2 agosto 2013

teli bianchi

Trentatre anni fa fui svegliato dalle sirene delle ambulanze. Erano più o meno le 10 e mezza del mattino, avevo trascorso tutta la notte al tavolo da disegno. Abitavo in via Saffi 24, a Bologna, sulla via per l'ospedale maggiore. Dalle mie finestre al primo piano potevo vedere la strada e notai un viavai insolito di autobus a tutta velocità. Avevano dei drappi bianchi, lenzuola appese ai finestrini, alla bell'e meglio, per coprire. Si intravedeva qualcosa però, c'erano dei corpi distesi. E dottori. E poliziotti. Qualcosa di serio era successo, accesi la radio. La programmazione regolare era interrotta. C'erano collegamenti volanti che si cercava di mettere su. Voci confuse che parlavano di una strage. A quel tempo trasmettevo per radio Carolina, l'erede di Radio Alice, a Bologna. Chiamai la redazione di via Michelino per avere più informazioni. Mi dissero che era esplosa l'ala ovest della stazione, probabilmente una bomba, che ancora non si capiva bene, ma le prime notizie incerte parlavano di diverse decine di morti. Ricordo il senso di agitazione, quella sorpresa amara che ti regala qualcosa di spiacevole che non ti aspetti e non sai bene come affrontare. Mi infilai una camicia, giusto il tempo di inforcare la bici per correre verso la stazione. Al mio arrivo, una decina di minuti dopo, il piazzale era ancora immerso in un nuvolone di polvere. C'erano le persone che scavavano. Militari del genio, poliziotti, volontari. Dove c'era la stazione ora c'erano macerie. Al parcheggio dei taxi, di fronte all'ala ovest, che era saltata in aria, delle lamiere schiacciate; faceva molta impressione vedere un taxi ridotto a quel modo. Poliziotti e vigili del fuoco che indossavano le mascherine, l'orologio, in alto, si era fermato alle dieci e venticinque. Sotto quello che rimaneva di un arco, di là della voragine provocata dalla bomba, la vista dei binari, solitamente impedita dalle mura dell'edificio. Quella visione ora faceva male. Spaventava. Le scritte ristorante, tavola calda, sbilenche, segnalavano un disordine disarmante. E la parola morte, che rimbalzava di bocca in bocca. Dopo un po arrivarono i camion, le ruspe, a scavare, alzare altra polvere, per cercare di rendere agibile quella parte di piazza che era coperta di macerie. Giornalisti, operatori tv, curiosi, tutti cercavano sgomenti qualcosa che non si poteva trovare, in mezzo a quell'inferno.
Ricordo solo il bianco abbacinante. Degli operatori sanitari, il bianco delle barelle e dei teli stesi sopra i feriti a proteggerli dalla polvere, o sulle salme. Quel bianco era senso, era civiltà. Una superficie pulita e ordinata che si opponeva a polvere e disordine. Quella piccola superficie immacolata, mobile e operosa era la risposta. Per me qualcosa, in quei minuti, si è rotto per sempre. Da allora, per esempio, non riesco più a frequentare un luogo di passaggio, un aeroporto o una stazione, senza un istintivo senso del pericolo. Siamo piccoli, noi umani. Sebbene avessi trascorso la mia adolescenza di liceale a seguire la sequela di attentati, rapimenti, gambizzazioni, omicidi e stragi che avevano preso il triste nome collettivo di “anni di piombo”, non mi abituai mai a quell'insensatezza.
Ho rivisto dei filmati, che mi riportano a quei momenti. Che mi mostrano quello che in quel giorno non potei vedere. Le telecamere che entrano nei vagoni divelti, i poveri effetti personali, borselli aperti, carte da gioco, giornali, scarpe, valigie squartate, cassette musicali, radioline, bicchieri di plastica, giornaletti. Oggetti abbandonati sui sedili, in mezzo ai vetri dei finestrini esplosi, sotto alle tende, che dicono più di tante parole. E quei teli bianchi, che da allora, senza quasi accorgermene, sino a oggi, ho preso istintivamente ad amare. Igort. 2 agosto 2013. Per non dimenticare.