
Quando credette di vederlo San Evaristo gli sorrideva, aveva una barba bianca appuntita e quel suo sguardo severo che credeva di conoscere da tanto.
Si guardarono placidamente disturbati solo da un sibilo insistente. Cos’era?
L’alcalde fluttuava, sospeso mentre guardava la scena dall’alto. Vedeva il suo corpo attorniato da federales. Giaceva immobile. E il dottore, che adesso inspiegabilmente non odiava più, gli tastava il polso.
“E’ morto” disse.
Fu cosi’ che lui stesso apprese di essere passato a miglior vita. E si domandava se sarebbe davvero stata una vita migliore, quella che si accingeva a intepretare (chissà quale ruolo gli avrebbero affidato, ne era curioso).
Il riassunto della sua esistenza appena terminata era scorso rapidamente, immagine dopo immagine, con un senso di disgusto che lo aveva sorpreso. O meglio era rimasto sorpreso dal fatto di avere improvvisamente capito, di aver dato cioè, valenza diversa ad atti che nella sua vita riteneva logici, perfino ovvi, e che di colpo invece gli erano apparsi in tutta la loro meschina natura.
Lo sgomento si era fatto strada, come un ruscello che scava la roccia, e aveva scavato degli alvei nella sua anima fragile di uomo senza punti di riferimento. Era a un bivio, un uomo in bilico, che non godeva più del privilegio di antiche certezze, né, d’altra parte, dell’entusiasmo di nuove scoperte.
Errori, si erano affastellati, e lo appesantivano. Adesso ne vedeva cosi’ tanti che avrebbe voluto cancellarli, come si cancella una scritta sbagliata. Ma quella che aveva davanti agli occhi era la lavagna dell’esistenza.
E dunque si’, provo’ perfino vergogna, senza ancora comprendere appieno il perché.
Situazione alquanto scomoda per uno abitiuato a comandare. Non sapeva esattamente su che piede danzare quando voltandosi a destra e poi subitamente a manca per attirare l’attenzione del suo virglilio, si avvide che questi era scomparso. Volatilizzato.
Ma dove si trovava San Evaristo? E che accidenti avrebbe dovuto fare adesso lui? Cerco la sua tabacchiera. Doveva essergli caduta poco prima. Non la trovava. Allora si decise a parlare. Cosi’, per farsi compagnia da solo. Parlava parlava ma non udiva neppure la sua stessa voce, disturbato com’era da quel dannato sibilo che gli impediva quasi di pensare.
Cos’era quel sibilo? Era un fischio stonato, che aveva cominciato a percorrere i padiglioni auricolari quando il proiettile di fucile aveva perforato la sua fronte. E non ne voleva sentire di cessare.
UUUUUUUUUUUUUUUUUUUIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII
Proprio adesso che si era deciso a ridere, che aveva imparato l’autorironia. “ destino beffardo, destino beffardo”, continuava a ripeterselo; un destino ingiusto quello.
Oppure forse, ancora peggio, quello era stato il regalo ultimo, un premio di dipartita che il suo santo protettore aveva deciso di elargire come passaporto per l’aldilà?
Già si vedeva, in fila per passare. E su un giornale di sottecchi leggeva il titolo: “aguzzino per tutta la vita, in punto di morte finalmente impara a ridere”.
Affrettava il passo per sfuggire quel destino ineluttabile.
Un po’ di dignità che diamine. Rifiuto’ i pensieri bislacchi come si rifiuta un piatto andato a male al ristorante. Ma poi, ai suoi piedi rimbalzo’ un sasso. Fece finta di niente. Un altro e un altro ancora. Ce l’avevano con lui, era chiaro. Si volto’ e inspiegabilmente sorrise. In cerca di complicità. Ma si avvide che era stato raggiunto da alcuni tristi figuri, i quali, adesso, questa è bella, gli sbarravano perfino la strada. Alzo’ lo sguardo, era pur sempre un alcalde, chissà se ancora lo chiamavano Sua Eccellenza. Fece per parlare ma non usciva suono alcuno, poi alzo’ ben bene lo sguardo e li vide in volto. E riconnobbe, uno dopo l’altro, le vittime delle sue scorribande da mascherato. Gesu’, quanti erano. Sorrise, non ricambiato. Poi ebbe un sussulto, e si morse la lingua. Penso’: “posso spiegare”. Ma non usci’ suono alcuno.
Quando fu afferrato si senti’ strappare da tutte le parti, e non era capace neppure di urlare. Presto fu buio, molto buio e credette di perdere i sensi.
Più in basso, sulla dura terra, Lupita frattanto era fuggita in mezzo agli spari dei federales. Rapida aveva rubato un cavallo dei latifondisti e si era allontanata al galoppo.
Il parapiglia aveva facilitato l’azione di nascondere i volti dei ribelli sotto le pezze bagnate. Don Erminio era tornato ai suoi feriti e seppure a malincuore non poteva trattenere un sorriso che gli illuminava il volto.
“Avete visto chi era dottore?”
“Chi era?” chiese mentendo, dato che la aveva ricnosciuta benissimo.
“ Era Lupita quella”.
“ I cerchi si chiudono, le prepotenze non sono apprezzate da Dio”. Disse Esmeralda.
“già, già”. Chiuse il discorso il dottore che vide in quel momento, tra i feriti gravi, l’uomo che aveva rischiato di essere impiccato. Era Emiliano Maraboto, il fabbro cui l’alcalde una notte aveva strappato la lingua”.
Aveva il torace schiacciato ma era ancora cosciente.
“ tua sorella ha ucciso l’alcalde, Emiliano” disse don Erminio.
“ ora puoi morire in pace”
Sorrise con quel poco di forze che gli restavano e cerco’ di dire qualcosa.
“ l’ar..ncia è m..ra”.
“Cos’ha detto?”
“qualcosa come “l’arancia è matura””. Disse Esmeralda.
Tutti si domandarono perché avesse scelto quelle come ultime parole.
Poi arrivarono altri schiamazzi. Pareva che chi tornava dall’altro mondo avesse sempre un diavolo per capello. Era difficile ottenere sobrietà. Forse era la morte a spaventare, o forse la gioa di essere ancora vivi a dettare un entusiasmo pressoché esplosivo.
Fattostà che al suo risveglio il duca di porcellana fu piuttosto villano e alquando sbrigativo. Neppure un grazie, neppure un motto di sopresa, ma solo stizza e rabbia malcelata.
Non era ferito, non amava sentirsi spiato, mentre dormiva, e detestava essere accomunato ai volgari campesinos. Tutto era troppo, decisamente.
Comincio’ a spazzolare il fango secco dalle sue vesti pregiare e chiese, con tutta la malagrazia di cui disponeva, dove mai avessero cacciato i suoi chicos.
“ Li lasci andare, quei poveri bambini” disse una vecchia che lo aveva accudito.
“ Quei poveri bambini sono nutriti e curati quanto tu non sapresti mai fare, vecchia della malora. Conducono un’esistenza felice e non avrebbero voglia alcuna di allontanarsi da me”.
Rispose con un marcato accento forestiero, il duca. Non aveva mai apprezzato le situazioni troppo promisque, non si confacevano al ladrocinio; rischi sempre che qualcuno ti veda. Lui preferiva, era la scienza ad insegnarlo, la sua scienza, i gruppuscoli di gonzi, che con un numero ragguardevole di chicos dominava alla grande.
Solo la vista di Greg, sotto un albero, che intagliava un ramo con il suo coltello a serramanico gli diede conforto.
“my boy, where are the others?”
E lui indicando una serie di corpicini semisvenuti poco distante mostro’ cio' che aveva sempre creduto di possedere, una superiorità indubbia. Lui era il primo; il più forte, quello destinato al comando.
“abbiamo cose da fare" disse.
“ Ah, certo, Greg. Diamoci da fare”.
Mentre il piccolo svegliava i suoi compari senza troppe cortesie il duca di porcellana si reco’ verso il capo dei pompieri per sapere se per caso avevano recuperato il suo carro.
“un carro abbastanza grande”.
Il capo dei pompieri sorrideva per tutte quelle arie da gran signore che il duca di porcellana cercava di darsi. Poi con gli occhi fisso’ un punto alle spalle dell’uomo, che si volto’ e scorse il suo carro, sporco di fango ma abbastanza in buono stato.
“ Beh, accidenti, dovremo dargli una bella pulita, ma pare che stia ancora in piedi".
E battè le mani
CLAP CLAP
come suo costume, e i chicos ordinatamente si avvicinarono e cominciarono , come potevano, con frasche e poi con secchi prestati dai pompieri, a lavare quella che per loro era, a tutti gli effetti, una carrozza regale.
Cominciava a calare il sole quando si allontanarono sul carro trainato da un ronzino acquistato ai latifondisti. Diretti verso nord, verso Puerto Oruro.