marziale, si ricomponeva e lavava le mani, poco prima di raggiungere i suoi appartamenti. E contrito, come la situazione prevedeva, attraversava silente i corridoi scarsamente illuminati, pensando alle sue rose nere. Al roseto che coltivava con cura maniacale nei giardini della sua residenza. Sì, era uomo sensibile cui la vita imponeva momenti davvero grami. Doveva amministrare lui. Dare una linea, tracciare una prospettiva. Sospirava, e arrivava qualche singulto. Quei singhiozzi che nei casi migliori diventavano lacrime, non certo copiose, lo portavano a una sorta di autocommiserazione. Poi, commosso della sua stessa commozione, comprendeva che, sì, aveva un cuore.
Era “uomo” nella concezione guerresca della Grecia classica. E finalmente si addormentava a giorno fatto in quello che si compiaceva di chiamare “il riposo del guerriero”.


Odio e ostilità si erano diffusi con la forza della tempesta in quella terra che accomunava tutti, miserabili o militari, solo un unico cielo rovente.
E l’alcalde era solo, evitato dai più e isolato nella sua stessa residenza da un filo spinato che lui stesso aveva badato di disporre ben bene.

Quando arrivò la notizia che la piana do diablo era sprofondata ci fu un gran discutere ai piani bassi. Si era incerti se chiamar il colonnello Ramirez o se disturbare l’alcalde convalescente. Fin quando il tenente, solerte e intraprendente come suo solito decise di disturbare entrambi passando prima, per questioni di pura gerarchia, alla residenza dell’alcalde. 
Era con lui, a prendersi cura dell’alcalde, Don Erminio, su dottori, e se era vero, come pareva che fossero coinvolte diverse vite umane, in quell’emergenza un dottore sarebbe stato utile.


Piovigginava da giorni, in quel cielo grigio e soffocante che sembrava immutabile. E quando Don Erminio fu svegliato dal toc toc alla porta ebbe conferma che ancora si trovava in quelle stanze odiose, in compagnia di quell’uomo odioso.

Il tenete cercava di svegliarlo e l’alcalde, ebbe come un sussulto quando si vide davanti il soldato.
“Che c’è? Perché vengo disturbato?”
“Un emergenza eccellenza”.
“la piana do diablo, pare che sia sprofondata, in seguito alle cattive condizioni climatiche, eccellenza”
“sprofondata?” Era incredulo, piuttosto intontito dalla febbre, l’alcalde.
“pare che ci siano decine, forse diverse decine di corpi sepolti dal fango, signore.”

Erminio sentì la notizia e si sedette, sul brodo del letto. La notizia non era per nulla positiva. Pensava a El gato, che aveva curato qualche anno prima. Quell’uomo aveva avuto bisogno della sua ssistenza, perché i reni gli facevano un male dannato e lo aveva fatto chiamare.
Il cunicolo sette si era aperto sotto i suoi piedi e Don Erminio aveva fatto solenne giuramento di non rivelare a nessuno, neppure sotto tortura, quello che vide.

Si domandò se El Gato fosse stao ancora assistito dalla sua stella, se avesse ancora dato segno delle sue numerose vite a disposizione.
E si domandò cosa sarebbe accaduto agli altri mebri di quella nutrita confraternita di ribelli.
Si sciacquò la faccia.
L’alcalde frattanto preso dal furore di quella notizia dimenticò di essere convalescente, febbricitante e indebolito e reagì con il nerbo che gli piaceva simulare di avere.
“Avete svegliato il colonnello Ramirez?”
“No, eccellenza, prima voevo consultarmi con Voi”
“Si capisce, svegliatelo subito e date disposizioni che un plotone di 40 uomini si prepari all’uscita.”

L’azione lo inebriava, in quella terra in cui nulla parva accadere finalmente una catastrofe lo metteva amlla prova. Sarebbe stato amato da quella popolazione ingrata? Si sarebbe mostrato valoroso e abile a portare soccorso.

Si sporse dalla stanza. “Chiamate il telegrafista, presto.”


Mentre si vestiva si accorse della presenza di Don Erminio.
“ah, giusto voi. Avrete occasione di mostrarvi utile, una volta tanto.”

Quell’ultimo commento gli sembrò servisse a motivare il medico. Che si sentiva psicologo e portato per il comando, cosa che si era ripetuto dalla più tenera infanzia.

Affondava sempre più, senza fiato, in quella marea fangosa. Eppure non c’era disperazione, né panico, dentro Elmer. Quando ebbe sentito la presa alla sua caviglia che lo portava in basso verso i gorghi di quel fango umido che adesso gli invadeva le narici, aveva compreso che gli uomini talpa non erano altro che uomini di carne e ossa, come lui immersi nella mota.
Così fece per liberarsi e diede un calcio secco verso il centro, dove sperava di colpire la testa di quel qualcuno che lo portava a fondo.
Aveva altro da fare piuttosto che morire così, in quattro e quattr’otto.
Doveva trovare quel preziosissimo volumetto nero vergato a mano, che, lo sapeva, il suo istinto di animaletto da combattimento glielo diceva, era pieno di cose interessanti scritte apposta per lui.
Fu solo dopo qualche minuto quando vide avanzare, arrancando più che nuotando, verso di lui, Gregory, con uno sguardo pieno di odio, che comprese chi mai poteva averlo afferrato. E fu in quel mentre che vide la faccia livida del duca di porcellana emergere per prendere una immensa boccata d’aria.
‘Damned bastard”, fu quel che udì mentre riceveva un pugno sul naso.

Bruciava, lo sapeva. Ma non era quello il pensiero principale.
Doveva fuggire, non poteva permettersi un combattimento da arena, non era quella la situazione, era chiaro. Così, a dispetto del suo smisurato orgoglio (era pur sempre un piccolo gradiatore addestrato al combattimento) desistette e si diede alla fuga.
Afferrò il tronco le fronde di un’acacia e riuscì a issarcisi. L’acacia sebbene semi sommersa sembrava non cedere e il picolo Elmer, imprecando si allontanò, un salto dopo l’altro per cercare di far perdere le tracce. Greg cercava di emulare le sue gesta ma non ebbe la stessa fortuna. Elmer spezzò un ramo e con questo colpù una, due, molte volte, le manine di Greg che afferravano il ramo. Poi andò al sodo, e lo colpì alla testa. Quando vide Greg affondare con la testa spaccata fece un grido di gioia e scappò come un gatto selvatico.