26 giugno 2014

Tokyo, 25 giugno 2014

Yuka mi porta nella casa delle geishe, me la mostra. E' un locale silenzioso, nascosto in un vicoletto di Kagurazaka. Un posto frequentato da persone piuttosto facoltose. Il mito delle geishe mi interrogava già da anni, tanto da averle disegnate, nelle pagine di Goodbye Baobab, anno di grazia 1982. Queste donne misteriose, con il koto e lo shamisen, i due strumenti che usano per raccontare e cantare le loro storie, erano la quintessenza del Giappone antico e sfuggente.
Meno di dieci anni più tardi, nel mio primo viaggio a Tokyo, in compagnia di Patrizia, allora mia moglie, fummo ospiti della famiglia O., i più grandi costruttori del Giappone. Era un viaggio di lavoro al quale mi accodai volentieri per visitare un luogo a lungo sognato. Non ricordo come fu precisamente, ma assistemmo a uno spettacolo kabuki. Che era uno spettacolo speciale, perché ospitava numerose geiko e si chiamava appunto kabuki-geisha. Queste alternavano i loro canti sinuosi e gutturali ai recitati gravi e baritonali dei cantanti maschi. Lo spettacolo fu una cosa che mi fece capire per sempre il potere magico del teatro, e del racconto, mi ricordo una nevicata, evocata da un roteare di luci, che faceva venire freddo. Rimasi ammirato per una tecnica di emissione vocale che una vecchia geisha aveva messo a punto. Un'impostazione del tutto sconosciuta da noi, per nulla praticata, intendo, che dava delle coloriture scure e profonde a questa vocina che si ostinava a voler apparire come flebile e fragile. Il palco era immenso e con costumi e colori degni di un ukiyo-e; entravano e uscivano non meno di una dozzina di attori, più i servi di scena, che mascherati di nero svolgevano il loro lavoro, spostando scenografie e costumi caduti nell'azione scenica. Ai lati 22 musicisti e cantanti raccontavano e accompagnavano la storia. Assistevo in estasi a quel prodigio. Una visione antica, popolare, come lo era il teatro kabuki, naif, negli espedienti da teatro primitivo capace tuttavia di creare emozioni importanti, che riverberano profondamente dentro lo spettatore, e portano suggestioni quasi inspiegabili. E l'inspiegabile si palesò, dopo, a spettacolo terminato, quando i nostri facoltosi ospiti ci inviatrono a cena, in un ristorante antico nel retro del teatro. Lo scorrere degli shoji ed ecco entrare per intrattenerci 2 geishe e una maiko (apprendista geisha). Provenivano direttamente dal palco. Erano alcune di quelle che avevo ammirato cantare poco prima. Loro servivano da bere a un ospite imbambolato che le fissava come si fissa un essere proveniente dalla luna. Sembravano di gesso, con il volto dipinto di bianco e le movenze cadenzate. Chiesero chi ero (dato che a me e ai miei era riservata un'accoglienza regale, dovevo essere importante, e invece ero solo un uomo fortunato). Gli ospiti giapponesi alzarono la posta e fecero intendere che ero importantissimo e ricchissimo, al punto che una di queste, che mi intratteneva con i suoi canti, mi porse un meishi, il suo biglietto da visita. E io, naturalmente, lo presi. Scatenando l'ilarita generale, perché significava che avevo accettato di prenderla sotto la mia tutela, e di impegnarmi a pagare kimono e parrucche che costavano una fortuna. "Igo chan" mi sussurrava lei, mentre mi accompagnava in un nuovo locale per assaporare un whiskey giapponese, totalmente soggiocato dal fashino di quella donna. Ricordo distintamente quando apparve nella mia mente, come un bagliore, un'illuminazione, il titolo di un romanzo di Tanizaki che avevo molto apprezzato: "l'amore di uno sciocco", così si chiamava.

2 commenti:

CREPASCOLO ha detto...

RAI nella lingua del Sol Levante significa vincere ( era il nome di un personaggio della Valiant degli anni novanta non tradotto nel Paese la cui velocità di crociera è 80 euros ndr ), ma è anche l'acronimo della azienda che ci guarda con il suo occhio una volta catodico ed oggi plasmatico.
Alla fine degli anni cinquanta, Agus ed Tognazzi stanno registrando il famoso sketch in cui un "boveronegro " cerca di convincere un "biddore" a dipingere tra gli altri anche un
" angioletto negro". Gianni ha il solito capello a medusa spiaggiata che nessun artista, dal tempo delle scene di caccia immortalate nelle grotte a Picasso, indosserà mai ed Ugo ha scurito il suo muso rotondo con del lucido da scarpe. Capita in studio Zavattini, miope come una talpa e senza lenti, dimenticate da qualche parte insieme allo script di Saturno contro la Terra ( fumetto che il ns non ammetterà mai di aver contribuito a creare ndr )e resta folgorato da quella che crede una Joséphine Baker con l'accento di Cremona. Incapace di proferir parola, corre ad ordinare rose rosse che chiede siano recapitate a " quel miraggio che ha guadagnato alla vita un pellegrino nel suo eterno vagabondaggio, senza bussola, alla ricerca di un significato al tutto che respiriamo, sospettandone una profondità che fino a questo momento era solo una ipotesi ". Più o meno. Un uomo in preda alla passione non può essere neorealista. Quelle sagomacce della RAI non fecero nulla x chiarire l'equivoco. Tognazzi lo chiamava ogni tanto e rispondeva alle sue missive con una prosa combo di Flaubert e Flaiano.
"Za" arrivò a scrivere, sotto pseudonimo, parecchi spaghetti western ed un paio di quelle pellicole in cui poco prima dell'intervallo la protagonista si fa una doccia per poter comperare un nido d'amore alla sua bella moretta. Ugo ci passò una bellissima estate con Pat O'Hara, la futura mamma di Ricky. Cattivo.

mazingazeta ha detto...

Ot : sto leggendo Il grande male di David B. coinvolgente e tanto, mi spieghi igort la ragione che porta un illustratore a scegliere con una storia già in testa il b/n invece del colore, ed è vero che disegnare in b/n è più difficile ? ciao