3 giugno 2006
ARGENTO! (capitolo 24)
Giacevano ammucchiati sul tavolo di una camera della “volpe d’argento” le saccocce, i foulard e le gioie sottratte dai chicos in quei giorni di scorribanda. Refurtiva fresca fresca tra cui era facile scorgere, sepolto da collanine e danari d’argento il taccuino nero di Donna Aurelia.
CLAP CLAP
con il solito segnale Norbescu, il duca di porcellana, diede inizio alla cerimonia di catalogazione.
Alla luce della lampada a carburo si passava al vaglio la mercanzia, suddividendola in ordine di valore. Ed era questo un rituale preciso, cui Norbescu dava somma importanza.
“La scienza” era, quella la maniera, neppure tanto ironica con cui il duca di porcellana aveva definito l’intera attività del malaffare. Catalogare. Vendere, mettere da parte.
Queste tre attività erano i pilastri della “scienza”.
Alla base vi erano viaggiare, e poi il cuore: turlupinare, cui era preferito rubare, poiché il raggiro, sebbene divertente, lasciava tracce più evidenti. Era accaduto che alcune sue vittime, rinsavite di colpo lo avessero inseguito. Il raggiro non era roba da bambini, occorreva la sua abilità dialettica. E benché fosse maestro insuperato nell’arte della truffa. Trovava più comodo e più sicuro affidarsi, per l’attività, ai chicos. Aveva dunque ceduto il passo, come diceva tra sé e sé compiaciuto, alle nuove generazioni. E quindi era quello il suo scopo, tramandare, arricchirsi nell’ozio illegale, è ovvio. Che il lavoro era considerato attività dei gonzi.
Vi si era dedicato con tutto lo slancio di cui un mariuolo dispone, a quella scienza, per potere perpetrare una attività di malaffare per perdurava ormai da decenni.
Prima regola della scienza: la refurtiva sottratta in un luogo andava smerciata in un luogo differente. Evitando dunque che le merci rubate potessero facilmente essere riconosciute dai legittimi proprietari.
CLAP CLAP
le aveva scandite da quel suo battito di mani, quei precetti. Che a suo avviso rimanevano più impressi.
Discrezione e stile d’altra parte, facevano di lui un nobilotto di cartapesta, messa in scena del tutto artificiale, di buone maniere e belletti cui non credeva veramente nessuno tranne alla fine dei conti, lo stesso Norbescu.
CLAP CALP
“Lo stile lo capirete più tardi: Ma sappiatelo, esso è la base del rispetto.”
Era davvero, a sondare i pensieri più reconditi e inconfessi, il Duca di porcellana.
Era davvero un faccendiere sempre sul punto di acquistare un latifondo negli angoli più sperduti del Sud America.
Ed era, inoltre, un ottimo amministratore della sua fortuna, duce indisturbato di una marmaglia selvatica feroce che educava con pungo di ferro.
Eh già, la scuola di Norbescu era spietata.
Norbescu, d’altra parte, non poteva permettersi che un bambino sbagliasse perché un errore avrebbe messo a repentaglio la sua stessa persona.
Quindi l’educazione era qualcosa che seguiva da vicino, personalmente, con estremo scrupolo.
A sei anni o anche prima, quando venivano rapiti o comprati, i chicos, venivano addestrati alle arti di funambolismo e furto con destrezza.
C’erano “i dotati” e “i refrattari”. I dotati erano coloro che apprendevano l’arte del borseggio in quattro e quattr’otto. Elmer era una meraviglia sotto questo profilo, un congegno perfetto per il furto con destrezza. Andava giusto “oliato” con qualche lezione di finezza, ma era, a sentire il duca di porcellana, per sua natura, un ladro nato.
Gregory aveva imparato anche lui con la velocità del soffio. Due assi, rapidi ed eleganti. Questo erano agli occhi di un patrigno orgoglioso quale Degla Norbescu.
Ma si sa le gioie della famiglia, benché artificiali, possono occasionalmente essere accompagnate dal dolore. E questo si presentò sotto le ingannevoli sembianze di un bambino smilzo e rossastro.
Rapito dai chicos nel sud della Francia J.C. aveva presto mostrato di appartenere alla categoria dei “refrattari”.
“il furto è nella natura dell’uomo, mi intendi?”.
E lui niente. Diceva “sissignore” ma non la sua testa era altrove: E il cuore ancor più distante.
“Homo Homini lupus” affermava il duca di porcellana citando teorie filosofiche masticate in qualche locanda fumosa.
Ma niente di niente. Quel bimbo introverso non trovava la sua via. Lo aveva messo “a bottega”. Esercitava di fianco a Elmer e una volta , per poco non li arrestarono entrambi.
“imbecille irresponsabile ingtrato” lo aveva apostrofato il duca di porcellana con la sua peggiore espressione.
“Servono gesti precisi J.C. o ci manderai tutti in galera!”
Assaggiavano non di rado la zirogna, i chicos. La zirogna era una lunga frusta da cavalli che il duca di porcellana aveva acquistato un giorno, anni addietro, in località Papassinas.
E aveva dunque provato con tutte le sue energie a raddrizzare quel marmocchio inadeguato.
Era goffo e pasticcione. Lo si era punito.
Poi i giorni passavano e J.C. costituiva la sgradevole eccezione. Macchè, non imparava: ostinatamente acerbo.
Vergognosamente refrattario.
Dopo un’ultima generosa prova sotto gli occhi di tutti fu decretata la sentenza.
“Addio J.C.”
Il bambino fu ucciso dai suoi stessi compagni.
Che i chicos imparassero la dura legge del duca di porcellana.
Aveva l’aria di un gioco? Non lo era. Doveva apparire leggero e divertente per gli altri, per i polli da spennare, per i gabbati. Ma i bambini sapevano benissimo che si trattava di una disciplina da servire con il massimo zelo.
E questa era dunque “la scienza”.
“Passami quel libro Elmer.”
E il taccuino nero fu toccato, sfogliato, scritato da mani e occhi estranei, cosa che non era mai accaduta, per secoli, prima che i marmocchi se ne impossessassero con la forza quel pomeriggio di pioggia.
Con il solo occhio a disposizione prese a scrutare la scrittura minutissima di Donna Aurelia e delle altre donne che avevano con pazienza, Degla Norbescu.
“Hmm, la vecchia pareva volerla proteggere con ogni forza. Che roba è?”
“non è un libro di miniature, non c’è traccia di iscrizioni in oro.Sembrano solo scartoffie”.
Si provò a leggere le annotazioni, ma la scrittura era talmente minuscola che non riusciva quasi a decifrare le singole lettere. Stava perdendo la vista all’unico occhio che gli rimaneva. E poi non parlava spagnolo.
“bah disse, merce senza valore”. E buttò verso il camino quel libro nero.
Che rimbalzò e fu raccolto da Elmer, incuriosito.
Non sapeva leggere Elmer ma gli piacevano i libri illustrati. E lo sfogliò con quelle sue manine lerce da putto. Alla ricerca di immagini. poi avanti e indietro a costatare che la scrittura cambiava.
Non capiva nulla, ma intuiva che quel libro gli piaceva.
Lo ripose nella sua bisaccia e si addormentò al tepore del camino.
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1 commento:
Andrea Barbieri ha detto:
" Se potessi Igort ti incollerei la porta di casa finché non disegni tutti i capitoli, ma forse Baobab riesce bene anche perché - come il Grande Male - ha il tempo dalla sua parte."
Ne parlavo con Perec l'altro giorno, Andrea, il ritmo fa la storia. La determina più di quanto non si pensi. Per questo mi piace molto scrivere Argento. La cadenza, giorno per giorno, storia mi contringe a pensieri e invenzioni quotidiani. I fili si tirano. Le vicende si intrecciano.
Baobab è lo stesso; storie parallele che maturano dentro di me per anni. Poi la scrittura versa le immagini su carta. Il processo è spontaneo.
Non sto con le mani in mano, ma sono certo che disegnassi tutto il tempo Baobab sarebbe diverso da come poi effettivamente viene.
Raccontare ha i suoi tempi di ebollizione, e di decantazione, ecc. Come la cucina o l'alchimia.
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