21 settembre 2006

ARGENTO! capitolo 43




L’uomo scese da una sorta di reliquiario; c’erano immagini sacre ovunque e croci dipinte di colori diversi e rosari e bacche che riempivano coppe d’argento. Dalle pareti le lingue di fuoco al carburo illuminavano quell’antro creando riflessi blu petrolio e verde muschio che rimbalzavano sulla sua pelle.
Camminò lentamente per la grotta. Sembrava compiaciuto di quella lentezza.
Poi rimase immobile davanti allo specchio, come privo di vita. Il suo corpo era di un colore talmente cupo che si fondeva con il buio. Solo il lucore degli occhi balenava nella tenebra.

Qualcosa si mosse, con cadenze meccaniche in quell’oscurità. Se si fosse sentito il ticchettare di un metronomo quelle zampette sarebbero risultate “a tempo”, talmente sembravano rispondere a una partitura musicale.
Sfilavano geometricamente. Una tarantola e un’altra e ancora un’altra. A ricoprire la parete dello specchio.
L’uomo sembrava ignorarle; con fare rituale distese molto lentamente le braccia e schiuse la bocca. Farfugliò delle frasi incomprensibili, che sembravano quasi un ululato al rovescio. Ma sottovoce. Poi rimase in attesa, con il viso rivolto verso l’alto.
Uno, due, tre secondi dopo, colò da quel soffitto in quarzo, una pioggia argentata e rumorosa.

Faceva un frastuono impressionante.

Alvino lo spiava senza distogliere lo sguardo con il respiro strozzato.

Suoni di ingranaggi lontanissimi sembravano echeggiare da sotto polveri antiche e arrivarono accompaganti da una amosfera lattiginosa che squarciò le pareti. Adesso il luogo sembrava uno spazio aperto, e Alvino vedeva e non vedeva, però il sibilare del vento che spazzava le dune del deserto lo sentiva distintamente.
Aveva paura, il piccolo, eppure si sentiva attratto da quella luce opalescente. Quasi svenne per la paura quando, senza preavviso alcuno, tutto fu inghiottito ancora una volta dal buio pesto.
Buio e freddo.
E si rese conto di tremare. Tremava fortissimo: i denti battevano così forte da fare male. Pareva che stessero per staccarsi da un momento all’altro.

Guardò nuovamente nel buio e gli sembrò di vedere l’angelo nero con il corpo interamente ricoperto di monete che si voltava verso di lui. Gli occhi erano due dischi di argento. E vibravano.

FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

Ritmicamente.
Dalla bocca aperta fuoriuscivano quei suoni sconnessi. Suonava come una salmodia inquietante.

“non capisco” si scusava Alvino
“non lo so. Davvero, non ne so niente”

Le tarantole avevano continuato la loro danza e si erano mosse dallo specchio che ora appariva ricoperto di una sostanza opaca simile alla pece. Non rifletteva più nulla.
Si avvicinavano: Alvino le osservava con un misto di schifo e terrore, ma era anche curioso in fondo. Si sentiva attratto da quegli enormi insetti che non aveva mai visto prima d’ora.
Uno squarcio di luce ferì i suoi occhi, era luce bianca, fortissima, faceva male.
E tornarono quei suoni incomprensibili.
“ch…ooo…entiiiiii”

“cosa volete da me? Basta con quella luce” protestava il bambino.

Sentiva la forza venire meno; il suo corpo era diventato sempre più pesante; tanto che le gambe non lo reggevano più. Si ritrovò per terra con i muscoli che non ubbidivano. Cercava di rialzarsi ma invano. Mentre le tarantole si avvicinavano rapidamente e gli camminavano sopra. Sulle gambe, sul busto e sul volto. In breve ne fu completamente ricorperto. E questo fu poco prima di essere sbattuto da una forza superiore, quasi un’elettricità misteriosa, che scagliava il suo corpo qua e là su quel pavimento di pietra.
Piangeva Alvino. Singhiozzava. E desiderava solo di essere lasciato in pace, per potere tornare a un oscurità che adesso gli sembrava quasi desiderabile.
Poi si rese conto, le tarantole filavano la loro tela. Goccia dopo goccia, un filo sottilissimo che colava da quelle minuscole bocche pelose, come un filo d’argento che lo avvolgeva. In vita. Sempre più stretto, strettissimo; fino a tagliargli il respiro.
E bruciava i panni, la pelle, le carni, che si scoglievano come burro fuso.
Il dolore era sempre più forte con il crescere della luce, che adesso inondava gli spazi portata da qualcosa di aereo. Cos’erano quelle forme indistinte? Lucciole? Erano lucciole quelle che vedeva? Non le aveva mai incontrate in sogno ma era come se facessero parte di lui. Udì dei suoni orribili che rimbombavano nel suo cranio e di colpo il reliquiario, le tarantole, ogni forna di presenza ostile o amica, parve dissolversi.


Quando aprì gli occhi vide che c’erano delle donne attorno a lui che lo vegliavano.
“Chico mi senti?”Chiedeva una di queste. Era lei che gli teneva aperti gli occhi con le sue dita callose.
“No…nna…” riuscì a malapena a pronunciare Alvino.
“Non c’è la tua nonna piccolo”.
“come ti chiami?”
“hhrrrrrrrr”
Non riusciva bene ad articolare, come fosse rimasto muto per tanto tempo.
“non riesce a parlare” disse la donna che gli aveva spalancato gli occhi.
“E’ il nipote di Donna Aurelia” aggiunse Esmeralda.
“guardate, piange”
“Non è lontana tua nonna, chico, è laggiù, non piangere; presto si rimetterà”.

Alvino si sentì calmo, fece un respiro profondo, rassicurato da quelle parole. Due lacrime scesero, senza dolore.

Chiamate don Erminio, il ragazzo ha la testa spaccata.
Lo pulirono del sangue con una pezza imbevuta d’acqua. Esmeralda lo accarezzacva e gli cantava sottovoce una specie di ninna nanna. Ed era una situazione irreale perché poco distante il medico contrastava i federales che avevano arrestato Felix.
L’alcalde si godeva lo spettacolo di uno scompiglio che metteva a soqquadro le precarie condizioni di lavoro. Era quasi orgoglioso di essere riuscito nell’impresa di disturbo. Anche se il suo ruolo gli imponeva un’espressione accigliata che a malapena dissimulava un sorriso sprezzante.
Anche Alvino sorrideva, gli occhi chiusi, ignaro di tutto quel trambusto. Poi ebbe un sussulto e parve rinvenire. Aveva l’aria spaventata di chi vuole sfuggire a un sonno febbricitante.

Don Erminio parlamentò con l’alcalde. Era riuscito a fatica a sedare l’ira dei campesinos che subivano l’arrivo dei bracconieri come un affronto. Esmeralda e le altre donne udirono poche distinte parole, pronunciate quasi sottovoce:
“ Autorizzi il trasferimento di morti e feriti, o sarà peggio per tutti”.
Stavano giocando con il fuoco entrambi, dottore ed Alcalde, e ne erano consapevoli.
L’alcalde non poteva mettere a repentaglio il precario equilibrio politico, che aveva mostrato tutti i suoi limiti pochi giorni prima. D’altra parte era uomo pratico, sapeva riporre il suo rancore nell’armadio dei buoni propositi per liberarlo come una belva feroce quando ne aveva occasione. E dato il suo potere ne aveva spesso occasione.
I bracconieri erano poco più che una presenza folcloristica da quando la loro guida era stata decapitata. Ma questo dettaglio, che era d’altronde chiarissimo nella visione dell’alcalde, fu valutato come si valutano i guanti usati, con quell’indulgenza di chi si affeziona ai ricordi e non vuole ammettere che la funzione principale di un oggetto è forse oggi sfumata.

D’altra parte don Erminio sentiva un senso di oppressione che gli sembrava insormontabile. Aveva bisogno della sua musica, del suo Mozart per sopportare lo sfacelo e la distruzione che lo circondava. Si sentiva mancare il respiro al pari dei suoi pazienti, perché, a dispetto di una fede che credeva incrollabile oggi si domandava quale Dio avesso potuto permettere una simile sofferenza.

Era uomo di esperienza e aveva imparato a conoscere i momenti del dubbio, erano questi che gli avevano suggerito delle scorciatoie. Nell’arte ritrovava la grazia e in questa un nuovo fiato che gli consentiva perfino di riconciliarsi con il suo Dio. Di sopportarne meglio la violenza inaudita, quando questa bussava alla sua porta.
Si consolava anche, con la conoscenza dei testi sacri indù che avevano definito Shiva come “il tremendo”. Il Dio distruttore eppure dolcissimo, che gli aveva insegnato qualcosa sull’amore. Sul fatto che amasre non è solo nettare o indulgenza, ma anche, talvolta, furore.

Questi pensieri sferzarono i tempi, che parevano addormentati in una pausa eterna, e gli imposero di tornare al suo lavoro.

“ Autorizzi il trasferimento di morti e feriti, o sarà peggio per tutti”.

In seguito a quella frase era seguito un silenzio sostenuto da un accanito scambio di sguardi, talmente accanito che nell’interpretazione di alcune tra le donne presenti c’era perfino ferocia.

Don Erminio si allontanò per tornare al suo lavoro, lasciando l’alcalde a tirare su un poco di tabacco da naso dalla sua tabacchiera d’avorio e madreperla.

Si accostò, Don Erminio e tastò il polso di Alvino. Poi osservando meglio le ferite sul suo volto e sulla cute del cranio chiese:
“Ciao Alvino. Cosa ti è successo?”

“ As…tor?”
“Non lo so piccolo”.
“hai la testa spaccata, dove hai battuto?”
Ma Alvino non rispose. Si sentiva al sicuro adesso. Aveva solo bisogno di raccontare il sogno a sua nonna.
“dov’è no…nna?” chiese
“ ha fatto un lungo viaggio, come te, adesso sta tornando.” Disse il medico con voce roca.

2 commenti:

skan ha detto...

buongiorno

igort ha detto...

buongiorno a lei