30 aprile 2006

ARGENTO! (capitolo 3)



Il villaggio di Mammarranca contava 7627 anime , e pochi spelacchiati cani, nel 1910.
Cosicché l’arrivo dei bracconieri inglesi, accorsi a frotte con i loro segugi, aveva finito per scombussolare l’andamento regolare della vita di tutti i giorni, fatto fiorire il commercio, modificato gli orari di chiusura delle taverne e perfino consolidato la prostituzione.
William Holmer Colmish era quello che fungeva da capo a uno sparuto e accanito gruppetto di cacciatori. Veniva dalla Cornovaglia e aveva un volto grasso e sgraziato su sui era cresciuto un enorme tubero che gli faceva da naso. Pelle butterata e un’occhio di vetro non contribuivano a migliorare il suo aspetto.
Altri della partita erano Ian McGallan, il lugubre, che era scozzese, ad esser precisi, e il tracagnotto Marc O’ Brien, di Nothampton, poi Leonard Donne e Harvard Muybridge jr, l’avaro, e quello che tutti chiamavano Billy lo gnomo, ma a sua insaputa, dato che era uomo dai modi rudi, ottimo tiratore, irascibile e temutissimo.
Loro insieme a molti altri erano semplici e liberi battitori, per nulla decisi a spartire con chicchessia la ricca ricompensa che il villaggio avrebbe versato a chi li avesse liberati dagli uomini lupo.

Avvenimenti di ferocia inaudita erano accaduti, qualche mese prima, quando, ubriachi, certi bracconieri, avevano adoperato le maniere forti per interrogare i primi malcapitati abitanti del villaggio alla ricerca di sospetti, dicerie o informazioni che avessero potuto instradarli.

Fu cosi’ che un comitato di cittadini, guidati dall’alcalde, Don Ignatio Rodriguez Ramos, aveva fatto le sue rimostranze presso W. H. Colmish.
Erano armate le autorità (più che altro di buone intenzioni dato che i vecchi archibugi sortivano un effetto esilarante presso la comunità dei bracconieri) e con un drappello sgangherato di soldati, in misura notevolmente inferiore di quella degli inglesi in questione.
Ma, molto intenzionati a prendersi sul serio, essi avevano aperto un cerimoniale di corteggiamento singolare.

Parlavano a lui, a Colmish, come se fosse il capo di tutti. Anche se sapevano bene che non era vero.
“Egregio Signore, a nome della cittadinanza, in nome del potere a me conferito ecc ecc”
L’altro guardava dal solo occhio a disposizione e, mentre si accarezzava la barba rossiccia che cresceva ispida e incolta, ascoltava l’inteprete.
“Or si trova che alcuni esimi cacciatori suoi colleghi ecc ecc”

Era l’imbarazzo e la paura a diventar verbo, e la necessità impertinente di darsi un tono, che aveva finito per fare da ponte tra due culture tanto distanti. E aveva suggellato un accordo formale.
“Parola di cacciatore”, quelle barbare pratiche, che terrorizzavano Mammarranca e finivano per mettere in ambasce le autorità, avrebbero cessato all’istante.

Colmish, noto per il suo pessimo carattere, discendeva da stirpe di commercianti e aveva bene inteso i vantaggi che gli sarebbero venuti, sissignore. La sera alla taverna aveva battutto il pugno sul tavolo, era montato su una sedia e da li’ aveva tenuto un breve discorso. Farfugliato piu’ che urlato, e innaffiato abbondantemente dal vino.

“Nessuno", pena incorrere nella sua personale ira, "avrebbe mai più torto un capello, a nessun abitante del luogo, alla ricerca scorretta di informazioni. Chiaro?”.
L’antifona era stata registrata, per acclamazione, e da allora le scorribande erano cessate d’un tratto.

“Buongiorno Sir Colmish”
“Buonasera Sir Colmish”

La gratitudine di un paese elargisce, alle volte, titoli nobiliari che valgono quanto quelli provenienti dalla Corona.
E le porte del bordello da quel momento si aprirono a qualunque ora, per lui. Valeva ben che le cosce di una puttana garantissero la serenità di una intera comunità.
La cittadinanza era lieta di offrire le ore dell’amore carnale a colui che divenne, a tutti gli effetti, autorità morale, monarca di una popolazione minuscola e rumorosa, sbevazzona e feroce, che prendeva il nome generico di “bracconieri inglesi”.

A qualche miglio di distanza la vecchia Donna Aurelia menava una vita solitaria e discretissima. Nel tentativo di divenire addirittura invisibile. Arte nella quale si esercitava ogni giorno, sin da bambina.
Sapeva bene che i Picocca avevano un segreto da custodire, e che le voci correvano veloci.

Nei latifondi della “piana do Diablo” , che circondava di palmeti e banani la cittadina di Mammarranca la donna si faceva chiamare Aurelia Pica, nome fittizio, scelto a caso tra i settecento e cinquanta che il libro nero custodiva. La sua famiglia aveva elaborato tanti stratagemmi mimetici che la vecchia trovava perfino il modo di aggiungere un suo personale tocco, uno sberleffo.

Aveva infatti lavorato, per tutta una vita, nelle miniere da cui si estraeva l’argento. Metallo prezioso e letale per la sua genia.

“fa male?” chiese al ragazzetto.
“Non più”
Parlava con il nipote della brutta ferita che aveva, solo una notte prima, squarciato il deltoide. E che adesso pareva prodigiosamente rimarginata. Era questo “il dono”; una tempra leggendaria. Registrata nelle pagine fittissime del taccuino nero in cui erano annotate gesta che testimoniavano i segreti di una stirpe mannara.

“non devi farlo più. Mai più”
“cosa nonna?”
“… andare cosi’ lontano le notti di plenilunio”.
“ma nonna…”
“non voglio sentir storie, io non posso seguirti, sono vecchia oramai e non ho voglia di morire di crepacuore”.
Prese a fondere l’argento del proiettile che doveva rendere irriconoscibile. Da lontano Alvino la osservava.
“Piu’ tardi mi aiuterai a piantare bietole e rape, va bene? Il ciclo è propizio“

Alvino la osservava studiare i cicli lunari sugli enormi papiri. L'aveva sempre osservata, fin da quando aveva due anni, segnare, annotare: “apogeo” e “perigeo”, durante tutta una vita. Era l’antica scienza dei Picocca, che assecondava gli influssi sulla semina.
Piante da radice, da foglia, da fiore e da frutto, suddivise per categoria, come la tradizione insegnava e piantate seguendo la scienza della luna. Tramandata da secoli, e sentita nel sangue.
Fine cap. 3

ARGENTO! (capitolo 2)




Mentre la vecchia estraeva il proiettile Alvino cercava di non pensare al dolore che sentiva nelle carni. Si concentrava sulle note dolci della musica. La conosceva a memoria e sapeva che a un dato momento c’era un crescendo di percussioni che gli piaceva, ma che sembrava non arrivare mai.

Plin.

Fece il proiettile d’argento quando rimbalzo’ sul piano di marmo della cucina.
“e con questo ci paghiamo un dente, caro Alvino, che "Erminio su dottori" aspetta da un pezzo”
Disse la donna, e risero.
Amava quella vecchia che si prendeva cura di lui. E che adesso gli asciugava una lacrima sulla guancia.

“hai già scritto?” Chiese timidamente Alvino.
“ho scritto”.

Era laconica la nonna quando era presa dai pensieri.

“Me la fai leggere, la storia?”
“Bah, più tardi, adesso devi riposare, riposare e cercare di riprenderti. Hai fame? Devi mangiare, lo sai che le trasformazioni rubano un sacco di energie. Dimmi, come ti sentivi.”
Gli porse un piatto di zuppa, caldo e fumante. Poi aggiunse:
“ E sopratutto mi interessa sapere cosa sognavi. Lo sai che i sogni raccontano molto di quel che sta per succedere. “

Parlavano per delle ore. E la vecchia annotava febbrilmente nel taccuino nero le storie di tutta una genia di uomini lupo che la famiglia cui apparteneva aveva ospitato.

Chi era stato il primo?
Lazarus Hascaroth III, che nel 1627 aveva straziato un intero gregge nel giro di poche settimane prima di essere abbattuto, ormai anziano, da un cacciatore di pellicce venuto dalla lontanissima Scozia.

Lazarus era stato il segreto di famiglia quando i Picocca avevano dovuto emigrare da Puerto Oruro a Mammarranca, nel tentativo, del tutto inefficace, di far perdere le tracce.
Le leggende, si sa, soffiano più forti del vento, e che la famiglia Picocca avesse avuto un uomo lupo tra le sue genti fu sulla bocca di tutti.

Da allora, per generazioni e generazioni, le donne avevano preso a compilare quello strano taccuino. Che serviva a riportare tutte le costanti, le anomalie, le caratteristiche di una stripe maledetta da quello che ci si ostinava a chiamare, malgrado tutto, “il dono”.

Nel settecento le corti di Austria e Danimarca avevano fatto segno di apprezzare ogni genere di bizzarria. E se lo contesero a suon di onori.
Ma fu in Ighilterra che infine prese residenza Hubaldinus Picocca, detto il mancino, che fu perfino insignito del titolo di arciduca di Worchester, allo scopo di tenerlo legato a corte.

Hubaldinus era bello di giorno e mostruoso le notti di luna piena. Esercitava il suo diritto nobiliare importunando le dame a piacimento. E lo faceva senza grazia alcuna, giacché la nobiltà di sentimenti non si trasmette con il titolo.
Mori’ ancora giovane, il duca mancino, per una alquanto villana infezione alle vie urinarie.
Il corpo donato alla scienza da Sua Maestà, fu sezionato dagli Esimi Professori dell’ univestità di Londra, che già aveva avuto a che fare con un certo Gwynplaine, mostro di altrettanto interesse, e non meno nobile.

Aveva generato numerosi figli, Hubaldinus, che fin da piccoli avevano terrorizzato le campagne inglesi. Alcuni furono abbatuti, ma si risvegliavano, senza traccia di ferite, poche ore dopo.
Fu in seguito alle torture loro inflitte che Il Duca di Welles fece sua l’informazione che servivano punte in argento, conficcate nel cuore, per fermarli. E li passo’ con una speciale spada da parte a parte.

Da allora il nobile metallo fu sinonimo di potere. Dato che l’argento contrastava le maledizioni , nei circoli esoterici di Londra e Berna esso divenne simbolo alchemico di sapere.
E prese a valere più dell’oro, com’è ovvio.

1776 Costantinopoli. Due gemelli furono catturati vivi ed esposti come pubbliche attrazioni.
Sul finire del settecento un circo slavo li aveva rapiti. E fu cosi’ che essi giunsero fino in Romania. Divennero stimati e ricercati, conversarono di filosofia e ermeneutica. Per poi sbranare Norbescu Primo, astrologo di Budapest, il quale incauto aveva sottovalutato il plenilunio incipiente.

Una goletta li aveva infine inghiottiti. Viaggiavano in incognito diretti a casa, alla loro terra natia, dato che, è risaputo, il Parador chiama i suoi figli con il canto della nostalgia.

Selim IV, si diceva nipote del sultano Selim II. E proveniva effetivamente dall’imperpo Ottomano.
Tuttavia ignoriamo se realmente avesse nelle sue vene un quarto di sangue Picocca.

Fatto sta che fu uomo lupo tra i più celebri, anche perché conversava in numerosi idiomi, cavalcava con uno strano senso di “grazia animale” e tirava di scherma come pochi al mondo.
Fu immenso e sublime corteggiatore.
Ricambiato. Amato. Desiderato.
Secondo I biografi del tempo colorito ambrato e occhi di ghiaccio, gli resero la vita facile. E reputazione di “impenetrabile”.
Eppure, recitano sempre le agiografie, a dispetto della fama di impenetrabile il suo cuore fu abitato da numerose passioni, che lo portarono a un peregrinare senza sosta.
Questo prima che un altro inglese, tale Sir Alfred Thomas Greene, lo impallinasse con proiettili d’argento.

Poi, durante il secolo decimo nono, la maledizione dei Picocca parve assopita. Sino a quando, attorno al 1861, quattro marmocchi, nati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro si riscoprirono affetti da quello che per secoli si era chiamato, sottovoce, “il dono”.
E le morti ripresero; e le cacce spietate e arbitrarie animarono le campagne e i palmeti le spianate e le montagne.


Queste storie Alvino Picocca le amava da bambino. Le aveva ascoltate dall’alba dei tempi, prima di addormentarsi. Che le donne avevano l’incarico infausto di trasmettere la conoscenza. E lui le aveva lette e rilette, di nascosto dal libro di famiglia che la nonna portava sempre con se.


Nei caldi pomeriggi d’estate, quando i palmizi dondolavano indolenti e l’afa si impadroniva delle stanche membra di sua nonna Aurelia, e il rosolio faceva il suo corso, Alvino prendeva avido il libro nero e leggeva.
Leggeva le cronache della sua stirpe e sognava, un giorno, di diventare grande come certi suoi avi.

FINE CAP. 2

ARGENTO! (capitolo 1)




Quando il brontolio dello stomaco si fece più sonoro Alvino apri' gli occhi e si rese conto che era rimasto assopito per ore. Il bosco frusciava, accarezzato dai venti del nord est. "Acacie", penso'.

Gli piaceva dormire ai piedi delle acacie.
Sin da bambino, prima di scoprire "il dono" aveva trascorso interi pomeriggi d'estate addormentato tra i profumi delle spighe tagliate di fresco.
Era il 16 di agosto, e il gallo cantava in piena notte, come sempre.
"già le quattro..." disse cercando di alzarsi.
Gli piacevano i galli matti. Era quella imperfezione che glieli faceva amare. "Un gallo che canta all'alba non è mica interessante".
Glielo aveva insegnato sua madre, prima di morire. Prima della poliomielite che lo aveva ridotto uno schiavo. Schiavo della sua imperfezione, della miseria e della pietà dei pochi parenti rimasti. _"chichirichiiiiii" rispose al gallo.
E si fece, per un momento, Silenzio.
Come gli piaceva il silenzio. Ah, un lungo respiro.
Si alzo' e commincio' a percorrere il sentiero, la luna alta in cielo. Un gatto gli attraverso' la strada e si perse a soffiare.
HOP HOP
Camminava veloce dopo la trasformazione, la sua parte animale prendeva il sopravvento e gli faceva dimenticare i limiti di umano.
Era braccato, lo sapeva. Suo cugino Gesuino lo avevano freddato con due proiettili d'argento. E tutto per una stupida pecora.
Ma i bracconieri inglesi non perdonano! Si sa.
Erano motivati quelli, dall'oro che si portavano via. Chili e chili, quanto pesava la preda. Questo era l'accordo. _
Alvino era una massa di muscoli e pelo, occhi di brace, bava alla bocca. Ringhiava adesso.

AAAAARRRRHHHHHHH

Se li era trovati davanti, all'improvviso.
"run run", "sourround him". "There!" urlavano peggio di bestie. Bastardi. Avevano perfino dei cani.
In quei momenti Alvino non pensava.
Non lo sapeva neppure lui come fece ma si ritrovo' d'improvviso per aria, arrampicato per un acacia "(amica)". E poi spicco' un balzo enorme.

BRRAAAARRR

Giusto in tempo di vedere una lingua di fuoco che bruciava, bruciava e faceva piangere.

Si tocco' il deltoide sbrindellato dal proiettile. Il sangue colava caldo.
E sentiva il ringhiare dei cani, vicino, sempre più vicino.

Tump tump tump, le sue zampe per terra. Era veloce. VELOCE e rideva perché sentiva il vento fischiare
UUUHHH UUUHHH nelle orecchie.

Quanto tempo passo' prima che intravedesse l'uscio della sua tana?

Aveva ancora il cuore che pulsava nelle orecchie. Ma rideva. Contento, malgrado il dolore.
Poi pochi gesti decisi.
Giusto il tempo di stringere forte il braccio con i lacci e le pezze. Di bere dell'acqua fresca e di svenire nell'amaca appesa all'interno di quella grotta che lo aveva visto cucciolo.


Quando arrivo' la vecchia, con il suo passo strascicato, Alvino era ancora immerso nel suo sonno solido. Non era più un uomo lupo adesso, ma solo un ragazzetto ferito.
La donna gli accarezzo' i capelli. Spense la lampada a carburo, che era sorto il sole. E mise a suonare sul grammofono una vecchia musica tropicale, mentre preparava il mate.
E Alvino apri' gli occhi.

"Me la leggi Hansel e Gretel nonna?" disse il ragazzetto.
"Sei un ometto oramai. Non si leggono le fiabe agli uomini fatti".

E sorrisero mentre lei gli porse una tazza e preparo' i ferri sull'acqua calda, per vedere di medicare quella brutta ferita.

25 aprile 2006

foglietti




per anni, quando Carver scriveva, negli studi presi a prestito o nel suo, aveva dei cartoncini sei-per-dodici nei quali annotava delle frasi che erano punti per un decalogo immaginario. Le regole cui attenersi per una scrittura "onesta".

"Su uno dei foglietti che ho attaccato alla parete c'è un frammento preso da un racconto di Chechov: "... e all'improvviso tutto gli fu chiaro". Per me queste parole sono piene di meraviglia e di possibilità. Mi piace la loro limpida semplicità e l'accento di rivelazione che contengono. C'è anche del mistero. Cos'è che non gli era chiaro prima? Perché diventa chiaro proprio ora? Cos'è successo? E soprattutto: cosa accadrà ora? Risvegli cosi' improvvisi portano con sé delle conseguenze. Sento un'acuta sensazione di sollievo. E di attesa.
Una volta ho sentito Geoffrey Wolff dire a un gruppo di aspiranti scrittori: "Niente trucchi da quattro soldi". Ecco un'altra frase che dovrebbe andare in un cartoncino sei-per-dodici.

tratto da "Voi non sapete che cos'è l'amore" di Raymond Carver, edito dagli amici di Minimim Fax

21 aprile 2006

84



L'amore per la lettura in uno dei film più contagiosi che abbia mai visto.

18 aprile 2006

14 aprile 2006

inside



Ho visto inside man, ultima narrazione filmica di spike lee. Belllo e solido. Ma a parte un'idea interessante il film è un totale remake di dog day afternoon. Ci sono intere dinamiche e scene (l'uomo che soffre di cuore che viene liberato per primo e che i poliziotti scambiano per un rapinatore, per dirne una. Il rapinatore atterrato mettendo in pericolo tutti gli ostaggi e il complice che lo salva in extremis ecc).

Il riferimento è quell'equilibro anni 70 in cui i personaggi erano servi di scena del genere ma esistevano come personaggi e non solo come pupazzi.
Negli anni settanta comunque l'humanitas era molto più potente. sembra che la visione anestetizzata di oggi renda quasi impossibile la creazione di personaggi veramente complessi. in questo, per la sua povertà, il fumetto ha una assoluta maggiore libertà. e chances molto forti.

10 aprile 2006

dall'interno



Ausonia è un autore di qualità, mi scrive un manifesto programmatico che sucita in me diverse riflessioni.
Come avrete letto dai commenti al post precedente si riflette sul dove siamo oggi. Su questa proiezione per la quale la vita tende a imitare l'immagine (purtroppo un'immagine patinata e cosmetica).

Ausonia: "... e questo voglio fare io. e questo dovrebbe fare chiunque decida di avere il coraggio di prendersi la responsabilità di ri-costruire. usando immagini coloratissime e comprensibili per tutti, un po' pop e un po' apparentemente didascaliche, stampate su albi patinati... ma con dentro un cazzo di seme ben nascosto che così la "gente" se lo porta a casa senza saperlo e magari dopo un po' si trova una nuova pianta in soggiorno e credeva di aver comprato solo un cazzo di fumetto..."

Si parla di un lavoro di fondo, convertire chi non è già convertito insomma. Ausonia distingue tra persone (quelle che hanno consapevolezza e educazione all'arte) e gente (Categoria antropologica di inconsapevoli e consumatori occasionali di cultura)

Ausonia:"... poi ovviamente si può fare arte anche per le persone (che non sono la "gente") e lì cambia tutto. e lì si costruisce perché non c'é niente di rotto da ri-costruire. la "gente è il 70% della collettività, le persone la rimanente percentuale."


Mi interessa sapere come la pensate.
Io credo che un lavoro possa diventare popolare se parla in maniera diretta, Se prescinde da categorie di cultura, e classe. Questa è la scommessa dei manga.
Ma occorre anche un vero lavoro di editori. Un lavoro con una prospettiva. E qui ci si scontra per questioni ideologiche. Io credo in un progetto e una visione, e credo che la gente non esista (virtualmente, come categoria) Ma sarei ipocrita a pensare che abbiaqmo tutti lo stesso livello di consapevolezza.
Ora evitiamo demagogia e populismi facili, vi prego di esprimervi con la massima onestà. L'argomento è delicato. Ausonia si è palesato con molta franchezza.
grazie.