2 agosto 2013
teli bianchi
Trentatre anni fa fui svegliato dalle sirene delle ambulanze. Erano più o meno le 10 e mezza del mattino, avevo trascorso tutta la notte al tavolo da disegno. Abitavo in via Saffi 24, a Bologna, sulla via per l'ospedale maggiore. Dalle mie finestre al primo piano potevo vedere la strada e notai un viavai insolito di autobus a tutta velocità. Avevano dei drappi bianchi, lenzuola appese ai finestrini, alla bell'e meglio, per coprire.
Si intravedeva qualcosa però, c'erano dei corpi distesi. E dottori. E poliziotti.
Qualcosa di serio era successo, accesi la radio. La programmazione regolare era interrotta. C'erano collegamenti volanti che si cercava di mettere su. Voci confuse che parlavano di una strage.
A quel tempo trasmettevo per radio Carolina, l'erede di Radio Alice, a Bologna. Chiamai la redazione di via Michelino per avere più informazioni.
Mi dissero che era esplosa l'ala ovest della stazione, probabilmente una bomba, che ancora non si capiva bene, ma le prime notizie incerte parlavano di diverse decine di morti.
Ricordo il senso di agitazione, quella sorpresa amara che ti regala qualcosa di spiacevole che non ti aspetti e non sai bene come affrontare.
Mi infilai una camicia, giusto il tempo di inforcare la bici per correre verso la stazione. Al mio arrivo, una decina di minuti dopo, il piazzale era ancora immerso in un nuvolone di polvere. C'erano le persone che scavavano. Militari del genio, poliziotti, volontari.
Dove c'era la stazione ora c'erano macerie.
Al parcheggio dei taxi, di fronte all'ala ovest, che era saltata in aria, delle lamiere schiacciate; faceva molta impressione vedere un taxi ridotto a quel modo.
Poliziotti e vigili del fuoco che indossavano le mascherine, l'orologio, in alto, si era fermato alle dieci e venticinque.
Sotto quello che rimaneva di un arco, di là della voragine provocata dalla bomba, la vista dei binari, solitamente impedita dalle mura dell'edificio. Quella visione ora faceva male. Spaventava.
Le scritte ristorante, tavola calda, sbilenche, segnalavano un disordine disarmante.
E la parola morte, che rimbalzava di bocca in bocca.
Dopo un po arrivarono i camion, le ruspe, a scavare, alzare altra polvere, per cercare di rendere agibile quella parte di piazza che era coperta di macerie.
Giornalisti, operatori tv, curiosi, tutti cercavano sgomenti qualcosa che non si poteva trovare, in mezzo a quell'inferno.
Ricordo solo il bianco abbacinante. Degli operatori sanitari, il bianco delle barelle e dei teli stesi sopra i feriti a proteggerli dalla polvere, o sulle salme.
Quel bianco era senso, era civiltà. Una superficie pulita e ordinata che si opponeva a polvere e disordine. Quella piccola superficie immacolata, mobile e operosa era la risposta.
Per me qualcosa, in quei minuti, si è rotto per sempre.
Da allora, per esempio, non riesco più a frequentare un luogo di passaggio, un aeroporto o una stazione, senza un istintivo senso del pericolo.
Siamo piccoli, noi umani.
Sebbene avessi trascorso la mia adolescenza di liceale a seguire la sequela di attentati, rapimenti, gambizzazioni, omicidi e stragi che avevano preso il triste nome collettivo di “anni di piombo”, non mi abituai mai a quell'insensatezza.
Ho rivisto dei filmati, che mi riportano a quei momenti. Che mi mostrano quello che in quel giorno non potei vedere.
Le telecamere che entrano nei vagoni divelti, i poveri effetti personali, borselli aperti, carte da gioco, giornali, scarpe, valigie squartate, cassette musicali, radioline, bicchieri di plastica, giornaletti. Oggetti abbandonati sui sedili, in mezzo ai vetri dei finestrini esplosi, sotto alle tende, che dicono più di tante parole.
E quei teli bianchi, che da allora, senza quasi accorgermene, sino a oggi, ho preso istintivamente ad amare.
Igort. 2 agosto 2013. Per non dimenticare.
13 giugno 2013
Paz amarcord
La prima volta che andai a trovare Paz, era il marzo 1979; abitava con Betta, la sua ragazza, in un piccolo appartamento dalle parte dei tribunali, a Bologna.
Lui non c'era, ma mi intrattenne Nando, il fratello di lei, che all'epoca non era che un ragazzino, un tredicenne moto curioso e gentile, che mi fece compagnia per una mezz'oretta circa.
Ma Paz non arrivava.
Sul tavolino, un piccolo piano arrangiato a tavolo da disegno, la pagina da cui Alter ha appena tratto la copertina del numero in edicola. Un disegno potente e ironico, ritrae un umano che somiglia all'uomo mascherato e due scimmie che osservano, con lo stesso sguardo assente. Tutte e tre le figure hanno gli occhi color rubino.
E' il 1979 Paz è già una star, uno dei disegnatori di maggior talento. Gli piace spiazzare.
E in quegli anni si viaggia con le immagini. Un' immagine è una porta dimensionale per penetrare in mondi sconosciuti.
Questa visione dell'autore come maestro di cerimonia, sciamano, ipnotista dei lettori, l'ha teorizzata 5 anni prima Moebius. E ha fatto un grande effetto. “Le storie non devono essere quadrate”, dice, “possono essere a forma di casa... o di elefante”.
Io all'epoca sono un autore in erba, visito Magnus, “il maestro”. Frequento Carpinteri, Federici, Giardino, che stanno muovendo i primi passi. Sono tornato da Londra dove ho visto sorgere il punk.
Bologna è esplosiva, piena di energie. In tanti vogliono fare, dire la loro. Aleggia una grande forza iconoclasta. Il Dams, è il clubbino che molti di noi giovani autori, frequentiamo. E che Paz ha reso mitico sulle pagine di Penthotal.
La fine degli anni Settanta è la stagione delle riviste. Pubblichi su Alter, o su Linus e ti leggono praticamente tutti. Oreste del Buono ha fatto il miracolo, ha mostrato al mondo, e ai signori della cultura, che esiste un'isola inesplorata, si chiama fumetto.
I giganti di questa narrativa, trascurata sinora, si chiamano Munoz& Sampayo, Moebius, Druillet, Corben, Breccia. Sono davvero tanti, decine, centinaia.
E in questo contesto, il giovane Paz, che all'epoca ha 23 anni appena, si muove con la disinvoltura dei grandi. Destruttura. Le sue storie sono fatte di schegge, frammenti, spesso sgangherati di poesia metropolitana, oppure deliri esilaranti che si leggono con le lacrime agli occhi, ripetendo le battute a voce alta, per poi riprendere a ridere. E disegna Paz, se disegna!
Frequenta la traumfabrik, una casa occupata in pieno centro. Al 20 di Clavature, sotto le due torri. In quella casa, al secondo piano, sulla porta dipinta di rosso, è stato piantato un campanello da bicicletta funzionante. Ci sono decine di messaggi a pennarello e la scritta Tramfabrik, fabbrica dei sogni. I sogni sono quelli dei talenti di nuovo fumetto e della nuova musica, che pascolano in quelle stanze, a tutte le ore. E' una casa aperta, come si usa allora, dove non c'è neppure un fornello per farsi un caffè, ma dove si produce. Si disegna, fotocopia, taglia, incolla, scrive, suona, prova, fotografa, filma. Verranno fuori grandi talenti, voci influenti per gli anni a venire.
Circolano i nomi di riferimento: Burroughs, Wharol, Artaud, Iggy Pop, i Ramones.
In pochi anni le cose cambiano velocemente. Il 1980 è uno spartiacque. Muore Cannibale, dove Paz aveva folleggiato insieme ad altri grandi talenti del fumetto, e nasce Frigidarire.
Andrea si rinnova, pubblica Zanardi. Un affresco spietato della giovane generazione. Le storie vengono in gran parte dai racconti di liceo di Nando, il fratello di Betta. E ricordano quell'atmosfera decadente e cupa che ho visto con i miei occhi alla Traumfabrik. Bologna è sempre presente, e pare che nelle sue pagine diventi universale. Anche questo è un grande talento di Paz.
Sono storie in cui cinismo, e cattiveria adolescenziale si miscelano pericolosamente.
Io ho due anni in meno di Andrea, ho cominciato il mio percorso, in pochi anni pubblichiamo sulle stesse riviste. Quando sbarchiamo in Francia, sulle pagine de l'Echo des Savanes, la sua storia “notte di Carnevale” desta scalpore. Pare il principio di una carriera internazionale. Ma Andrea, ultimamente si è invaghito di un personaggio bizzarro, tale Tortorella. Dicono che è un ex pusher, è stato promosso sul campo “manager di Paz”. Fa trattative con il boss de l'Echo in puro stile Al Capone, chiede il triplo, se si vuole pubblicare altro Pazienza. In breve Paz è messo alla porta.
Non è grave, gli ho visto vendere la stessa storia a due editori concorrenti, Paz ha mille risorse, però, che spreco. In Spagna lo chiamano Paciencia. “E dai”, dico, “i nomi mica si traducono”. Lui ride. Lo amano, laggiù, lo sa.
Si incontra a casa di Marcello Jori con Piervittorio Tondelli la cui opera prima “Altri libertini” è stata appena sequestrata. I due simpatizzano, parlottano continuamente. Hanno uno sguardo fratello sul reale, ognuno con il suo stile.
Questa era la mia Bologna di quegli anni. Piena di talenti che si incontravano, parlavano e facevano. Ci sarebbero tante altre storie. Storie piene di passione e di dolore. Che un giorno, forse, vedranno la luce.
30 maggio 2013
autunno 1982
Il primo numero di Valvoline. Autunno del 1982. Casa mia, notte. Terzo piano di una palazzina in via Berretta rossa, a Bologna. Atmosfera euforica. Mentre si aspetta Jori con il retrocopertina, studio la grafica della prima copertina, in cui compare un ritratto a colori di Doctor Nefasto. Ci sono dei coccodrillini verdi, che creano un decoro ironico, ho preparato il logo di Valvoline motorcomics ispirandomi al design degli anni Sessanta. Con le parole, le forme, ci gioco da tempo, mi piace fare i titoli dei vari capitoli e delle varie storie. Lorenzo, che ha parlottato con Kramsky e preparato il primo capitolo del suo libro più libero e delirante sino ad allora, è allegro. In quella stessa casa, un anno prima aveva disegnato le prime tavole de “il signor Spartaco”, facendo un salto estetico e mentale da grande campione. Erano comparsi elementi onirici degni di Buzzati, suo grande amore, in un contesto di ricordi personali trasposti. Non si praticava l'autobiografia diretta, allora. E noi comunque pensiamo che ogni opera è sottilmente autobiografica e ci piace costruire le tessiture del racconto.
Lorenzo ha messo molto espressionismo tedesco nelle sue tavole, ma il colore è esploso riscaldando le immagini e conferendo un senso di leggerezza quasi spensierata che non gli conoscevamo. Quando io e Giorgio lo abbiamo incontrato, 3 anni prima, stava facendo “Incidenti”, una storia dal taglio realistico e metropolitano con inserimenti grotteschi. Pagine fitte di tratteggi.
Lorenzo era timido, molto rigoroso. Innamorato del suo lavoro di quello che stava scoprendo nel suo mondo interiore e come noi, aveva la certezza che questo fosse il pianeta nel quale voleva abitare. Il pianeta fumetto.
Poi le chiacchiere hanno portato a grandi complicità, racconti di progetti, idee sparse, analisi. Com'è normale.
La mia generazione crede nel disegno, nell'immagine.
Una forza che impone un autore, anche se questo forse non padroneggia con altrettanta maestria la narrazione.
Poco importa, un'immagine cos'è? E' la porta per un altro mondo. Si viaggia con Moebius, con Corben, Con Druillet, con Munoz, con Montellier.
Si viaggia sui segni.
In quegli anni Dionnet sulle pagine di Metal Hurlant sceglie sulla base della potenza grafica. Dirà in seguito che “riviste oggi, alcune cose mi piaono del tutto futili”.
Ma quella è la stagione della fantasia al potere. C'è una certa apertura mentale. McLuhan è il guru. Le sue frasi vengono distorte, fraintese, masticate nei diversi contesti. “Il medium è il messaggio” è la parola d'ordine.
Noi siamo giovani entusiasti e ambiziosi. Appassionati, cerchiamo di produrre cose dal profondo.
Crediamo che si debba andare oltre. Con tutto il rispetto, con tutto l'affetto per i maestri che ci hanno insegnato a sognare, basta con l'esplosione della tavola, con le composizioni libere. Noi non siamo lisergici, non è la nostra cultura, questa.
Io teorizzo le 6 vignette. Tutte uguali. 6 vignette per pagina, una griglia. Un ritmo. Dentro le vignette si viaggia con le immagini, ma questa griglia determina una sequenza, racconto dunque, fumetto.
Si può esplorare con il disegno, dentro il rettangolo della vignetta, ma poi si scorre, semplicemente e insorabilmente, nel racconto.
La griglia viene adottata da Valvoline.
Bovisa, periferia di Milano. L'anno prima, nella casa di ringhiera di Lorenzo ho finto un capitolo di Goodbye Baobab. Parliamo con fare esaltato. Ogni vignetta, si dice, deve avere un significato. Una stratificazione. Deve portare la maggior parte di senso possibile.
Pensiamo alla Nouvelle Vague. Amiamo Truffaut, Jules et Jim, Il primo Godard, Rivette, Malle, ci piace l'idea che si scavi nel linguaggio.
Poi, il fumetto, certo.
Ore, giorni, notti a parlare di chi ci piace: Vaughn Bodè. Lo amiamo in tanti, all'interno di Valvoline. Bodè, un disegnatore americano molto talentuoso, che si era impossessato degli stilemmi di Disney e delle sue rotondità. Era apparentemente “giocattoloso”, in realtà i suoi paperi, le sue rane, i suoi esserini, vivono storie tragiche e dolorose.
E la sua stessa storia, che galleggia tra i si dice e gli omissis, è finita tragicamente.
Perché il bello e androgino Bodè è morto giovanissimo, in quesgli anni, vittima di un gioco erotico. Fine dei cartoon concert, del mito di Bodè, anzi forse il mito, quello, cresce a dismisura, perché il mondo degli anni Settanta ha bisogno della morte, dell'autodistruzione dei suoi eroi.
Noi leggiamo, e piangiamo con lui. Gran disegnatore, narratore tenero e disincantato. Ci ha lasciato.
La sua lezione è quella dell'underground. Il gioco di qualcosa che non è come appare.
Bodé usa le rotondità disneyane. Crumb fa riferimento a Segar, l'autore di Popeye.
Io e Giorgio e Daniele, siamo cresciuti invece con i super eroi americani, Lorenzo, che è di qualche anno più grande di noi, no.
Però ci sono molte cose che ci uniscono. Per esempio le storie di Alack Sinner, di Munoz & Sampayo. I disegni di Munoz sono tagliatissimi, stilizzati, molto potenti e i testi di Sampayo stanno sconvolgendo le coordinate della narrazione a fumetti per come la si praticava allora. D'altronde Sampayo viene dalla letteratura. E se ne infischia delle regole canoniche.
Siamo tutti felicemente sconquassati dalla furia di quell'uragano.
A me pare che niente sia all'altezza di quel lavoro magnifico. Lo si legge come pura musica, un fluire sensibile e intelligente che sconvolge, appassiona, commuove. Il talento supera limmaginazione.
Con Marcello il rapporto è diverso, passa attraverso l'arte, attraverso una visione colta ed eccentrica. Lui ha uno sguardo fine, acuto. Guarda al fumetto dal di fuori. Per anni ha firmato delle storie minime e crudelissime sulle pagine di Linus. Il suo personaggio si chiama Minus.
Apprezza Klein, Klee, ma anche Topor e Folon.
Non è cresciuto con il fumetto americano e neppure con quello francese.
Un pomeriggio discendiamo per via Zamboni e gli parlo di un disco di valzerini e canzonette ironiche di Brian Eno, uno dei miei favoriti di sempre. Taking tiger Mountain by strategy.
Al titolo zen (catturando la tigre di montagna attraverso la strategia) si affiancano le tecniche post dada. Eno ha elaborato un sistema casuale di composizione, scrive in un mazzo di carte delle istruzioni e le estrae a sorte durante la scrittura delle canzoni. Quelle carte hanno un nome misterioso, si chiamano “Strategie Oblique”.
Marcello è stupito. Eno d'altronde si definisce “non-musicista”, è un personaggio schivo e geniale. Un grande innovatore che teorizza lo studio di registrazione come strumento musicale.
Sino ad allora lo studio aveva funzione di “ sala di registrazione”. Una band suonava, e la si riprendeva come se fosse un'esecuzione dal vivo. Tradizionalmente si suona tutti insieme. Questa cosa la mettono in discussione tanti gruppi sul finire degli anni sessanta, tra cui i beatles.
Ma Eno va oltre, fino a teorizzare lo studio di registrazione come strumento. E il produttore come vero demiurgo. I musicisti li registra uno alla volta. Le leggende fioriscono. Si dice che alcuni non sappiano neppure su cosa stanno suonando. Eno si limita a fornire in cuffia la base ritmica e a dire la tonalità su cui improvvisare.
Sarà poi lui a filtrare, manipolare, tagliare i suoni e le sequenze.
Mi fa pensare a quel modo di concepire il controllo dell'opera che, nel cinema, Federico Fellini, ha messo a punto con gli anni. Si favoleggia di attori che chiedono al regista la trama del film senza ottenere risposta alcuna.
Dai primi anni settanta la tecnologia sta rendendo possibili nuove frontiere. Quello che si mette in evidenza è la fine del valore “caldo” del suonare insieme, dell'energia rock. Qui il fattore umano, in genere, viene isolato, si ricerca una musica più “intellettuale”.
Eno è l'uomo giusto al momento giusto.
Le sue teorie mi impressionano molto, cercherò perfino di fare delle storie con delle carte su cui ho segnatato. Esterno, caldo. Un azione improvvisa.
Oppure interno, notte, personaggi parlano e non si capiscono.
Ecc ecc.
Estraggo a sorte queste carte e provo a costruire delle storie. Non è mica facile.
Le storie pubblicate su Alter, in quei giorni, sono spesso a gag, o a trovata. Non mi appassionano, mi deludono.
Io cerco di andare oltre. Alla fine degli anni settanta disegno fumetti che sono dei “tranches de vie”, dei brandelli di vita, storie che iniziano già cominciate e finiscono prima di finire. Cerco di catturare degli “aliti di esistenza” insomma.
Con Lorenzo si parla molto di cosa ci interessa in un racconto. Lui è ossessionato da alcuni temi. la Perdita di identità, sogno, ricordi, e questi elementi entreranno nel mondo lieve e raffinatissimo de Il signor spartaco.
Ci sono stati grandissimi film che ci emozionano. Apocalipse Now, che ha aperto una nuova stagione di rilettura visionaria e amarissima. Un taglio filosofico che si è sovrapposto al romanzo storico tout-court, rigenerandolo.
Il nuovo cinema americano fa i conti con la violenza, con le sue contraddizioni sociali. Viene fuori il grande Scorsese.
E Cimino, Il cacciatore lo guardiamo insieme più e più volte.
Marco Mattotti, il fratello di Lorenzo, che è medico, alla scena in cui De Niro si spara alla tempia spostando la pistola e ferendosi solo di striscio, impone la sua diagnosi: “trauma acustico. Sarebbe sotto shock, Impossibile fare quello che fa poi”. Il suo intervento “logico” ci distrugge il momento clou di tensione drammaturgica. Io e Lorenzo non crediamo alle nostre orecchie, ci guardiamo affranti. Lo vogliamo strozzare.
Ancora oggi, ogni volta che guardo il cacciatore mi viene da sorridere quando arriva quella scena. E sono passati trent'anni.
Giorgio da parte sua è folgorato da Eraser Head di Lynch, ascolta i Pere Ubu, ha trovato i suoi fratelli spirituali. L'ironia folleggiante e del tutto visionaria di Lynch, i suoni e la poesia metropolitana e paranoide di David Thomas, leader dei Pere Ubu.
I've got these arms and legs that flip flop flip flop. (tratto da Dub housing, 1978)
Ho queste braccia e gambe che fanno flip flop flip flop.
E' l'estasi del burattino. Uomo meccanico che non vede senso.
A loro si affiancano i Devo, che lo hanno scioccato (ovviamente queste cose sono impressionanti anche per me, io e Giorgio siamo coetanei, eravamo in classe insieme).
I Devo hanno inventato un universo ironico, parlano di De-volution (DEVO), il contrario dell'evoluzione, in sintesi. C'è boogie boy, una figura che incarna la musica, il mito del rock'n roll. Questo boogie boy ha messo per sbaglio la testa sotto una pressa. Ora è menomato per sempre.
C'è la figura del generale … incarnazione dell'autorità ecc. Il concerto dei devo si apre con un finto documentario. E il mondo da fantascienza di serie B da il via alle danze.
Poi comincia una musica geometrica, ironica, ritmatissima e irresistibile.
“Mongoloid he was a mongoloid happier than you and me”, cantano su un vorticare di basso, la batteria distorta ha il suono dell frustate. I synth sembrano delle sirene della polizia.
E' musica, ma anche cinema, racconto puro, si viaggia in un universo minaccioso che mostra il lato oscuro dell'american way of life. La pubblicità felice degli anni Cinquanta è sotto tiro.
Chi incarna la parte letteraria di questo contesto è Daniele, che con me mette insieme ogni numero di Valvoline; lui scrive, e legge moltissimo. Disegna i suoi fumetti anche, ovviamente, ma i numeri di Valvoline non sarebbero quelli che sono senza gli articoli che lui scrive e sceglie. Tempo Congelato, Cospirazione, Il generale Tom Thumb. Brolli cita Leslie Fiedler, Kurt Vonnegut jr. , Nijinskij, Pynchon, Purdy, Anger. Il paradiso dei reietti e degli strambi è a portata di mano. Basta allungare un dito per toccarlo.
Valvoline 1 è il click, il tuono che ci compatta e spedisce missilisticamente oltre, sulla nuvola. Il viaggio insieme è cominciato.
22 maggio 2013
sinatra del dopobomba
1977. Dai tempi del glam di Ziggy Stardust erano passati 5 anni appena, eppure pareva un'era geologica. Il punk aveva investito tutto con quei suoni lancinanti e quell'universo violento, che mandava in pensione leader, guru, maîtres à penser, e predicava la bruttezza, perfino la mostruosità, come valori veri, da contrapporre alla bellezza patinata delle pubblicità.
In quei cinque anni il rock'n'roll si era imbolsito, ammorbidito dai contorsionismi insopportabili del progressive. Non che il progressive non avesse partorito le sue perle, ma l'apice di quel virtuosismo ampolloso erano sorti maghi, mantelli, miti fantasy e paccottiglia favolistica.
Per ritrovare la bussola, alla ricerca di un suono primitivo e autentico, si erano recuperati dei maestri, che parevano già gli avi lontanissimi, i "bisnonni" della nuova generazione, anche se erano di qualche anno più anziani dei "nipoti". C'erano Lou, Iggy, che erano accettati come punto di partenza, padri del punk. Bowie aveva fatto l'amore con troppi cosmetici durante il periodo precedente ma aveva un carisma fuori dal comune che lo imponeva.
E gli Who, che tempo addietro avevano scritto My generation, e quella violenza distruttiva l'avevano cavalcata a tutto gas. My generation Roger Dartley l'aveva cantata con fare balbuziente: “ My ggg. ggg generation, baby” cantava, e questo, accompagnato da un Pete Townsend che spaccava tutto sulla scena era parso un'illuminazione.
Patti Smith fin dal 1975 dunque (anno del suo primo Horses) aveva reso omaggio a quella canzone con una cover feroce e scoordinata che aveva fatto Bum.
E My Generation era diventata un inno della mia generazione.
Il 45 giri, pubblicato nel 1976 come retro del singolo Gloria, risuonava ovunque nelle case da studente, pompato a tutto volume insieme alla versione di “My way” rivista e abbaiata da Syd Vicious o la satisfaction dei Devo (“macché Rolling Stones, questi sono i DEVO” dicevano Tamburini e Liberatore sulle pagine del Male. Il nome del fumetto era appunto: Johnny Devo).
Ci si poteva riappropriare di tutto. In quei giorni si faceva distinzione tra cover (reinterpretare una canzone) e remake (partire da una canzone e modificarne la struttura musicale o il testo).
Il cut up di Burroughs, tecninca di collage surrealista che lo scrittore beat aveva applicato tagliando verticalmente in 3 i fogli dattiloscritti e incollandoli a caso per creare inediti percorsi di racconto, era la bibbia.
Aggettivi come nichilista e iconoclasta erano abusati.
Questa era la fine degli anni Settanta un periodo fertile e seminale che avrebbe influenzato la cultura sino ai giorni nostri.
La musica non la si ascoltava come semplice accompagnamento, era un segno di riconoscimento, una parola d'ordine.
C'era, insomma, chi aveva capito e chi no, chi viveva ancora come un frichettone ignaro che il mondo era cambiato che il flower power era morto e sepolto e chi surfava sull'onda dei tempi.
(I am looking for brand new values, cerco valori tutti nuovi) avrebbe cantato Iggy nel 1979.
Iggy ci appariva come un Sinatra del dopobomba, occhi bellissimi e tristi, sorriso splendido. Divorato da una rabbia fuori controllo, era chiaramente posseduto dal dio del rock'n'roll che lo sbatacchiava qua e là, senza senso.
Dal vivo si agitava, saltava, rotolava sul palco. Poi si lanciava dagli amplificatori, piegando le aste dei microfoni al ritmo dei tamburi sporchi di Lust for life e cantava struggente, ispirato “Here comes Johnny Yen again, with the liquor and drugs, and the flesh machine”. Era semplicemente divino, ricordava il Burroughs più feroce.
E faceva pensare anche a Hubert Selby Junior.Il cantore del degrado americano che ci aveva galvanizzato con il suo “ultima fermata a Brooklyn” scritto negli anni sessanta e pubblicato in Italia, con la traduzione geniale di Attilio Veraldi, da Feltrinelli, proprio negli anni del punk. Era un pugno allo stomaco che meteva k.o. il mito dell'America solare, e puritana.
Senza veli la penna di Hubert ritraeva quell'universo di diseredati, travestiti divorati dalle gelosie, dagli amori lancinanti. Sullo sfondo la vita di strada, le droghe sintetiche, i militari in licenza dalla guerra di Corea, la violenza pura.
Un affresco abbacinante si era affacciato a spazzare via tutte le certezze della letteratura beat e di quella pop.
Hubert influenzò Lou, che scriveva i suoi testi metropolitani e decadenti per i Velvet.
E un decennio dopo Patti, che avrebbe preso il testimone.
E con lei la no wave, infatuata del delirio autodistruttivo.
Tutti avevano preso a cantare il corpo, la notte, il piacere, la morte.
Dopo l'esperienza Stooges, terminata nel 1974, devastato dalla dipendenza da eroina e da seri problemi mentali ed economici Iggy Pop si era volontariamente ricoverato in un istituto di recupero.
Era giunto al culmine della sua autodistruzione, non gli restava che esplodere o cercare di ricostruirsi.
In quei giorni di isolamento e fragilità, l'unica persona che lo andava a trovare era David Bowie. Anche lui alle prese da una disintossicazione, da cocaina.
Così i due vecchi amici in fuga, entrambi piuttosto provati, decisero di fare un pezzo di strada insieme.
Bowie e Iggy favoleggiavano di un progetto artistico nuovo, di una rinascita.
Lasciata l'America e dopo alcuni soggiorni francesi si erano rifugiati negli Hansa Studios, a due passi dal muro di Berlino, nei cui appartamenti avrebbero abitato per quasi due anni, a immaginare suoni e ritmi diversi, a comporre e registrare.
Queste voci, che si rincorrevano per mezza Europa, inquietavano fans e discografici; si sapeva che Iggy pop era scomparso dalla scena, e si sapeva anche che Bowie lo aveva sempre ammirato, ma non si poteva immaginare cosa i due stessero per fare.
Bowie, con il suo talento generosissimo scrisse per Iggy alcune tra le canzoni più memorabili della sua intera carriera. L'abum The Idiot e il successivo, Lust for Life, segnarono un salto di atteggiamento. Apparvero paesaggi sonori inediti, suoni cupi e notturni che resero ancora più fascinoso il viaggio dell'iguana.
La mia generazione era cresciuta a ufo, giornaletti, film e rock'n'roll.
C'era il giornale dei misteri che blaterava di alieni e fenomeni paranormali.
I mostri, Frankenstein o Godzilla si sovrapponevano ai western spaghetti.
E i fumetti, o giornaletti, come li si chiamava allora: li andavi a comprare nei polverosi negozi di usato. Si giocava a carte usando Tex, Zagor, Capitan Miki, Bleck, Eureka, Guerra d'eroi ecc. come fiches.
Poi, negli anni del liceo, si comincava a respirare un'aria diversa.
C'era anche Gong, e Re Nudo. Ma quest'ultima mi pareva una cosa già molto vecchia, freak. Mi annoiava mortalmente.
La controcultura, la droga, l'amore libero ecc ecc. come la si chiamava allora, proponeva dei modelli che confinavano talvolta con una visione narcotica della vita.
Molti cazzeggiavano, consumando il tempo tra una risata, una fame chimica, e qualche palpatina.
Le porte della percezione, cantate dall'ondata psichedelica, erano un pallido ricordo.
L'eroina scorreva a fiumi e divorava la mia generazione. Morivano come mosche i drughi, sdraiati nelle fontanelle di Piazza Repubblica.
Da ragazzo avevo in antipatia Kerouak, che era con il suo “on the road” l'idolo del frichettonismo più becero e lercio, da strada appunto. Ricordo le chiome fluenti e unte dei miei amici, le barbe lunghe, i gilet sdruciti sopra camicie fuori dai pantaloni, le canne, e gli sguardi languidi al kajal che lumavano le pupe con aria sognante e vissuta. Il free love e il sole della California sarda che poi degradava in viaggi on the road, al massimo al poetto, (4 km dal centro) o in tram senza pagare il biglietto o a Tonara a vedere i concerti, in autostop. Keep on truckin'.
Sandali infradito in pelle, per maschi e femmine, frangette esasperate ed effluvi di patchuli-misto- sudore da mozzare il fiato.
Mentre io me ne stavo da una parte, consumandomi la vita e le speranze con Lou Lou (come lo chiamavamo al tempo) e i suoi velvet.
Orano, la peste di Camus. Lo straniero. Sarte, la nausea. L'esistenzialismo, il trucco fatale di Juliette Greco. L'oltraggio dei pistols.
Nella mia stanzetta al terzo piano di Dante 71, Rock'n'roll animal suonava tutti i giorni, in cuffia, mentre entravo piano piano, calandomi in quell'universo di tossici, metropolitano e feroce.
Lou d'altronde aveva cantato una wild side abitata da travestiti e pusher. Heroin is my life is my wife. Luce bianca bianco calore, puro mito dell'autodistruzione.
Era il mondo della Factory di Andy Wharol. Il mondo del genio e dell'invenzione.
Kerouak lo avrei recuperato decenni più tardi per scoprire che era tutt'un'altra cosa. Una cosa che cantava il bop, gli anni Quaranta.
A posteriori, penso che sia stato un miracolo che non mi ci sia dedicato, a quel rito di morte, perché lo sentivo benissimo, lo respiravo, e con il mio metodo sicuramente sarei arrivato al capolinea in brevissimo tempo.
Londra fu dunque il viaggio nelle brume del rock'n'roll dove potevo finalmente respirare un po di sana violenza. C'era Arancia meccanica, che la raccontava bene, quella mitica, pericolosamente bene. E come mi sia salvato dal trasformarmi in delinquente abituale o eroinomane professionista davvero me lo domando ancora.
Avrei semplicemente fottuto la mia esistenza tra una cella e un ambulatiorio a prendere l'eptadone, come molti amici miei.
Cosa fu, a tenermi alla larga da tutto questo?
L'effetto, forse fu questo a insegnarmi.
Le mascelle sdentate dei miei coetanei, la pelle grigia e lo sguardo spento, perso a “sentire”.
O la camminata ciondolante, una grattatina, e poi ancora qualche passo, corpo assente, fino a ruzzolare per il marciapiede. Forse fu questo a farmi orrore.
E poi fu la bellezza a salvarmi la vita, credo, quella bellezza che si annidiava nell'odore di una rivista appena stampata, nel sogno della rotativa che mi portava a visitare le edicole come fossero cattedrali dell'immaginazione.
E poi, certo, Arancia meccanica che al cinema lo vedevi, ancora e ancora, mai pago, recitando i dialoghi a memoria, capendo che Ludwig Van poteva essere l'idolo anche di un drugo qualunque, di un teppista della vita, che non ne vuole sapere di studiare o lavorare, perché ha visto, respira energia, cerca e brama solo quella, altrimenti muore, in un crepuscolo di insulsaggine.
15 maggio 2013
bazooka, les humanoides e gli altri
Nel 1980 frequentavo Nicola Corona, grande amico di Andrea Pazienza. La madre di Nicola abitava in via Saffi, a Bologna, e lui ci capitava di tanto in tanto. Così, in pratica, eravamo, per così dire, vicini di casa.
Fu lui a mostrarmi per la prima volta le cose di Bazooka. Facevano molto effetto, anche perché il gruppo composto da Lou Lou, Kiki Picasso, Olivia Clavel, Kim Bravo e altri, aveva pubblicato un tabloid, e l'aspetto, naturalmente, non era proprio quello di un quotidiano, anche se era un alegato di Liberation.
Se adesso ci penso mi pare un miracolo, un gruppo di avanguardia grafica che produce un tabloid, bellissimo. Ma era un finto tabloid, privo dell'elemento essenziale del giornale, i fatti. Le immagini, in quella versione Bazooka, spogliavano fatti della loro concretezza, figuravano scene spettacolari prese da riviste della scienza e della tecnica, ma anche dalle riviste di Gossip ecc ridisegnate in maniera glaciale. Segno freddo, teso al puro inespressionismo. Era il famoso “Freeze” teorizzato da Wharol ed esaltato dal punk.
In quel senso di vuoto pneumatico l'esistenza sembrava denunciare la propria tragica, irrinunciabile, futilità.
“I want to be a machine” cantavano John Foxx e gli Ultravox nel 1977.
E quello stesso anno, l'anno del punk, ad accrescere il mito di Bazooka era uscito in Francia un albo nero, grande, bellissimo pubblicato da Fururopolis, casa editrice di culto.
30 X 40 cm. Titolo, semplicemente: Bazooka productions (e l'amore per le merci, i prodotti, a partire dalla “Tomato Campbell Soup” era un must per quella generazione senza guru).
C'erano delle pagine a fumetti dentro l'albo Bazooka, ma si lavorava molto anche sull'immagine singola, l'illustrazione, che era utilizzata non per dare sfoggio di tecnica, cosa banale e già vista, quanto per fermare, ingrandire e mostrare nel suo aspetto effimero, degli scorci di quotidianità.
Erano come fotogrammi di un film vuoto, che ci riguardava tutti, questo sembrava essere il manifesto dell'avanguardia nichilista, creativa e disperata che cantava in coro con i sex pistols “no future, no future”.
Bazooka piaceva molto a Corona, che ne faceva la sua versione a colori, nelle storie pubblicate sui primissimi numeri di Frigidaire. Pareva davvero il membro italiano di quel gruppo fantasma, Corona, che era dotato di una tecnica moderna e volumetrica. Le sue prime apparizioni colpirono per quell'aspetto post-pop in technicolor.
Era la stagione delle riviste, e allora, se facevi qualcosa, anche una piccola storia, nel posto giusto, al momento giusto, si parlava di te per mesi e mesi.
Sempre a Parigi, a partire dal 1974, due disegnatori, uno sceneggiatore e un poeta amministratore (che fuggirà con la cassa, stando alle leggende) diedero vita a un piccolo miracolo editoriale “Metal Hurlant”.
Come nel caso precedente erano autori che diventavano editori di se stessi. Anche se il nome dell'impresa era pieno di quella fantasia ironica che rappesentava la forza e al tempo stesso il limite dell'impresa. Si chiamarono Les Humanoides associeés, gli umanoidi associati.
Druillet aveva pubblicato I sei viaggi di Lone Sloane, che raccoglieva le sue storie pubblicate da Pilote sin dal 1966. Lone Sloane era nuovo, unico, diverso da tutto quello che si conosceva sino ad allora. Il suo autore vantava influenze letterarie distantissime, per generazione e genere, da Lovecraft (maestro del racconto gotico degli anni 20) a VanVogt (controverso scrittore di fantantascienza anni 40), e che magicamente, in quelle pagine disegnate si miscelavano in modo efficace dando luogo a una rivisitazione del genere fantascientifico.
L'approccio grafico era monumentale, quasi barocco se si vuole, Druillet amava i macchinari e gli edifici che popolavano quei mondi sconosciuti ricordavano vagamente i templi indiani o le cattedrali gotiche, il che gli valse in breve l'appellativo di “architetto spaziale”. A guardar bene il suo evocare civiltà remote e decadenti era profondamente imbevuto di quegli umori lovecraftiani che lo rendevano tanto distante dalla fantascienza sino ad allora praticata.
Niente Scarlett dream o Barbarella, rappresentanti di una fantascienza lieve e all'acqua di rosa, le tavole di Druillet formicolavano di apparecchiature dai riflessi scintillanti e parlavano di un mondo in cui l'uomo è posseduto da solitudini divoranti.
C'era un senso di vuoto metafisico e filosofico che forniva alle storie uno spessore inedito.
Memorabili le pagine del robot agonizzante che canta le melodie dello spazio.
Moebius che era un disegnatore affermato di fumetti western, con il suo vero nome Giraud, o Gir, aveva in mente anche lui di affrontare il fantastico con approccio filosofico, ironico, surrealista, che poi sarebbe diventato, con il tempo, esplicitamente più mistico.
A questi si unirono presto altri talenti del firmamento transalpino tra cui Bilal per cui scrisse la saga spaziale “Sterminatore 17” Jean Pierre Dionnet, altro membro fondatore. Giornalista e scrittore, e direttore di Metal da subito. E poi Tardi, Gal, con le armate del conquistatore (sempre sceneggiato da Dionnet) e di lì a poco Chantal Montellier.
Di Farkas, amministratore e poeta, si sa poco o nulla, è un personaggio discreto. Lascerà la rivista al numero 23 per fare fortuna lanciando il Cubo di Rubik sul mercato francese.
Questi autori erano sensibili a quanto stava accadendo oltre oceano e presero contatto con un grandissimo visionario del Missouri, un autore capace di dare una concretezza fino ad allora mai vista a sogni e mostri, corpi e atmosfere, il suo nome era Richard Corben.
La rivista, 68 pagine, di cui solo 18 a colori, prese corpo e cominciò le pubblicazioni trimestrali a dicembre, i numeri nascevano in una minuscola redazione situata in una tipica corte interna di un palazzo parigino, era davvero poco più che un garage.
Mentre Bazooka che era un fenomeno camp, ironico, citazionista, con nessuna velleità di diventare popolare, scomparve come una cometa bella e luminosa del firmamento francese, Metal Hurlant e il suo mito si diffusero in una galassia di idee e storie che bene o male è giunta fino a noi.
Fu Oreste del Buono a raccontarmi che li incontrò a Lucca, i fantastici 4 del fumetto, e, innamoratosi della neonata Metal Hurlant, strinse un accordo per pubblicare su Alterlinus il 90% del materiale.
All'epoca Alter era mensile e Metal trimestrale, fu grazie alla solidità economica di questo accordo che Metal divenne mensile da un giorno all'altro.
Il che trasformò Alter nella succursale di Metal ben prima che l'editore Roca ne facesse la versione italiana.
Quando questa apparve in Italia, lo spirito di Metal, sebbene fossero passati meno di dieci anni, si era disperso. La rivista che ne aveva colto le istanze sperimentali e innovative, che incarnava quella cultura che si era evoluta nella cosidetta new wave, seppur con altre coordinate, era Frigidaire. E a noi tutti pareva che Totem o Metal versione italiana non fossero altro che gusci vuoti che presentavano senza un vero progetto delle storie prese più o meno a caso nel calderone.
Fu chiara a tutti questa cosa, di Oreste del Buono ce n'era uno solo.
Frattanto, dal febbraio del 1978, aveva visto la luce un altro faro del fumetto francese. La rivista (A suivre...), così con il nome tra parentesi, che era la dicitura tipica in basso in ultima pagina che chiudeva i romanzi a puntate, i cosidetti feuilleton. A suivre voleva dire “continua”.
Si trattava di una rivista a fumetti il cui logo era stato studiato da Etienne Robial, sempre lui, grafico geniale e fondatore di Futuropolis, che aveva realizzato anche il logo per Metal Hurlant, poi saccheggiato da Fiorucci, per la cronaca.
(A suivre...) si proponeva di sviluppare narrazioni a lungo respiro, storie a fumetti in cui il disegno non fosse la cosa dominante, ma che desse risalto all'aspetto narrativo.
Oggi, e sono passati 35 anni, siamo qui. Si sta lavorando alle narrazioni a lungo respiro, le chiamano “graphic novel”.
14 maggio 2013
the pulp fiction
Chandler e Hammett. Questi erano i pilastri, li ristampava nella collana meravigliosa chiamata Omnibus, per i tipi della Mondadori, Oreste del Buono, proprio lui, OdB; che scriveva di cinema nell'Europeo, e pubblicava i fumetti più belli del mondo su Linus e Alterlinus.
Odb era un punto di riferimento per me e la mia generazione, era uno che pubblicò tutto un articolo pieno di immagini coloratissime sulla letteratura Pulp (secoli prima che Tarantino ripescasse il termine per il suo pulp ficition). Ammiravamo queste pagine di Alter e un mondo si schiuse ai nostri occhi.
Si capiva che gli scrittori hard-boiled erano in contatto tra di loro, che scrivevano per la rivista black mask, e si vedevano le copertine fantastiche che avevamo influenzato Steranko, Kaluta e tanti altri.
A Bologna ammiravo dalle vetrine lucenti della libreria Zanichelli i volumi cartonati e telati che racchiudevano 5 o 6 romanzi, in uno. Gli omnibus appunto. Chandler era mitico, per comprarlo ci si mise in tre, io Andrea Maimone e Antonio Fara. Altrimenti era impossibile, a meno di fare una rapina.
Ma si frequentava, e molto, in quegli anni che stavano per germogliare in Valvoline, la letteratura fantastica. Lovecraft in primis, che era amato e spesso oggetto di progetti irrealizzati.
“Voglio farei miti di Chtulu”. Oppure “Le montagne della follia”. “Hai visto l'adattamento di Cool air di Wrightson?” “E Corben?” “Corben ne ha fatto di meravigliosi. Ma anche Breccia, mica scherza”. Breccia ci piaceva perché ai mostri ancestrali evocati dalla penna di Lovecraft conferiva un che di confuso, strisciante, le forme erano viscide e indistinte, come quelle evocate dal “solitario di Providence”.
Naturalmente c'era anche Edgar Allan Poe, ma le sue letture mi avevano influenzato negli anni del liceo, ed era stato territorio di esplorazione di grandi come Battaglia e Crepax. Mostri sacri da cui ci si voleva affrancare. In un certo senso.
La colonna sonora che risuonava per le stanze e i corridoi di Saffi 24, ad accompagnare le interminabili sessioni di disegno, era composta da Devo, Pere Ubu, Residents, Yello, Talking heads, Si ascoltavano anche Battiato e Lucio Dalla (quello dei dischi con i testi di Roversi) Iggy Pop, Bowie, Lou Reed, che all'epoca faceva strani esprimenti con Don Cherry. Stravinsky, Mahler, Schoemberg (notte scarlatta) e poi molto jazz. Il pusher del Jazz era Daniele Lelli, che Carpinteri aveva conosciuto allo zuccherificio, quando ci andò a lavorare per una stagione o due. Lelli era uno fine, ascoltava e apprezzava da Braxton a Coleman, passando per l'art ensemble, i Rova, o Mingus. Ma ricordo che mi passò dei concerti di Duke Ellington (mio zio spirituale) alla Carnegie Hall che facevano sognare. Disegnavo ore e ore perso in quelle melodie avvolgenti e languide. E tutto questo mi aiutava a evocare gli anni Trenta-Quaranta che mi porto dentro sin dall'infanzia, che sono la stagione preferita delle mie storie.
Con il Jazz ci ero cresciuto, mio padre era compositore e amava quella musica, l'ascoltava con molto rispetto, lui che di formazione era classico.
E io avevo imparato, con lui e con Odb, che spesso nel cosiddetto pop si celano tesori che vanno saputi guardare, leggere, amare.
Bogart e Mitchum erano gli dei, tra gli attori. Entrambi avevano impersonato un Marlowe disincantato e amaro. Ognuno a modo suo. Questo ci faceva amare ancora di più Alack Sinner che tra i fumetti presentava una realtà contemporanea lacerante. Fu in questo contesto che maturai l'idea di lasciare l'università e dedicarmi del tutto alla produzione di mie storie.
E' il Maggio 1979, assisto a una lezione non troppo interessante di psicologia (si studiava anche questo al Dams) quando mi metto a sfogliare il numero di Alter fresco fresco. Alack Sinner, Storie arruginite. Un colpo al cuore, comincio a leggiucchiare distrattamente e non credo ai miei occhi. Sampayo canta la storia di un pugile fallito e di contrappunto demolisce la storia, consunta, arruginita appunto, che tanto cinema ci ha regalato nei decenni.
Il disegno di Munoz lavora la fantasia con un'efficacia impressionante. Le persone e i loro fantasmi interiori si abbracciano in un unico affresco che fa venire i brividi. E' il fumetto, baby. L'espressionismo, in cui tutto è possibile Goya e Taxi driver. Si sposano e sovrappongono.
Per uno come me, che era partito dall'isola strappando le pagine di Munoz e Sampayo (non c'erano ancora i libri loro all'epoca) insieme ai Kamandi e The Demon di Jack Kirby, era abbastanza. Il dams sarebbe diventato un ricordo e Alter il mio trampolino preferito. Mi ero promosso sul campo storyteller. Un paio di buone scarpe e tanto asfalto da percorrere.
10 maggio 2013
my generation
Bisognava scendere un paio di rampe di scale per penetrare nei meandri del Punkreas, a Bologna. All'epoca sono studente morto di fame, e pago 52.180 lire di affitto, mio padre mi spedisce 100.000 al mese, dunque devo vivere con 47.820, un'impresa.
Comunque si mangia alla mensa universitaria (che fa schifo, ma costa pochissimo, 500 lire), tutti si preoccupano di preservare il fegato, dunque almeno un pasto bisogna farlo fuori mensa. Il punkreas è uno dei pochi lussi che mi permetto, ha prezzi ragionevoli e poi sono a Bologna per la cultura, che cazzo.
Appena entro l'aria è folleggiante come al Roxy, ma meno esacerbata.
Nella zona universitaria è annunciato l'evento. Punkreas, Gaznevada sing Ramones.
I Ramones li ascolto dal loro primo 45 giri, “Sheena is a punk rocker”, che è uscito due anni prima, un'era geologica fa, in pratica. Frattanto sono diventati una leggenda del rock'n'roll primitivo. Miscela commovente di energia orizzontale, suono distorto, e semplicità americana, quasi minimale.
Punkreas, ore 21,30. Entro, atmosfera fumosa, parlottare.
Freak Antoni, che conosco di fama, scende qualche gradino prima di me, indossa un giubbotto bellissimo, pelle marron e beige. Sulla schiena c'è un disegno meccanico molto ben fatto su cui campegia una scritta: Pistoni roventi. Ed è tutto un programma.
All'epoca Freak è già il cantante degli Skiantos, incide per la Cramps records, quella degli Area, di John Cage, non so se mi spiego, ha inventato il rock demenziale. Non c'è muro di Bologna su cui non figuri una scritta Skiantos, in pratica sono già celebri prima ancora di aver suonato. Arrivato da Londra, mi sono ambientato in poco tempo e Bologna mi piace, c'è gente che pensa e fa senza posa, anche grazie al DAMS a cui mi sono iscritto.
Freak me lo presenterà dopo qualche tempo Stefano Tamburini, in trasferta, ma all'epoca sono un semplice ascoltatore-fan. Gli Skiantos sono degli urlatori, in piena tradizione punk, rivendicano il fatto di non saper suonare e prendono in giro gli stilemi del rock. I nomi d'arte sono uno peggio dell'altro, Freak Antoni, Leo Tormento Pestoduro, Sbarbo Cavedoni, Jimmy Bellafronte, Dandy Bestia, solo per citare a memoria. Il secondo disco, Mono Tono, del 1978, spopola. In Saffi 24, la mia tana, è addirittura la sveglia di casa. Verso le 9 (l'alba in una casa da studenti) metto a tutto volume il primo pezzo che inizia con “Fatti questo slego. uno due sei nove”, conta surrealista che precede la partenza a razzo di un brano rock'n'roll sgangherato quanto geniale. Titolo: Eptadone.
I miei amici studenti, o studelinquenti come li chiama Tamburini nelle tavole di Rank Xerox, si alzano svogliatamente. Dura la vita ad Animal house da quando ho scoperto gli Skiantos.
Da quel momento si ascolta musica tutto il santo giorno, specie quando disegniamo.
Siamo in tre a fare fumetti, anzi in 4 se contiamo Pari che fa fumetti per puro sfizio, uno ogni cento anni. Per il resto io, Antonio Fara e Andrea Maimone siamo partiti con la pretesa di diventare autori. Eravamo già andati ad Alter, l'anno prima. E al di là del fatto di aver terrorizzato la redazione per come ci eravamo acconciati, non era andata così male. Ma poi le urgenze del punk si sono sovrapposte. In quei giorni le spinte appaiono così forti e insopprimibili che segui il flusso. Fai quello che ti sembra imprescindibile. Sotto, in profondità, comunque, l'amore per il fumetto rimane un leit- motiv. Sai che devi, a tutti i costi, disegnare le tue storie.
Abita in quella casa di studenti un nutrito drappello di amici, oltre alla mia ragazza, Susanna, e un amico poeta, Donci, che ha il vizio di ululare la notte e smontare le persiane per sfogare il suo nervosismo. Poi, come detto c'è Roberto Pari, che fa finta di studiare a scienze politiche; è stato compagno di liceo di Carpinteri, così l'ho conosciuto. E Giorgio abita proprio dietro casa mia in via Podgora. Sempre Bulagna.
E' lui che mi parla degli Skiantos per primo, è in visibilio per questo gruppo. Io li ascolto, non si può non amarli perché i dada in confronto sono sobri.
Bologna, sala piena, gli Skiantos suonano come spalla ai Gong.
In breve l'atmosfera si surriscalda. Sbarbo finge di suonare una scopa, come fosse una chitarra, mentre canta con uno scolapasta in testa, poi parte il provvidenziale lancio di verdure. Ma sono loro, gli Skiantos a bersagliare il pubblico a suon di sedani, cardi, verdurame vario che ti arriva all'improvviso sul muso. Freak canta, con incedere cattedratico un inno folle: “Largo all'avanguardia, pubblico di merda, tu gli dai la stessa storia, tanto lui non ha memoria”.
Dagli Skiantos ti aspetti di tutto, il pubblico risponde al fuoco, la pioggia di verdure è talmente fitta che i ragazzi capitolano, abbandonano il palco, ricordo ancora le suppliche di Sbarbo “no ragazzi, basta, così non possiamo suonare”, la pioggia continua.
A questa e altre provocazioni gli Skiantos avevano abituato il pubblico. Sin da Bologna rock, 1979. Quando, saliti sul palco insieme al fior fiore delle avanguardie bolognesi, avevano allestito la scena come un soggiornino domestico. Tv, tavolo, sedie, fornelli. E si erano preparati un piatto di pasta, invece che suonare, mangiando in pubblico, tra i fischi della folla inferocita.
Freak questo lo considerò il loro apice. Ma mancò poco che venissero linciati.
A ogni modo, Punkreas: i Gaznevada suonano velocissimi i Ramones e senza pausa tra un pezzo e l'altro, come gli originali, ma in versione futurista, missilistica. E' notevole.
Come per gli Skiantos e decine di altri gruppi, è in voga l'uso wharoliano del ribattezzarsi. Alla Factory ci sono Ultra-violet. Holly Woodlawn, Candy Darling ecc, tutti nomi creati da Andy Wharol, che ha trasformato la fauna della Factory in un santuario di icone pop, personaggi di un fumetto reale e semovente.
Così a Bologna, che in quei giorni mi pare la città più americana del mondo, questo uso prende piede. Gli Skiantos scelgono nomi ridicoli, l'ironia attraversa tutto il movimento artistico dell'epoca, ma i Gaz, sono già più “arty”, meno dichiaratamente satirici. Loro sono cresciuti leggendo Burroughs e Wharol è davvero il loro santone.
Raffini (Billy Blade), che pubblica in quegli anni un paio di storie su Cannibale (frammenti di vita decadente) canta spiritato, si è dipinto una serie di nei posticci, stile Settecento, Giorgio Lavagna (Andrew Nevada) occhiali neri, canta in trance, (Ciro) Robert Squibb arrota le corde della chitarra, è il rock'n'roll, baby. Ma c'è anche Giampiero Huber aka Johnny Tramonta (che con Raffini e Lavagna vive nella traum-fabrik, casa occupata di via Clavature, a due passi dalle 2 torri) che percuote il basso; dietro di loro Bat-matic (Gianni Cuoghi) alla batteria, che poi passerà ai Confusional .
Sono lugubri, belli, assenti e infoiati, tutti vestiti di nero. E Raffini, particolare che non passa inosservato, ha la svastica al braccio.
In breve partono i buuuuh, fischi, bottiglie volanti, baraonda. Bologna in quegli anni è la Bologna del movimento, e il punk, con la sua iconografia politicamente blasfema infiamma gli animi.
Il situazionismo estremo non è tollerato.
Io staziono sotto il palco, sono a due metri da loro, e sento la tensione crescere. La rissa è lì lì per scoppiare, anche perché i Gaznevada quella pantomina la eseguono per tre giorni di fila e si è sparsa la voce.
In quella occasione li nota Oderso Rubini che è il Malcom McLaren di Bologna, ha aperto un piccolo prodigio, una cosa minuscola e preziosa, una casa discografica! Si chiama Harpo's Bazaar e sta in via Sant'Isaia 49, a due passi dal Punkreas. Ha un orecchio notevole, Oderso, e la sua fama di talent scout si diffonde in breve. Mette sotto contratto i Gaz, ma anche tutti gli altri gruppi che suonano nelle varie cantine di via San Vitale. Ce ne sono una miriade, tutti bravi.
Windopen, Confusional, Luti Chroma, Nafta e poi man mano Stupid set, Hi-fi bros e decine di altri.
In un primo tempo stampa cassette e 45 giri, poi LP. Sarà lui a pubblicare il mio primo album, di lì a poco.
Io lo incontro a più riprese anche alla radio, Radio Città, che è un vero e proprio centro propulsore di quella cosa che allora si chiama “contro-cultura”.
Questa è la storia della new wave bolognese, che fu un fuoco potente e influente per noi, che contaminò, stimolò e intrigò la scena del nuovo fumetto italiano. Rispondendo alle istanze di uno sguardo contemporaneo, per poi scomparire in un fragoroso vuoto, mentre l'industria discografica nazionale, continuava a dormire. Languendo in cascami di progressive rock e cantaurotato decisamente inascoltabili, per la mia generazione.
Freak che era amico di Andrea Pazienza e frequentava la Traumfabrik dove abitava anche Scòzzari, non lo incontrai mai con loro. Si fece tatuare un disegno di Carpinteri nel braccio e presentò il Valvoline party due anni dopo. Era il 1982.
Gli Stupid Set ed Enrico Serotti dei Confusional fecero la colonna sonora di un fumetto di Carpinteri e Jori. Era il 1982.
Gli Hi-Fi bros furono prodotti da Arto Lindsay, per l'Italian records. Era il 1982.
Raffini (Billy Blade) divenne mio amico, mi rubò una chitarra X27 che valeva due lire, ha smesso di fare fumetti. Era il 1982.
Sotto lo pseudonimo di Radeztky e gli isotopi pubblicai il mio album “funerale a Bombay”. Era il 1982.
9 maggio 2013
punk
Quando arriva, nella copertina di Horses, 1975, fotografata da Robert Mappelthorpe, in un bianco e nero morbido e sinuoso, è ancora sconosciuta. Io la fisso. Patti Smith, Horses, dice il titolo, Horses, che titolo è? Mi piace. Lei indossa un paio di jeans, una camicia bianca con le maniche strappate, al collo una cravatta nera, sottile, tiene sulla spalla una giacca scura, da uomo, al bavero una spilletta con un uccello. Mi guarda con aria tra lo sfrontato e il malinconico.
Non ho ancora sentito la sua musica, ma so già che non si tratta delle solite lagne femminili anni settanta. No Joan Baez, No Jony Mitchel.
Me lo dicono questi indizi, e il nome del suo produttore artistico, che è l'ex viola dei Velvet Underground, John Cale.
All'epoca, siamo nella preistoria degli anni Settanta, si prende il disco e si chiede al negoziante di ascoltarlo, ci sono delle cabine nelle quali ti isoli, metti il lp sul piatto, e ascolti. Si vive senza computer, internet è roba della Nasa, non ci sono cellulari e i canali della TV sono solo 2. Se vuoi scoprire nuova musica vai in “discoteca” così si chiamano i negozi di dischi, al massimo hai letto le due o tre riviste specializzate che ti parlano in modo un po' nerd di quel che esce. E poi annusi, leggi gli indizi. Voilà.
Patti Smith arriva con la furia di un uragano, non rispetta le coordinate sino ad allora conosciute, si definisce poetessa, cita Pasolini, legge Hubert Selby jr., conosce Maria Callas, che pare sia stata il suo idolo da bambina, e respira nuovo rock'n'roll, quell'aria secca che esploderà nel punk di lì a due anni.
Il disco sprigiona energia e dolore. Un dolore che serpeggia, sotto le tessiture rock'n'roll tiratissime. In poco manterrà le promesse e diventerà l'inno della nuova generazione.
Lo compro sapendo che sono soldi ben spesi. La mia anima esulta.
A casa starà sul piatto sino a consumarsi, alternato a The Idiot di Iggy pop, 1977, che dichiara morto il periodo Stooges e inaugura la collaborazione berlinese con Bowie.
Horses e The Idiot sono due dischi diversi, entrambi lancinanti. Ma egualmente importanti.
Iggy ha i capelli corti, ancora foto in bn in copertina, posa da focomelico, giacchetta corta, niente camicia, e jeans. Te lo spara in faccia il suo “non-voler-essere-bello”. Corteggia il dolore, la nostalgia disperata, i giochi, le droghe, e la danza con morte e gli eccessi che avvolgerà questo inizio punk.
Sino alla fine tragica di Syd Vicious. Che arriverà fragorosa a tracciare una linea nera. La linea oltre quale non andare.
Public image limited (PIL) questo è il nome , il simbolo che Johhny Rotten-Lydon, ex cantante dei pistols per l'appunto, e compagno di Vicious, decide di prendere per il progetto suo musicale post pistols. Lui, che ha visto deflagrare la sua generazione, e che non ci sta ad auto-distruggersi per il divertimento dei media.
Ma torniamo nel '77. Questo uragano che fu il punk, spettina le coscienze di critici e intellettuali o semplici fruitori non abituati all'elasticità. Prende a schiaffi salvifici, divora la coscienza di chi si era consolato fino ad allora, placidamente assorto in una musica-vita spuntata, scuote, risveglia.
Io non ho 19 anni quando vedo alla tv Michel Pergolani che annuncia la rivoluzione e mostra un filmato: ci sono i Pistols che si dimenano attorno a tre accordi urlati, violenti, semplici e pieni di una cosa essenziale, la vita.
E due mesi dopo parto per Londra, viaggio infinito, autostop. Non c'ho una lira in tasca.
Finalmente il Roxy! Tempio del punk, 41 Neal Street, distretto Covent Garden. Ci suonano tutti lì, dai Damned, ai Vibrators, di cui vedo le scritte, infestano la città, perfino sulle scale della metro. Poi Buzzcocks, Stranglers, Siouxie, nomi che diventano leggendari in pochissimo. I pistols sono fuorilegge in 5 minuti; suonano sui barconi del Tamigi e cambiano nome ogni volta.
Abituato all'Italia turbolenta sono costernato nel vedere tutti i punkettini in fila ordinata pronti a pagare il biglietto. Da noi ai concerti si sfonda e si prendono i lacrimogeni. Dentro si sta stipati, c'è chi rutta chi si prende a bottigliate in faccia. La musica ti rimbomba nelle viscere.
Questa è Londra! A Portobello mi compro un paio di guanti da donna, lunghi, di seta, degni della Cansino. 3 pounds, ci mangio due giorni, ma mi piacciono. Il bancarellaro però non me li vuole vendere, disgustato perché li ho misurati e ha capito che son per me. Mi dileguo e mando la mia fidanzata. Lei li compra.
Dormo in una palestra di karate vicino a Notting Hill, che alla notte affitta i tappetini in gomma come materasso. Le donne su, al primo piano e gli uomini giù. Ambiente lercio.
Io e la mia ragazza di allora, Susanna, facciamo la fame. Non è l'epoca delle telecamere, si entra in un supermercato e si prendono le cose che mangiamo tra gli scaffali, attenti a non farci vedere dai commessi. Pane, cioccolato, qualche affettato lo infiliamo sotto il maglione. E' luglio, agosto, ma fa un freddo boia a Londra. Alla mattina presto si ruba il latte, come nei film.
Per vivere bisogna lavorare, dopo una ricerca di giorni mi prendono in una bettola-pub a due piani. L'atmosfera è greve, sembra di essere in un bordello. Cuoco, aiuto cuoco, e inservienti sono dei maniaci sessuali, se entra una donna delle pulizie le palpate non si contano, il vice cerca di farsela sul banco per pestare la carne, lei si dimena e lui allora, in piena ispirazione artistica, le compone una passerina con due petti di pollo. Risate.
Non mi chiamano Igor, preferiscono “fucking italian”, è più divertente. Per loro.
Io sono "sguattero di ultima", mi danno i pentoloni da lavare, pentole in cui potrei probabilmente dormire.
Un giorno finito il lavoro, il capocuoco, un indiano dallo sguardo lungo, nota che mi vengono a prendere due amiche. Entrambe carine. Una è la mia baby. L'indiano si arrapa e mi promuove a "sguattero con macchina lavatrice", vuole uscire con me e le due. E bere una birra in compagnia non è esattamente la sua mira. Mi racconta, in estasi, della notte d'amore con un paio di gemelle, appena la settimana prima. Il gioco di specchi erotico lo inebria.
Devo sopravvivere, accetto entusiasta: "usciamo senz'altro", mento.
So che le mie amiche mi scuoierebbero per questo, ma le informerò solo a posteriori, a pericolo scampato. La settimana è lunga. L'indiano mi osserva, vuol capire se lo prendo per il culo o meno.
Mi minaccia con il coltello. Io lo rassicuro. Sabato è “paiiidaai”, giorno di paga, come dice con pronuncia cockney lo "sguattero di prima". Devo resistere. Appuntamento giovedì, poi guarda caso, la mia amica si ammala, ops, ci vedremo lunedì.
Mi aspetto di tutto, anche che non mi paghino di sabato, ma l'indio è chef, mica padrone. Sabato vengo pagato e saluto tutti, "a lunedì", faccio ciao ciao. E poi la sera di Londra mi inghiotte per sempre. Addio bettola-pub, addio sopranomi simpatici. Fanculo. Nei mesi successivi eviterò accuratamente la zona.
Portobello è il luogo in cui li vedi che sfilano, con le loro spille che bucano le guance, catenelle che uniscono orecchie a naso, svastiche al braccio, badge con Hitler a testa in giù, capelli sparati verso l'alto, piume colorate all'orecchio, creste ecc, tutta la paccottiglia che all'epoca fa punk. Oppure a King's road, dove Vivienne Westwood e Malcom McLaren hanno la loro boutique “sex”.
Io ci entro, ci sono pantaloni scozzesi con le catenelle, ecc, ma non me li posso permettere. Sono un sognatore pezzente.
In quei giorni però compro metal machine music di Lou Reed. Il negoziante mi dice: "Se ami Lou Reed non prenderlo". Io ho la testa dura, cercherò di ascoltarlo a più riprese, quel capriccio concettuale di Lou. Alla sera una birra in un pub, dove suonano continuamente. E' una Londra in pieno fermento.
Alla palestra dove si dorme la notte ho conosciuto tre ragazzi di Roma. Uno lo chiamiamo facc'e culu. ha il muso di un bambino.
Nessuno di noi può permettersi di pagare il biglietto della metro. The tube, come la chiamano gli inglesi, costa una fortuna e il biglietto aumenta a seconda della distanza.
Si salta. Ma qui se ti beccano i controllori non si limitano a farti la multa, dei punk e dei turisti furbi hanno fatto il pieno, ti portano in uno stanzino e ti pestano per bene.
E notte quando vediamo arrivare Facc'e culu tutto pesto e gonfio. Lo hanno conciato male, per quelle misere due sterline.
Ma c'è di più, i gestori della palestra dicono che a mezzanotte i portoni si chiudono e basta. Non si discute. Cerco, educatamente, di fare presente che alcuni di noi lavorano, che finiscono a mezzanotte. "Che sarà mai ritardare la chiusura per mezz'ora? Giusto il tempo di prendere la metro e venire a dormire".
Niente.
Così, come prevedibile, la notte dopo chi arriva comincia a chiamare, da fuori. E' insopportabile, molti di loro non li conosco neppure, ma che vuol dire? Siamo quasi tutti svegli dentro, e si parlotta. In breve tre o quattro di noi sgattaiolano verso il portone, e aprono.
Quelli che entrano sono incazzati. Non si limitano a entrare, ma urlano, sbraitano contro i gestori.
Le notti che seguono, uno per uno, veniamo identificati come organizzatori della rivolta e buttati fuori.
Sembra una canzone di Peter Gabriel, la rivolta di Nothing Hill.
Qualche tempo dopo tornerò in Italia. Bologna. Tre mesi all'addiaccio, l'inverno del nord, a cercare casa. Ma troverò il Punkreas, che era un pò il Roxy de noantri.
E ricomincerò a suonare, con Andrea e Bramino. Prima di andare all'Italian records, che pubblicherà di li a poco il mio primo disco.
8 maggio 2013
sturiellett
Con Andrea Pazienza ci furono diverse “stagioni”. Al principio quando ci conoscemmo fu un parlarsi fitto e pieno di reciproche curiosità. Ricordo che scese nel giardino del suo palazzo, passando attraverso il bar Cirenaica, per prendere una rosa da regalare alla mia fidanzata di allora. E si punse con le spine. Era pieno di gesti imprevedibili, Andrea. E di cose vitali o decadenti. Mi leggeva gli appunti (per esempio uno bizzarro e filosofico sulla punta delle basette di topolino) dai suoi quaderni, mentre nella penombra del salottino in cui avrei passato, tempo dopo, intere giornate a disegnare con lui, riposavano le pagine di Penthotal piene di tratteggi. Ricordo le chiacchiere sui dada, sul genere hard boiled, su Del Buono, Eco, e sul “piacersi”. (Mi raccontò che la sera prima aveva trascorso un paio di ore a baciarsi allo specchio). Sul fumetto, su quello che facevamo o che facevano gli altri.
La musica che ascoltava era una cosa quasi casuale, lo incuriosivano le mie frequentazioni new wave e le cose nuove: una cultura punk che vedeva mutare giorno dopo giorno, verso coordinate “moderne”. L'epoca freak era al tramonto sorgeva la new wave. Sul tavolo stazionava una piccola radio registratore (ghetto-blaster) che aveva preso a New York, in un viaggio con Betta. Betta era all'epoca il grande amore di Andrea, l'aveva perfino ritratta nel manifesto de “la città delle donne” di Fellini. Questa radio la accendeva spesso, ma di cassette non ne aveva tante. Ascoltava musica italiana o qualche stazione commerciale.
Poi venne la rottura tra di noi, a causa del fatto che per una sua frase ero stato fatto fuori dalla mostra della Alinovi. Ci si vedeva ugualmente, in casa di Marcello, avevamo troppi amici in comune, e per lui era molto sgradevole incontrarmi e constatare che non avevo dimenticato.
Era costernato.
Con Jori ebbe un legame forte, Marcello rappresentava quello che lavorava nel mondo dell'arte di serie A. Faceva parte dei “nuovi nuovi”, sostenuti da Renato Barilli, che si contrapponevano alla transavanguardia di Achille Bonito Oliva. (o Achille Bollito Vivo, come lo chiamava Tamburini), e fare parte della scena dell'arte interessava ad Andrea. Pensava delle grandi immagini dipinte ad aerografo su macchine di lusso.
Me ne parlò a più riprese. Io non ero affatto convinto che fosse una buona idea. Mi sembrava molto scema come cosa.
Marcello Jori faceva dei fumetti di stampo realista per Valvoline. Acquerelli dipinti con tocco delicato. Usava delle foto come base, spesso prese dall'archivio del padre, che era stato documentarista. Non c'erano purismi, anche noi usavamo documentazione fotografica, ma Marcello negava risolutamente, diceva che era in grado di inventare a quel livello, un livello molto fotografico appunto.
Noi si giocava, portavamo spesso il discorso su quelle foto, ma lui niente. “Macché foto, tutta farina del mio sacco”.
Dato che una volta, a casa di Marcello, dopo l'ennesima balla, Giorgio Carpinteri si alzò per andare nello studio di Marcello a prendere “il corpo del reato”, lui aveva peso l'abitudine di chiudere a chiave lo studio.
La settimana seguente arrivammo a casa Jori senza preavviso. Io e Giorgio bloccammo Marcello, che aveva appena aperto, e Daniele corse nello studio per prendere le foto per mostrarle a tutti noi. Erano centinaia di diapositive, alcune del tempo della guerra, in vetro.
Marcello rise di questa cosa, ma Andrea, quando lo seppe, fu scioccato. Per lui ci eravamo comportati da squadristi in un certo senso. Che razza di gruppo eravamo? In realtà credo pensasse a certe dinamiche pesanti che stavano avendo luogo a Roma, a Frigidaire, in cui differenze estetiche diventavano regolamenti di conti tra disegnatori. Ne aveva fatto le spese Mattioli, che fu costretto a ridurre le pagine di Joe Galaxy. Fino a due al mese, perché Tamburini riteneva che non piacesse ai lettori.
Marcello e Andrea si studiavano, pensavano cose insieme. Una volta andarono insieme ad Alter.
Di ritorno da Milano, erano gli anni Valvoline, i due erano così fuori di testa che presero un treno per Genova invece che per Bologna. Siccome non c'erano i cellulari e si vergognavano come ladri, telefonarono dopo ore, all'arrivo. Dovevano essere già a casa, e invece si trovavano a centinaia di km di distanza. Ma non dissero quello che era veramente accaduto. Io ero a casa di Marcello, li si aspettava per andare tutti a cena.
Ma i due raccontarono che c'era uno sciopero a Milano. Andrea condì il resoconto con scene apocalittiche di operai sdraiati sui binari e cariche della polizia, sembrava una sceneggiatura. Io ero a casa di Marcello e ricordo che Betta, che all'epoca stava ancora con lui, ascoltava Andrea con occhi increduli, lo conosceva fin troppo bene. Così lo rassicurò e poi, finita la conversazione, chiamò la stazione di Milano per chiedere informazioni su questo sciopero.
E scoprimmo che Andrea si era inventato tutto quanto.
I racconti di come aveva saltato la naia fingendosi malato (cardiopatico, mi pare) mi vennero alla mente. Gli piaceva mentire, entrava in un dramma di cui, guarda caso, era l'attore protagonista. E si compiaceva di sviluppare la storia alla maniera della commedia dell'arte.
Dopo la riappacificazione mi chiese se volevo andare da lui a disegnare. Furono giorni pieni di luce e di dolore. Andrea si faceva 4, anche 5 volte al giorno. C'era un patto implicito tra di noi, io cercavo di dissuaderlo e lui poi mi si faceva davanti.
Non ho mai avuto molta dimestichezza con le droghe, era dura.
La sua casa era un porto di mare, frequentato da chiunque avesse qualcosa da vendergli o proporgli, data la facilità con cui lui guadagnava era preda di questi sciacalli che non lo lasciavano un attimo. Si presentavano alla porta, salutavano, entravano, stazionavano. Lui disegnava e loro sdraiati nel divano dietro, a cazzeggiare, consumargli le provviste del frigo o dormire. Ricordo che gli proponevano di tutto, del fumo, degli oggetti d'antiquariato, un'armatura da Samurai dell'Ottocento ecc.
Una volta li mandò via. Era esasperato. E mise un cartello al portone, tre piani di sotto, diceva qualcosa come “ se cercate Andrea Pazienza, non suonate. Potreste pentirvene”. Apriva solo a me in quei giorni, e alla sua fidanzata, che era una delle poche persone che gli voleva veramente bene. Lei parlava pochissimo, ma era una presenza rassicurante per lui. Quei giorni erano i giorni di Pompeo. Aveva già cominciato a fare quel libro, lo disegnava su un quaderno “architetto” di carta quadrettata.
Era il 1984, insegnavamo alla scuola Zio Feininger, capitava che ci andassimo insieme, ed è vero che sbagliava sempre classe. Era diventata una gag alla scuola.
In quei giorni era inquieto. La storia con Betta era finita da tanto, ma lui si era ostinato sino ad allora a tenerla in piedi nella sua fantasia. Leggeva Le Carrè, e gli piaceva. Lavorava anche alla storia Lupi, che disegnò con i miei pastelli Derwent Cumberland e con i pennarelli Pantone, miei e suoi messi insieme in un cassetto del comò, poggiato sul tavolo tra me e lui.
Sullo stesso tavolo pascolava uno di quei libri sugli elfi che andavano di moda alla fine degli anni Settanta. Orrore! Ma a lui piacevano gli alberi, ne clonò uno nella storia.
Rideva del fatto che io gli dicessi che era roba da frichettoni. E mi leggeva i dialoghi della storia, “lupi”, per provarla. Assistere a quelle letture era vedere una cosa morta animarsi. Un disegno prendere vita. Non so come descriverla questa cosa se con l'aggettivo “magico”. Quando lasciò Bologna, per storie di arresti nel mondo dei pusher, l'atmosfera era diventata per lui irrespirabile. Mi aveva chiesto centomila lire che poi mi rispedì da Montepulciano, con i complimenti per la storia che avevo pubblicato con Sakamoto.
Fu un giorno triste che ricordo ancora come fosse ieri, quel 16 giugno del 1988, quando Betta mi telefonò, era in lacrime e mi disse solamente “è morto Andrea”. Io ero seduto al tavolo, parlavo con un amico e disegnavo, scrissi sul foglio “è morto Pazienza”. Era davvero finita una stagione.
7 maggio 2013
igort & Brolli
1978. Daniele Brolli lo conobbi quando decidemmo di fare una cooperativa per pubblicare una rivista auto-prodotta. Si sarebbe chiamata “il pinguino Guadalupa”. Per realizzarla avevamo riunito i risparmi e comprato, in gruppo, una macchina da stampa Offset. Eravamo io, Baldazzini, Brolli e qualcun'altro che non ricordo. Baldazzini imparò a fare le lastre e stampare, impresa non da poco, e dopo qualche mese la rivista vide la luce, in confezione speciale. Una busta che conteneva 4 albetti indipendenti. Uno, per autore. Il mio dal titolo “carnet di ballo” presentava piccole storie, frammenti di vita in quell'isola sperduta nei mari del sud, che era la metafora della mia Sardegna. Daniele fece un albo suo, senza titolo, che conteneva storie fitte di tratteggi e retini, e un racconto, “Dormire” che mostrava già le sue visioni e i suoi amori letterari. Baldazzini pubblicò un albo dal titolo ironico “passioni sconvogenti” in cui sbertucciava la tradizione del fotoromanzo stile grand Hotel, la cui eco era ancora viva.
Il quarto albetto, dal titolo Cerimonia Panica, era opera di un giovanissimo Gianfranco Vanni, che avevamo incontrato per caso quello stesso anno.
La rivistina fu auto-distribuita per le edicole della sola Bologna e vendette circa 850 copie in un paio di mesi. Ci sembrava un successo.
Da quel momento lo scambio intellettuale tra me e Daniele Brolli si intensificò. Avevamo molti amori in comune, letture e autori che erano stati importanti per la nostra formazione. Lui scriveva e disegnava delle tavole accuratissime, freddissime, ricordo ancora gli originali (Jerzy, in particolare) e sono passati 35 anni. Da allora non li ho più rivisti.
Quando Oreste del Buono che dirigeva Linus e Alter, decise di pubblicare una serie proposta da Storiestrisce (Elfo e Franco Serra) sul tema della metropolitana, io chiesi a Daniele di scrivere la sceneggiatura. E venne fuori una storiella di 6 pagine dal titolo “nettezza metropolitana” che conteneva degli elementi notevoli e delle ossessioni che avremmo sviluppato in seguito. La cosa che mi piaceva di Daniele era la sua capacità di sorprendermi. Lavorava su dei temi comuni al mio immaginario: il freak, la città, la cultura pop, la solitudine, con uno sguardo personalissimo e straniato. Pochi mesi dopo, esordii su Alter con una storia scritta e disegnata da me, “Tropical Heatwave”, un omaggio al James White dei Contortions e a Marilyn (era una canzone cantata dalla Monroe e scritta per l'occasione da Irving Berlin di cui James White aveva fatto un remake memorabile).
Tropical heatwave era ambientata come la precedente (e la successiva) anche questa in Parador.
L'anno dopo, 1982, sempre su Alter, pubblicai Goodbye Baobab, un romanzo a fumetti di poco meno di un centinaio di pagine ( un record se si pensa che i classici cartonati francesi erano di 42 tavole, di solito). La trama l'avevo appuntata in mesi di lavoro, ma per quel mio cimento avevo bisogno di un pard, era una cavalata lunga quella, la prima.
Così chiesi a Daniele di scriverne la sceneggiatura, il che avvenne con la solita sua verve personale: una serie di sorprese narrative che allietarono notevolmente quel tragitto faticoso.
Ricordo il titolo di un capitolo, per esempio, “il valzer delle alterne fortune”, che mi piaceva e piace tuttora, lo trovavo molto poetico e triste.
E Pini Pini, l'assistente di Hiro Oolong di cui avevo preso il nome da un singolo di Arto Lindsay, fu sviluppato in modo importante. A Daniele piaceva quel personaggio.
E c'erano dei dialoghi davvero notevoli in quell'incedere narrativo che mi pare ancora unico.
Le consegne erano rocambolesche, finivamo quasi sempre a fare le notti in bianco. Lui, da vero amico, a cercare di tenermi sveglio, a ritoccare con il bianchetto le sbavature di inchiostro nelle tavole per poi correre entrambi alla stazione a prendere il treno delle 8,10 per Milano, a consegnare il capitolo.
Un mensile non tollera ritardi e noi pubblicavamo senza anticipo alcuno. Quella scuola mi sarebbe servita, una decina di anni più tardi quando cominciai a lavorare con i giapponesi. Ma quella è un'altra storia.
Alla redazione di Alter, una redazione tutta al femminile, si respirava una certa tensione. Quando entravamo il clima era ostile, e non ho mai capito perché. Sembrava che menassero un'esistenza grama e triste invece che fare le redattrici di Linus. A ogni modo in quella redazione ci ero già andato nel 1977, insieme a 3 amici. Io ero vestito con una maglia aderente leopardata, occhiali neri da punk, capelli cortissimi e un collare da cane al collo. Era Giugno, il punk era neonato, non se ne vedeva ancora traccia in Italia. Andrea Maimone, che era con me, indossava una camicia a pizzi e trine, occhiali ska e testa inbrillantinata. Sembravamo una succursale dei roxy music, ma più pericolosi, forse. Le tavole gli piacquero, mi dissero di finire una storia che stavo cesellando da mesi, ma io preferii partire per Londra a vedermelo dal vivo, il punk.
Mi riconobbero solo molti anni più tardi, dopo Valvoline, quando ormai ero di casa a Linus.
E mi raccontarono che dopo il nostro arrivo avevano ordinato le telecamere da piazzare alla porta di ingresso. Avevano avuto paura. Questo per dire come erano quegli anni. D'altronde lo aveva detto Tamburini: “per fare grafica ci vogliono muscoli”.
6 maggio 2013
pagine ingiallite
Alter Linus pubblicò la prima storia di Moebius nel 1975. Una storia bianca, visionaria, scritta da Druillet, dal titolo Missione su Centauri, 6 tavole. E fu chiaro a tutti che qualcosa di inedito stava accadendo. Le tavole erano bellissime e spettacolari, riempite di dettagli, e tratteggi da fuoriclasse, ma non era questo a stupire. Quello che lasciava a bocca aperta era la carica innovativa che in quelle pagine tutte bianche si sprigionava. Moebius con quella e altre piccole storie che seguiromo, raccontava un futuro diverso dalla festa delle ferraglie che spesso la fantascienza aveva portato sino ad allora. E lo faceva attraverso l'idea del deserto. Moebius d'altronde era l'alter ego di Jean Giraud, e di deserti nel western “Blueberry” ne aveva disegnato a decine.
Io all'epoca ero ancora a Cagliari, meditavo di spostarmi in continente, e sebbene disegnassi da anni e fossi in contatto perenne con il mio amico Giorgio Carpinteri, che avevo conosciuto sui banchi delle scuole medie, Valvoline era ancora una cosa di là da venire.
A ogni modo, leggevo i libri di Fantascienza e gli hard-boiled, tra le altre cose e l'intuizione di portare la materia ruvida nel western e di sposarla al mondo del fantastico e del surreale conferiva un'aria tutta speciale alle pagine di Moebius, aria che noi lettori (e disegnatori in erba) cominciammo ad amare.
Inoltre, cosa niente affatto secondaria, il genere fantascienza si era spogliato dell'azione. Avevano fatto molta impressione due film: “2001 odissea nello spazio” e “Solaris”, che erano film con una certa portata filosofica e nei cineforum i dibattiti impazzavano. Scuola americana (Kubrick) contro scuola russa (Tarkovskji) e baggianate del genere.
Però, figlie di questa epoca, con Moebius le sceneggiature del fumetto erano diventate il teatro di una cosa inedita: la contemplazione.
Fedele al motto “l'arte deve produrre segreto” che un tempo fu sostenuto da Marcel Duchamp, Moebius definì dei cambiamenti radicali nel modo di concepire il racconto.
“Basta con le sceneggiature quadrate, le storie possono avere forma di casa o di elefante!” affermava sornione e psichedelico il talentuoso Moebius.
Poco dopo sarebbe arrivato Arzack, in cui la struttura narrativa nel giro di 5 capitoli addirittura scompariva del tutto.
L'inosabile era stato osato.
Negli anni che seguirono avrei sentito molte voci dire che Moebius aveva rovinato tanti disegnatori e aspiranti autori con le sue storie-non-storie. Eppure a dispetto di queste voci, il suo lavoro brilla ancora per una visione misteriosa e apollinea che conferisce a quel disegno una grazia sino a ora ineguagliata.
Quel lavoro influenzò moltissimo Pazienza e Manara per citare due disegnatori che pubblicarono subito dopo le loro storie di esordio. Ma nel gioco magico delle influenze, Moebius stesso fu influenzato da Crumb, il quale, a sua volta, veniva dalla scuola di Segar. Ognuno aveva comunque il proprio mondo e le storie di Moebius non si potevano confondere con quelle di Paz o di Milo. E fu chiaro a tutti che se alcuni elementi stilistici erano comuni quello che rendeva memorabili le storie era la personalità di un autore.
Mi sono spesso interrogato su quella miscela stramba che fa si che un autore cominci a individuare le piste del suo proprio mondo interiore, sino a vederle fiorire su carta sotto forma di storie.
Dagli altri credo di aver imparato a “guardare”: Come diceva Vonnegut, un autore è un osservatorio sul mondo. E imparare a guardare fu probabilmente la cosa che animò, in modo del tutto istintivo, quei primi anni. Parlo della fine degli anni Settanta, quando cioè stavo per cominciare a pubblicare e mi illudevo di intrecciare le molte teorie, studiate anche all'università, con le cose che amavo disegnare.
Una cosa per me era chiara, Era esistita una cultura freak, che chiamavamo contro-cultura. Con i suoi miti beat, e ora c'era una nuova cultura, portata dagli scrittori pop (Barth, Barthelme, Pynchon) e dal post punk che vedeva sorgere la musica new wave. Da un nuovo modo di vedere, meno “figlio dei fiori”.
C'era Franco La Polla che studiava il nuovo cinema americano in saggi geniali pubblicati da Marsilio (poetica della nostalgia, dell'iper-realismo, della violenza), che parlava della nuova letteratura ebraica (Salinger, Roth, Bellow, Malamud, Mailer). Tutto questo, insieme a centinaia di altre piccole grandi cose, la fotografia di Diane Arbus, di Weegee, il recupero del pulp, l'idea che il fumetto potesse raccontare a lungo respiro, l'amore per l'architettura e per la grafica sarebbero confluite in Valvoline, sino a portare alla teoria di un fumetto che racchiudesse questi universi allora piuttosto distanti.
Ricordo che parlavamo di “ricostruzione fumettista dell'universo”, parafrasando la “ricostruzione futurista dell'universo”. In pochi mesi, dopo la definizione di “cubo-futurista” di Carpinteri da parte di Cristante, e diversi disegni di architetture nelle mie tavole, ci diedero perfino dei fascisti. Il futurismo era, alla fine degli anni Settanta e primi Ottanta, ancora del tutto famigerato. E se ti piacevano le architetture di Sant'Elia o Adalberto Libera, eri certamente un pericoloso reazionario.
Ma l'amore per il fumetto si era nutrito, prima dell'avvento di Moebius sulle pagine di Alter con l'aiuto di una persona che non ho mai incontrato, se non per via epistolare e che fu per me e, credo, per Carpinteri, fondamentale: Manlio Bonati.
Lui era un importatore di comic book americani, ma anche un grande appassionato. Se gli scrivevi ti spediva delle liste sterminate di titoli che potevi ordinare per corrispondenza. Ricordo per esempio Fantagore, Slow Death, Grim Wit, fever dreams, anomaly, Junkwaffel, ecc il meglio della produzione underground della seconda generazione. Corben, Greg Irons, Bill Griffith, Bodé ecc.
Trovavi anche le cose di Robert Crumb, o i comc book della DC, the shadow, swamp thing ecc. E sebbene questi albetti costassero un occhio della testa e arrivassero dopo lunghi viaggi transoceanici profumavano di qualcosa di impagabile. Di sogno realizzato, di talento grafico e visionario. Erano la base su cui si poteva cominciare a sperare che un giorno avremmo fatto questo, raccontare con i disegni.
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