1 giugno 2007
ARGENTO! capitolo 47
Attraversando proprietà private sotto l’abbaiare incessante dei cani da guardia, sino a giungere a costeggiare a nord ovest, dove si estendevano, tra bananeti e coltivazioni di mais, gli infiniti latifondi della famiglia Ierros era giunta alla foce del Silentu. Era li’ che di solito arrivava da bambina dopo un viaggio estenuante, in calesse, accompagnata dai genitori. Ora osservava quei campi a perdita d’occhio dove era solita giocare sino a sfiancarsi, per ore e ore a inseguire le mariposas, a spiare i cinghiali selvatici che si abbeveravano in branco e dove amava prendere il bagno, nelle rive basse, sotto lo sguardo vigile di sua madre.
La riconosceva quell’acqua gelida e trasparente che le serrava le caviglie in una morsa quasi insostenibile?
Era tutto talmente calmo. Pareva che il tempo si fosse fermato dall’ultima volta che aveva visitato la casa.
La casa, eccola, bianca, di calce, circondata, abbracciata quasi, dal grande olmo, il pozzo poco distante, e oche e galline che razzolavano. Tutto come allora.
Quanto tempo era passato?
Non era capace di dirlo.
Si trattava di un’altra vita, una vita diversa in cui era esistita un’altra Lupita Maraboto. Una Lupita serena e spensierata. Fino al giorno in cui tutto era andato in frantumi, e la sua esistenza si era biforcata come una Y. La giovane e spensierata adolescente aveva preso il sentiero del sogno mentre quella che abitava la sua pelle era rimasta attaccata a terra, alle durezze di una vita troppo cruda.
Non era cresciuta veramente quella bambina, non era diventata, a dispetto delle apparenze, una donna. Perché non si cresce in un battito di ciglia, anche se è il dolore a chiedertelo.
Nella porta di quella casa, una volta amica, cercava con lo sguardo i segni del tempo, i cambiamenti che questo inesorabilmente conduce. Eppure tutto sembrava come l’aveva lasciato, come era rimasto depositato nei ricordi, senza neppure una patina naturale di polvere o consunzione.
Anacronistico. Irreale. Immutato. Sembrava rimasto cosi’, apposta per consolarla.
Fece un passo in avanti cercando tutto il coraggio di cui disponeva.
Esitava, lo vedeva da sé, finché, con mano tremolante, decise di bussare.
Quale porta del futuro l’avrebbe accolta adesso? A proporle quale visione della sua nuova vita?
Per anni, decenni, aveva vissuto guidata dal soffio di un desiderio sordo che le aveva mormorato nelle orecchie, all’imbrunire, poco prima del sonno, parole dolci di vendetta.
E per anni aveva annuito, sapendo dove andare e desiderando di andarci al galoppo come una pistolera entusiasta che va al suo duello con il destino. Lo sentiva ridacchiare il destino beffardo e lei a sua volta ridacchiava in coro con lui.
Chiudere gli occhi.
Semplice. Glielo aveva insegnato l’esperienza. Il sonno cura molti mali. Quelli dell’anima in special modo. E cosi’ lei si abbandonava. Non proprio sorridente, dato che la sua espressione corruciata si era calcata sul volto come una maschera di ferro, ma calma, mentre poco alla volta le membra si intorpidivano e i muscoli si rilassavano e la Lupita terrena lasciava entrare in punta di piedi quella del sogno.
WOOOOOSSSHHHHHHHH
Sorrideva, poco prima di prendere parte allo spettacolo pirotecnico che avveniva di solito in una scenografia bianca e rossa di garofani, gioiosa come una festa di paese, e scoppiettante come i fuochi dell’anniversario.
Un passo dopo l’altro avanzava con il suo incedere da principessa, macché principessa; era una luchadora orgogliosa, dal tocco salvifico, che avrebbe liberato il paese, la sua stessa vita, dal peso di quell”incubo ambulante, l’uomo che portava dolore, disperazione e morte.
Ah, allora trepidava, e si svegliava, non di rado in preda a un senso di frenesia.
Altre notti invece, forse con la complicità della luna, il sogno prendeva una strana piega, malinconica e inospitale. La faceva capitombolare giu’ dalla scala che la fantasia le aveva concesso di percorrere notti prima, agro e spinoso come un cardo selvatico, la pungeva sino a farle male, per avvertirla che in fondo le tenebre rispondono a regole non terrene, e che si naviga nella notte da forestieri, in cerca di una guida sicura.
Di guide lei ne aveva cercato dentro di sé per notti e notti. Ma nulla, si era accorta dell’illusione dei sogni, e aveva sorriso tristemente, come si sorride al proprio fallimento. Era m-o-r-t-a.
Quanta vita scorreva dunque nelle sue vene esangui di luchadora morta?
Poca. E quella vita, puramente illusoria, aveva finito per screpolare, come calce sotto il sole, i disegni improbabili di forza e coraggio da romanzo d’appendice, facendo di lei, inesorabilmente, quello che si rifiutava di essere: niente altro che una bambina.
A dispetto di un fisico che la mostrava donna e di un dolore che l’aveva fatta sentire vecchia, o perché no, dopotutto, effettivamente defunta.
Giaceva distesa quindi. Senza voglia di nulla: né di lavarsi né di ingerire alcunché. Per sempre pensava, in quella cantilena che formicolava nella sua testa, “per sempre” e attendeva il suo angelo nero che la avvolgesse con le ali piumate e la portasse via, una volte per tutte via da quella vita amara.
Poi, i giorni passavano e doveva constatare, ahimé, che nulla era accaduto. Allora tentennando vinceva la sua inerzia, sorpresa da una forza di volontà che ignorava di possedere, spinta soprattutto dalle lacrime di sua madre, e finiva per tirarsi in piedi.
Cammninando con passo strascicato, il viso smunto, si sedeva in veranda, nel patio, lo sguardo perso a contemplare i banani, e i tramonti, che, uno dopo l’altro, sfilavano ridicoli e inopportuni in quella parata irreale e incendiaria che in Parador prende il nome di imbrunire.
Silenzi.
In quei giorni nessuno osava rivolgerle la parola, neppure starle vicino.
Perduta ogni fede nella scienza medica i genitori diperati, quasi per caso, avevano scoperto il potere, o meglio sarebbe dire l’influsso positivo di Don Fermin su quella loro figlia ammattita per il dolore.
Preparavano un cavallo e inviavano di tutta fretta Emiliano, il primogenito, a chiamare quell’uomo. Che salvasse la loro figlia, che la riportasse al regno dei vivi dato che si stava lasciando morire.
Dopo diverse ore di galoppo Fermin arrivava. Constatata la situazione rassicurava la madre affranta, beveva il suo caffè e poi si adoperava.
In silenzio, immerso nella penombra aspettava il momento opportuno, quel click che risuonava, inudubile, solo all’interno del suo cranio, e poi, molto discretamente, faceva un passo, poi un altro e attraversava il salone per sedersi di fianco a lei. Semplicemente. A leggere in silenzio il suo libro russo, che soseggiava come si sorseggia un buon vino, con gusto e dedizione.
Fermin, che era un bellissimo uomo, a Lupita era sempre parso vecchio, anche a trentacinque anni,
ma sentiva una inspiegabile, intima, complicità.
Forse la saggezza o forse molto semplicemente la predisposizione da maratoneta con cui l’amico di famiglia prendeva le cose, non sapeva dire, ma c’era qualcosa in lui che contribuiva a calmarla, a rendere quelle sue furie interiori mansuete, il suo sguardo assente placido. Nelle rare conversazioni che si erano succedute Lupita aveva apprezzato le parole che lui le aveva detto, il senso di pacifica accetazione delle cose della vita, “che sono futili”, come amava ripetere lui sorridendo, “sono futili, mia piccola, e scorrono”.
Le sarebbe piaciuto che fosse vero e, per simpatia, non osava contraddirlo, pur constatando che dentro di lei non scorrevano affatto, le cose futili, e che invece si ancoravano a rancori e dolori sordi rendendola una statua di marmo, rigida e vibrante.
Si stava nel patio in silenzio, per ore e ore, ascoltando i grilli o seguendo i movimenti dei topi sulle palme. Poi a notte, quando Fermin si alzava per congedarsi e raggiungere la camera degli ospiti, sempre in silenzio, spiati dai genitori di lei, posava una mano sulla sua spalla. Con la semplicità di cui sono capaci i vecchi.
Un gesto piccolo, caldo, umano.
Che lei aveva atteso per tutta la sera.
E il miracolo avveniva, lei sorrideva e andava in cucina a mangiare, da sola.
Cosi’ trascorsero, un giorno dopo l’altro, quei momenti terribili.
A volte, quando le crisi si facevano più acute e l’abulia pareva interminabile sino a rendere, a causa dei digiuni, Lupita pelle e ossa, l’uomo, chiamato dai suoi genitori come fosse parte della farmacopea, si stabiliva per qualche giorno a casa loro. E portava gli scacchi, e il suo proverbiale sorriso giallo, con lenta lisciata di baffi.
“Dov’è la piccola?” chiedeva fingendo lui. E lei, che era tutto un dolore, che sentiva vibrare la pancia ed era prostrata e indolenzita oltre il dovuto, riusciva ad alzarsi per dargli un bacio sulla guancia, sotto lo sguardo estasiato di sua madre.
(“miracolo” diceva quella, e piangeva, al solito.)
“Allora Lupita, come vanno i rimbalzi?”
Rimbalzi della vita; cosi’ li chiamava per scherzo lui.
E lei gli sorrideva perfino.
“Male zio Firmin”.
Lo amava, amava quell’uomo, di un amore impossibile, come fosse un terzo genitore. Mentre lui invece l’avrebbe probabilmente presa in sposa.
Tutto, tutto questo, pareva cessare, d’improvviso, se prendevano a soffiare, violenti, i venti da nord, a spazzare con la furia di cui erano capaci ogni languore superstite squotendola come si sferza un puledro selvaggio e rendendola quasi allegra.
Allora risuonava una risata, sorta dalle profondità di quell’essere minuscolo e scheletrico e, come per sancire la fine di un brutto momento, Lupita saltava, parlava a voce alta e giocava insieme a quell’uomo e a suo fratello a rompere a sassate i vetri delle bottiglie riposte nel sottoscala.
Quella monellata, quel fracasso inatteso, era il segnale che la vita aveva ripreso il suo corso naturale.
Ora, mentre ricordava in silenzio tutto questo, d’improvviso la porta si schiuse e lei vide il volto che da bambina aveva carezzato tante vole, incartapecorito dal tempo.
“Ciao, sono tornata”.
E lui le sorrise, come fosse cosa naturalissima il vederla dopo tutti quegli anni.
“ Entra.”
Almeno qualcosa era cambiato, il tempo non si era fermato dopotutto, come non aveva esitato a devastare quel viso belissimo di un uomo che la aveva chiesta in sposa a dieciasette anni, incrinando irrimediabilmente i suoi rapporti di amicizia con quei genitori bigotti.
“Mi spiace quello che è successo con i miei, zio Fermin.”
“E’ successo, era inevitabile. Non era una cosa opportuna, effettivamente, avevano ragione i tuoi”
“ti preparo un caffè, ti va?”
Non attese la risposta, il vecchio, e si diede da fare; prese a canticchiare una nenia indiana e poi, quasi parlando tra sé e sé le chiese: “come vanno i rimbalzi, Lupe?”
“Non lo so”
“Non lo so, è già una risposta importante. Un tempo avresti detto: “ Male, zio Fermin””.
Risero senza aggiungere nulla, poi mentre il bollitore sibilava lei soggiuse:
“mi sei mancato”.
“Sono vecchio. Adesso lo sono per davvero”.
“il tempo passa per tutti”
Lupita sorseggio’ il caffè, per un attimo, e si senti’ rassicurata dall’essere in una casa amica, quindi sospiro’. Temendo che quel sospiro potesse essere male interpretato arrossi’ di colpo e poi, stordita da quelle sensazioni contrastanti disse senza troppi preamboli:
“Ho ucciso l’alcalde”
“l’ho sentito”
“la notizia è già arrivata?”
“sai Ramon, il figlio del maniscalco, lui lavora alla gendarmeria, è giunto un dispaccio urgente, ti cercano, queste voci non le controlli mica…”
“Devo cambiare cavallo, zio Fermin, questo è stanco galoppa da ore a perdifiato”.
“certo Lupe. E’ tutto pronto.”
Quell’uomo, che aveva odiato l’alcalde quasi quanto lei, adesso era risoluto ad aiutarla, senza il minimo dubbio. Era questa dedizione incondizionata che la aveva turbata sin da bambina, quella forza di dedicarsi a qualcuno, senza pretendere nulla in cambio.
D’altronde lei aveva sempre amato il suo essere sobrio, saggio, antico in un certo senso, che lo poneva in una maniera speciale rispetto al semplice fluire delle cose del mondo.
Apprendere di essere braccata non fu piacevole ma quel senso di incertezza si sposava con una improvvisa leggerezza. Si potevano aprire le porte del passato? Fermare il tempo a un punto preciso, un punto di estrema complicità, di amore puro?
“Da tanto non ci si vedeva. Quanti anni saranno passati?” Chiese lei.
“Troppi. Che importanza ha?”
“hai bisogno di qualcosa? Ho messo nelle tasche della sella cibo e danaro.”
“Grazie zio Fermin”.
“No, non devi ringraziarmi Lupe”.
Le faceva effetto essere chiamata senza il diminiutivo. Ma capiva che quello era segno per l’uomo che ora lei non era più la bambina di prima.
Sorrise, imbarazzata, sentendosi arrossire ancora una volta.
“devo andare ora”.
“Già”.
Lui la bacio’ sugli occhi, all’uso creolo, come per augurarle una nuova vita, e le diede il migliore dei suoi cavalli. Un purosangue che per anni aveva curato come un figlio, sapendo che prima o poi sarebbe giunto il momento.
Sorrise per l’ultima volta, certo come era che Lupita non sarebbe rimasta a marcire in quella terra ingrata.
“Ciao Lupe, conserva il tuo spirito sempre giovane; e fiorisci, ora che puoi.”
Lei parti’ al galoppo, senza udire quelle parole.
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