29 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 46
Quando credette di vederlo San Evaristo gli sorrideva, aveva una barba bianca appuntita e quel suo sguardo severo che credeva di conoscere da tanto.
Si guardarono placidamente disturbati solo da un sibilo insistente. Cos’era?
L’alcalde fluttuava, sospeso mentre guardava la scena dall’alto. Vedeva il suo corpo attorniato da federales. Giaceva immobile. E il dottore, che adesso inspiegabilmente non odiava più, gli tastava il polso.
“E’ morto” disse.
Fu cosi’ che lui stesso apprese di essere passato a miglior vita. E si domandava se sarebbe davvero stata una vita migliore, quella che si accingeva a intepretare (chissà quale ruolo gli avrebbero affidato, ne era curioso).
Il riassunto della sua esistenza appena terminata era scorso rapidamente, immagine dopo immagine, con un senso di disgusto che lo aveva sorpreso. O meglio era rimasto sorpreso dal fatto di avere improvvisamente capito, di aver dato cioè, valenza diversa ad atti che nella sua vita riteneva logici, perfino ovvi, e che di colpo invece gli erano apparsi in tutta la loro meschina natura.
Lo sgomento si era fatto strada, come un ruscello che scava la roccia, e aveva scavato degli alvei nella sua anima fragile di uomo senza punti di riferimento. Era a un bivio, un uomo in bilico, che non godeva più del privilegio di antiche certezze, né, d’altra parte, dell’entusiasmo di nuove scoperte.
Errori, si erano affastellati, e lo appesantivano. Adesso ne vedeva cosi’ tanti che avrebbe voluto cancellarli, come si cancella una scritta sbagliata. Ma quella che aveva davanti agli occhi era la lavagna dell’esistenza.
E dunque si’, provo’ perfino vergogna, senza ancora comprendere appieno il perché.
Situazione alquanto scomoda per uno abitiuato a comandare. Non sapeva esattamente su che piede danzare quando voltandosi a destra e poi subitamente a manca per attirare l’attenzione del suo virglilio, si avvide che questi era scomparso. Volatilizzato.
Ma dove si trovava San Evaristo? E che accidenti avrebbe dovuto fare adesso lui? Cerco la sua tabacchiera. Doveva essergli caduta poco prima. Non la trovava. Allora si decise a parlare. Cosi’, per farsi compagnia da solo. Parlava parlava ma non udiva neppure la sua stessa voce, disturbato com’era da quel dannato sibilo che gli impediva quasi di pensare.
Cos’era quel sibilo? Era un fischio stonato, che aveva cominciato a percorrere i padiglioni auricolari quando il proiettile di fucile aveva perforato la sua fronte. E non ne voleva sentire di cessare.
UUUUUUUUUUUUUUUUUUUIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII
Proprio adesso che si era deciso a ridere, che aveva imparato l’autorironia. “ destino beffardo, destino beffardo”, continuava a ripeterselo; un destino ingiusto quello.
Oppure forse, ancora peggio, quello era stato il regalo ultimo, un premio di dipartita che il suo santo protettore aveva deciso di elargire come passaporto per l’aldilà?
Già si vedeva, in fila per passare. E su un giornale di sottecchi leggeva il titolo: “aguzzino per tutta la vita, in punto di morte finalmente impara a ridere”.
Affrettava il passo per sfuggire quel destino ineluttabile.
Un po’ di dignità che diamine. Rifiuto’ i pensieri bislacchi come si rifiuta un piatto andato a male al ristorante. Ma poi, ai suoi piedi rimbalzo’ un sasso. Fece finta di niente. Un altro e un altro ancora. Ce l’avevano con lui, era chiaro. Si volto’ e inspiegabilmente sorrise. In cerca di complicità. Ma si avvide che era stato raggiunto da alcuni tristi figuri, i quali, adesso, questa è bella, gli sbarravano perfino la strada. Alzo’ lo sguardo, era pur sempre un alcalde, chissà se ancora lo chiamavano Sua Eccellenza. Fece per parlare ma non usciva suono alcuno, poi alzo’ ben bene lo sguardo e li vide in volto. E riconnobbe, uno dopo l’altro, le vittime delle sue scorribande da mascherato. Gesu’, quanti erano. Sorrise, non ricambiato. Poi ebbe un sussulto, e si morse la lingua. Penso’: “posso spiegare”. Ma non usci’ suono alcuno.
Quando fu afferrato si senti’ strappare da tutte le parti, e non era capace neppure di urlare. Presto fu buio, molto buio e credette di perdere i sensi.
Più in basso, sulla dura terra, Lupita frattanto era fuggita in mezzo agli spari dei federales. Rapida aveva rubato un cavallo dei latifondisti e si era allontanata al galoppo.
Il parapiglia aveva facilitato l’azione di nascondere i volti dei ribelli sotto le pezze bagnate. Don Erminio era tornato ai suoi feriti e seppure a malincuore non poteva trattenere un sorriso che gli illuminava il volto.
“Avete visto chi era dottore?”
“Chi era?” chiese mentendo, dato che la aveva ricnosciuta benissimo.
“ Era Lupita quella”.
“ I cerchi si chiudono, le prepotenze non sono apprezzate da Dio”. Disse Esmeralda.
“già, già”. Chiuse il discorso il dottore che vide in quel momento, tra i feriti gravi, l’uomo che aveva rischiato di essere impiccato. Era Emiliano Maraboto, il fabbro cui l’alcalde una notte aveva strappato la lingua”.
Aveva il torace schiacciato ma era ancora cosciente.
“ tua sorella ha ucciso l’alcalde, Emiliano” disse don Erminio.
“ ora puoi morire in pace”
Sorrise con quel poco di forze che gli restavano e cerco’ di dire qualcosa.
“ l’ar..ncia è m..ra”.
“Cos’ha detto?”
“qualcosa come “l’arancia è matura””. Disse Esmeralda.
Tutti si domandarono perché avesse scelto quelle come ultime parole.
Poi arrivarono altri schiamazzi. Pareva che chi tornava dall’altro mondo avesse sempre un diavolo per capello. Era difficile ottenere sobrietà. Forse era la morte a spaventare, o forse la gioa di essere ancora vivi a dettare un entusiasmo pressoché esplosivo.
Fattostà che al suo risveglio il duca di porcellana fu piuttosto villano e alquando sbrigativo. Neppure un grazie, neppure un motto di sopresa, ma solo stizza e rabbia malcelata.
Non era ferito, non amava sentirsi spiato, mentre dormiva, e detestava essere accomunato ai volgari campesinos. Tutto era troppo, decisamente.
Comincio’ a spazzolare il fango secco dalle sue vesti pregiare e chiese, con tutta la malagrazia di cui disponeva, dove mai avessero cacciato i suoi chicos.
“ Li lasci andare, quei poveri bambini” disse una vecchia che lo aveva accudito.
“ Quei poveri bambini sono nutriti e curati quanto tu non sapresti mai fare, vecchia della malora. Conducono un’esistenza felice e non avrebbero voglia alcuna di allontanarsi da me”.
Rispose con un marcato accento forestiero, il duca. Non aveva mai apprezzato le situazioni troppo promisque, non si confacevano al ladrocinio; rischi sempre che qualcuno ti veda. Lui preferiva, era la scienza ad insegnarlo, la sua scienza, i gruppuscoli di gonzi, che con un numero ragguardevole di chicos dominava alla grande.
Solo la vista di Greg, sotto un albero, che intagliava un ramo con il suo coltello a serramanico gli diede conforto.
“my boy, where are the others?”
E lui indicando una serie di corpicini semisvenuti poco distante mostro’ cio' che aveva sempre creduto di possedere, una superiorità indubbia. Lui era il primo; il più forte, quello destinato al comando.
“abbiamo cose da fare" disse.
“ Ah, certo, Greg. Diamoci da fare”.
Mentre il piccolo svegliava i suoi compari senza troppe cortesie il duca di porcellana si reco’ verso il capo dei pompieri per sapere se per caso avevano recuperato il suo carro.
“un carro abbastanza grande”.
Il capo dei pompieri sorrideva per tutte quelle arie da gran signore che il duca di porcellana cercava di darsi. Poi con gli occhi fisso’ un punto alle spalle dell’uomo, che si volto’ e scorse il suo carro, sporco di fango ma abbastanza in buono stato.
“ Beh, accidenti, dovremo dargli una bella pulita, ma pare che stia ancora in piedi".
E battè le mani
CLAP CLAP
come suo costume, e i chicos ordinatamente si avvicinarono e cominciarono , come potevano, con frasche e poi con secchi prestati dai pompieri, a lavare quella che per loro era, a tutti gli effetti, una carrozza regale.
Cominciava a calare il sole quando si allontanarono sul carro trainato da un ronzino acquistato ai latifondisti. Diretti verso nord, verso Puerto Oruro.
27 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 45
Quando era bambino, in tutta quella effervescenza di avvenimenti e spettacoli mesmeristi e incontri e successi da capogiro aveva sempre temuto che un giorno la giostra, lo sgangherato carrozzone rutilante che corrispondeva alla sua giovane esistenza, si fermasse e che qualcuno facendosi avanti lo invitasse a scendere. Chi fosse questo qualcuno, se la sua coscienza, la morte o altro non avrebbe saputo dirlo. Seppure bimbo aveva capito che non si vive di solo presente e sentiva una forza di colore bianco che pulsava in petto. La chiamava con un nomignolo infantile, quella presenza, il giovane Vladymir: “Silverman” come fosse un amico, e poi Anima e poi ancora Dio, ma tra tutti questi nomi la consapevolezza di non essere solo lo aveva accompagnato sempre e comunque.
Adolescente si era inebriato del senso di potenza conferito dall’età; e dall’alto della sua visione acerba aveva coltivato l’illusione di essere padrone del ritmo. La vita danzava secondo la sua musica. Hum-papà Hum-papà in un tre quarti infinito. Ed era danza lieta e pure spensierata, quella che un giorno lo aveva condotto all’abbandono di una cospiqua fortuna per divenire cio’ che era divenuto: un picaro, corteggiatore della vita, assaggiatore delle spezie segrete, amare o dolcissime, che questa riserva ai temerari.
Aveva riso. E ripetuto la frase sarcastica che suo padre (buonanima) sfoderava, come si sguaina una scimitarra, nelle grandi occasioni di scontro:
"A glick hot dir getrofen" Ti è capitato tra le mani un pezzo di fortuna.
Si era visto, nel palcoscenico dei suoi sogni ad occhi aperti: elegante pilota di tappeti volanti, creatore di gesta mirabolanti, oppure, invecchiando, semplicemente viaggiatore, illusionista e baro, come lo volevano lingue malevole incapaci di vedere tra le righe.
Eppure tra le righe lui aveva scrutato con passione per tutta la vita. Passione divenuta, man mano che le sue tempie imbiancavano, quasi bramosia; al constatatare che l’esistenza è atto misterico e pieno di soprese per chi, con mano di velluto, sappia muovere ingranaggi e meccanismi, l’orecchio teso a cogliere il click fatidico che schiude la cassaforte del bello.
“Ladro”, “predone”, parolone insensate per uno che credeva con tanta potenza. “Devoto” si era sentito a un certo punto della sua vita, disonesto mai.
Le aveva semplicemente lette, lui, le regole del mondo, tra le righe del suo diletto Cervantes e del suo non meno venerato Omero. Era apparso chiarissimo che la vita va amata come si ama una donna, senza trroppe smancerie, ma con devozione cieca e ispirata.
E questo aveva fatto Vladymir Andrey Rostropovitch; a dispetto di quelle troppe y che affievolivano l’impatto del suo virile nome di battaglia. Ereditato come si eredita dalla famiglia, ma portato alto come il vessillo di un’armata che combatte con passione le battaglie di cause dimenticate o perse nel tempo.
Ricordava precisamente, quasi fosse rimasto inciso nella sua memoria, il momento in cui divenne (come prosaicamente lo chiamava suo padre) balnes, colui che fa i miracoli. Ed era giovane, giovanissimo come balnes. Un prodigio di forza magnetica che aveva eletrizzato la nobiltà di mezza europa sul finire dell’Ottocento. Li faceva viaggiare nel limbo ipnotico e vedeva con loro cose che la logica rifiutava di ammettere. “L’uomo non è solo logica. L’uomo è magnetismo”, sbottava suo padre, “ è forza in sintonia con il cosmo”.
Da queste premesse non poteva scaturire uno scienziato, non un logico, ma un poeta, forse. Che studiava la forma, lo stampo da cui era colato, come un pudding solido e molliccio; con lo stupore dei ventenni che camminano sul vento. Questo si era sentito un giorno mentre si radeva. Un giorno qualunque quando la sua mente, inceppata, è probabile, aveva partorito la perla di sapienza orientale che prende il nome di satori. Illuminazione.
Una forma piena di energia e magnetismo, un pudding forse, ma bipede e venato di una sua, peculiare e tutta ebraica, malinconia.
Al pudding, al suo stampo e a suo padre, e alla sua malinconia, a tutto questo pensava Vladymir, mentre a cavallo, armato come un predone, con fucili a tracolla e doppia colt nelle fondine ascellari attraversava le secche di Coloriu Arrubiu diretto a nord, fin verso Puerto Oruro in compagnia di Elmer. Un magma di pensieri da cui sembrava imprigionato. Gli accadeva quando non voleva pensare, in quelle occasioni in cui si avverte che il pensiero diretto provoca dolore e porta smarrimento. Allora, come una seppia che spruzza il suo inchiostro, per confondere il nemico, Vladymir si cullava nel magma, che era abilissimo a generare. Un magma di pensieri collosi che intrattenevano il suo cervello stanco e consolavano il suo cuore sanguinante.
Sentiva una certa simpatia per quel cucciolo d’uomo che aveva avuto, come lui, un infanzia negata.
Ma mentre la sorte su di lui si era mostrata generosa inondandolo di fortuna sfavillante e lo aveva accolto a corte, giovane wunder-jung, per farsi intrattenere, ad Elmer aveva riservato la guida di una luce fievole, pallida quanto sa esserlo la luna guardata di sottecchi, attraverso la trama sdrucita di una palandrana usata come coperta. Non sapeva dire esattamente come, né dove, ma ad un tratto la vita era stata talmente prodiga di asprezze che lo sguardo da cucciolo di Elmer si era trasformato in quello venato di crudeltà che lui aveva scorto. Ed era proprio questo dettaglio a turbarlo.
Ad annunciargli un crepuscolo bizzarro. Aveva visto in ritardo, obnubilato da un pregiudizio (infanzia = innocenza). Grave. Gravissimo.
Lui che di intuizione e introspezione aveva fatto il passepartout per un paradiso su terra con latitudine sud. Lui che era cresciuto sulle ali dei due Franz, seguendo fisiogomica e mesmerismo come si seguono madre e padre da bambini, con tutta la speranza del mondo racchiusa in un semplice assioma: “Sono venuti prima di noi, sapranno bene la strada”.
E invece tutte quelle certezze avevano finito per incrinarsi e franare miseramente al suolo. Il mersmerismo era divenuto dunque uno spettacolo da circo e i suoi talenti avevano fatto di lui un baro professionista.
Preferiva definirsi picaro (anche i consapevoli hanno un cuore da proteggere) e viaggiava a cavallo di avventure leggendarie (per come se le raccontava a notte fatta, o per come si sentiva raccontarle se per caso nella combriccola da spennare faceva capolino il corpo di una donna interessante). Allora diventava loquace e sfoderava la sua qualità di contastorie che non era seconda a nessuno in tutto il continente. Ma doveva essere ispirato. Da bellezza, brivido del gioco e vellutato vino rosso del Parador.
Sospiro’.
Non ne sentiva certo il sapore di quel vino, adesso che erano a secco e l’amarezza si faceva varco. Immaginava un Elmer bambino che uccide e razzia senza scrupolo e nel farlo non poteva fare a meno di “comparare” le loro due esistenze, in un gioco doloroso che non ha scopo reale se non quello del tormento. Bianco e nero, sole e luna, giorno e notte.
Provava un senso di pietà per quella infanzia negata pari, forse, solo a quella autocompiaciuta che talvolta lo assaliva nelle notti solitarie in cui si ritrovava a piangere pateticamente per se stesso, “oh me misero, me tapino” singhiozzava, assecondando la chimica del malumore o del troppo velluto liquido (l’uomo è energia , non logica). Sino a quando i primi bagliori scacciavano il velo pietoso della notturna autocommiserazione. Al canto dei primi uccelletti si alzava e sciacquandosi il volto cercava di mandar via il rossore delle gote. Ma non era sporco quel rossore, era pudore, che sconfinava in vergogna.
Mentre Herr Doktor si allontanava dallo scenario di catastrofe naturale che aveva colpito il Parador in quei giorni di fine estate con la sua mente accarezzo’ il ricordo tenero di Lupita. Era la sua bellezza ad averlo stregato. E i suoi modi burberi. Ma non sapeva nulla di lei, come spesso accadeva quando era tanto disposto a mettersi in gioco.
Capitava che si prendesse per Don Giovanni o forse si dovrebbe dire “Casanova” tale era il suo amore per la grazia del gentil sesso. Totale e abbacinante come un’alba del deserto.
E rischiava di perdere la sua stella polare pur sapendo che era proprio in quel perdersi accanito il senso di una vita da picaro. Picaro lo si è nell’anima, prima che nelle gambe questo credeva di avere compreso (una delle poche vere certezze accumulate nel tempo, tra gli zoccoli in movimento del suo Herr Doktor).
Mentre trottava lievemente in quel paesaggio fiorito e battuto dal sole cocente senti’ il peso di un corpo che si abbandona e voltandosi appena e tastando con la mano si avvide che Elmer era caduto addormentato. Allora, con la cura che avrebbe destinato a uno dei suoi due volumi più cari decise di sostare, scese e preparo’ un bivacco, slacciando la sella dal ventre sudato di Herr Doktor e accasciando il corpo di Elmer in un letto morbido di trapunte e coprendolo con le premure di un padre.
Poi mentre rimboccava quelle coperte e accarezzava i capelli biondi del piccolo una cosa dal taschino di quelle vesti lercie attrasse la sua attenzione. Lo vide e non credette ai suoi occhi, lo prese in mano e constato’ con tutto lo sconcerto di cui disponeva che si trattava proprio di quel che sembrava: un’orecchio umano.
26 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 44
Numerosi avvenimenti si affastellavano l’uno sull’altro in quella mattinata.
Rilasciato Felix, in seguito all’intervento del dottore presso i militari, insorse un altro problema capitale.
Comparivano, tra le salme e i feriti, numerosi degli uomini creduti morti da anni. Erano i membri della confraternita dell’argento che avevano preferito lasciare intendere di essere passati a miglior vita per potere combattere in clandestinità la dittatura di Fulgenzio Villa. Ora è notorio che le visite dall’aldilà destino sorpresa e meraviglia, in alcuni casi perfino paura. Così quando qualcuno credette di riconoscere nelle sembianze di un ferito il volto di Catarino Diaz ci fu un motto di emozione. Quando, poco distante, alle donne parve di riconoscere l’aspetto di Aureliano Rubirosa il saggio, l’emozione si trasformò in terrore e qualcuno svenne.
Ma quando fu rinvenuto il corpo esanime di Ramon Picocca e quello del suo amico Ruma Velasquez ci fu chi giurò di avere compreso l’antifona; era chiaro come il sole che l’inferno stava sputando fuori gli indesiderabili. E quelle anime impenitenti erano ritornate alla terra dannata che li aveva partoriti per portare malasorte.
Don Erminio si avvide del problema e fu turbato lui stesso di trovarsi davanti a quei corpi di cui, complice, anni prima, aveva decretato ufficialmente il decesso.
Adesso erano li’, inermi e sotto gli occhi di tutti, federales compresi; l’alcalde avrebbe compiuto il capolavoro della sua carriera di aguzzino, se mai avesse dato un’occhiata a quei corpi che tanto disprezzava. Si sarebbe accorto che l’armata che a notte combatteva sotto la maschera degli squadroni neri adesso era tutta li’, più che vulnerabile, alla sua mercé, stesa, ferita o moribonda.
Per un attimo don Erminio si senti’ venir meno, poi prese l’iniziativa e comincio’ a parlare con la massima calma di cui disponeva.
“Amici…” disse con un filo di voce.
Doveva persuadere i campesinos scossi e increduli che, a dispetto delle superstizioni locali, non si trattava di spettri come qualcuno affermava, poiché gli spettri non viaggiano in comitiva.
“Non si tratta di presenze maligne, è il buon senso che lo spiega, anzi lo insegna”.
Non era il demonio. Come mai poteva esserlo? Dov’erano i piedi di capra? E di tutto, poi, puzzava quella mota tranne che di zolfo.
D’altra parte, spiego’, non potevano neppure essere angeli, come qualcun altro ipotizzava, poiché, come appurato dalla scienza, gli angeli non sanguinano come sanguinavano i presenti.
“Secondo Leibniz” disse con tono di chi la sa lunga “esistono corpi spirituali, chiamati Monadi. Questi sono eterni e indivisibili. Sono monadi Dio e l’uomo”. "Essendo eterni possono tornare da dove provengono".
Non sapeva cosa stava blaterando ma l’effetto fu tale che un mormorio sommesso si diffuse. Il ricorso alla teroia filosofico-scientifica li convinse, i campesinos non avevano mai sentito nominare Leibniz ma il suono di questo nome unito all’autorevolezza di Don Erminio li persuase che oramai il Parador aveva salpato le ancore, in rotta verso il moderno. E doveva abbandonare, lasciandosele alle spalle come scogli o secche pericolose, ogni sorta di culto animista o teoria ancestrale o superstizione popolare che lo teneva ancorato all’età della pietra.
L’unica domanda che fu posta la pose Felix, scuro in volto.
“Anche il parador è una monade?”
“Si capisce” replico’ fermo don Erminio per abbandonare al più presto il più insensato dei discorsi che avesse mai pronunciato.
Ci fu un silenzio di tomba. E poi un applauso.
Questo sguardo progressista venato di socialismo utopista e con riverberi teologico futuristi convinse i presenti che il ritorno in vita dei nostri cari è da cogliere come una lieta novella di cui ci si spiegherà le ragioni con il tempo (le monadi un giorno prenderanno la parola e spiegheranno) . Un mugugnare di assenso fu dunque pronunciato dai moltissimi presenti e generò quel suono tipico che aleggiava per l’aria surriscaldata come un coro russo.
Non si doma facilmente una massa stupita o spaventata. Quello fu dunque un passo decisivo, vissuto dal dottore come la vittoria di Napoleone nella campagna di Russia.
Felix, dal par suo, fu anche lui promosso sul campo al ruolo di coordinatore delle azioni di trasferimento. E cominciò la sua azione di diversivo per distrarre federales e pompieri mentre i soccorritori disponevano una pezza bagnata sulla fronte e sugli occhi fino a mascherare la reale identità dei redivivi giacché se questi fossero stati riconosciuti avrebbero subito soggiornato nelle patrie galere.
“mettete in fila i feriti più urgenti che possono camminare”
“gli altri stendeteli sotto l’eucaliptus, no dietro la grande roccia, dietro l’eucaliptus passano i pompieri”
“entro un paio di ore bisogna seppellire i cadaveri, prima che vadano in decomposizione”.
Era stato capocantiere, Felix, e disponeva di una certa sua sicumera, che dava sui gangheri all’alcalde. Ogni ordine lo colpiva al ventre peggio di una stilettata.
Ma non c’era null’altro da fare e ordinò, l’alcalde, dall’alto della sua magnanimità, di disporre il dannato trasferimento.
L’alcalde si sentiva febbricitante, le gambe molli; il suo duello recente con don Erminio non gli aveva certo giovato. Aveva il capogiro e sentiva gli occhi bruciare. Si slacciò il colletto e sedette su una sedia da campo dei pompieri.
“Ramirez” chiamò.
“sissignore”
“non abbiamo delle tende da campo?”
“al momento nossignore, potremmo richiederle al Governatore di Puerto Oruro, Signore; Ma occorrerebbero giorni prima che arrivino.”
“Dannazione”.
Constatò che era proprio con le spalle al muro, detestava il governatore di Puerto oruro, con le sue manie "culturali", e desistette all'idea di ostacolare il dottore creando un ospedale improvvisato là dove si trovavavno.
“Mandate degli uomini in caserma, fate spedire un dispaccio urgente, riunite i camion di stanza a Coloriu Arrubiu, me la vedio io con Siotto; voglio i camion qui entro un paio d’ore, si comincia il trasferimento”.
“signorsì”
“dove li portiamo signore?”
Rimase lì, per qualche secondo con lo sguardo perso. Impettito in posa da generale, ma assai meno preciso di un generale. Che sprovveduto; non aveva pensato a una destinazione, la cosa più importante. Fu soccorso dall’arrivo provvidenziale del capitano dei pompieri.
“avevamo pensato all’hangar dell’aeroporto di coloriu Arrubiu. Sempre se sua Eccellenza l’Alcalde è d’accordo”
“ottima idea, è ampio a sufficienza e servito da appropriate vie di comunciazione”
Salvato l’onore in quella snervante battaglia di posizioni crollò sulla sua sedia da campo. La febbre pareva divampare in quel corpo convalescente e lui si sentiva, per la prima volta nella sua esistenza, perduto e inadeguato.
Sotto assedio.
Visse quella mattina come l’ultima della sua lunga carriera, e si sentì pronto, rassegnato al suo destino, al punto che quando vide giungere le “accabbadoras”, tre vecchie dotate di martello che venivano a finire i malati incurabili, come da tradizione in quel luogo angusto che gli aveva dato i natali, al colmo di una sbornia di ego, credette che fossero lì per lui.
E cominciò a indietreggiare ridicolmente.
Non fu (e questo rappresentò un toccasana per il suo orgoglio) quasi notato, dato che i campesinos sembravano stranamente assorti nella pratica di deporre delle pezze bagnate sui volti dei feriti. Ma lui, l’alcalde Don Ignatio Rodriguez Ramos, si sentì al capolinea. Capì che probabilmente una stagione era conclusa. E mentalmente cominciò a riporre la sua autostima nello stesso armadio dove a suo tempo aveva riposto armi ben più acuminate, come odio, rancore e desiderio di vendetta.
A imperituro ricordo. Amen. Pensò tra sé e sé.
E si sentì stranamente autoironico, una sensazione nuova, regalatagli da San Evaristo, suo santo protettore in gioventù, che adesso, ne era certo, lo benediceva. Lui che era privo completamente di senso dell’umorismo adesso addirittura rideva di se stesso. Quale miracolo aveva potuto regalargli una sorte del genere? Si fece istintivamente il segno della croce e questo gesto sembrò svegliarlo da un torpore che aveva assalito membra e spirito. Aprì gli occhi e fissò una figura lontana lontana. Non riusciva a mettere a fuoco eppure quella figura gli sembrava familiare. Dietro un’acacia stava ritta, con fare ieratico e sembrava imbracciare qualcosa. Era proprio un fucile quello che imbracciava? Chi era che lo teneva sotto tiro?
E improvvisamente come un lampo fu tutto chiaro, quella figura era una figura a lui nota, una figura di donna, di cui aveva goduto le grazie, con la forza. Il suo nome era Lupita.
23 settembre 2006
un dovere morale
Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario . A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso…morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita…è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio...è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero , belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa". No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: "Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo".
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che "spinge verso il porto"; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo "luogo" dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non "esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente "terminale" che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di "approdo" alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato nazionale di bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che ''di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale''. Ma che cosa c’è di "naturale" in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’…io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario . A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso…morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita…è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio...è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero , belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa". No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: "Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo".
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che "spinge verso il porto"; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo "luogo" dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non "esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente "terminale" che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di "approdo" alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato nazionale di bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che ''di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale''. Ma che cosa c’è di "naturale" in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’…io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby
21 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 43
L’uomo scese da una sorta di reliquiario; c’erano immagini sacre ovunque e croci dipinte di colori diversi e rosari e bacche che riempivano coppe d’argento. Dalle pareti le lingue di fuoco al carburo illuminavano quell’antro creando riflessi blu petrolio e verde muschio che rimbalzavano sulla sua pelle.
Camminò lentamente per la grotta. Sembrava compiaciuto di quella lentezza.
Poi rimase immobile davanti allo specchio, come privo di vita. Il suo corpo era di un colore talmente cupo che si fondeva con il buio. Solo il lucore degli occhi balenava nella tenebra.
Qualcosa si mosse, con cadenze meccaniche in quell’oscurità. Se si fosse sentito il ticchettare di un metronomo quelle zampette sarebbero risultate “a tempo”, talmente sembravano rispondere a una partitura musicale.
Sfilavano geometricamente. Una tarantola e un’altra e ancora un’altra. A ricoprire la parete dello specchio.
L’uomo sembrava ignorarle; con fare rituale distese molto lentamente le braccia e schiuse la bocca. Farfugliò delle frasi incomprensibili, che sembravano quasi un ululato al rovescio. Ma sottovoce. Poi rimase in attesa, con il viso rivolto verso l’alto.
Uno, due, tre secondi dopo, colò da quel soffitto in quarzo, una pioggia argentata e rumorosa.
Faceva un frastuono impressionante.
Alvino lo spiava senza distogliere lo sguardo con il respiro strozzato.
Suoni di ingranaggi lontanissimi sembravano echeggiare da sotto polveri antiche e arrivarono accompaganti da una amosfera lattiginosa che squarciò le pareti. Adesso il luogo sembrava uno spazio aperto, e Alvino vedeva e non vedeva, però il sibilare del vento che spazzava le dune del deserto lo sentiva distintamente.
Aveva paura, il piccolo, eppure si sentiva attratto da quella luce opalescente. Quasi svenne per la paura quando, senza preavviso alcuno, tutto fu inghiottito ancora una volta dal buio pesto.
Buio e freddo.
E si rese conto di tremare. Tremava fortissimo: i denti battevano così forte da fare male. Pareva che stessero per staccarsi da un momento all’altro.
Guardò nuovamente nel buio e gli sembrò di vedere l’angelo nero con il corpo interamente ricoperto di monete che si voltava verso di lui. Gli occhi erano due dischi di argento. E vibravano.
FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR
FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR
FFFFFFFFRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR
Ritmicamente.
Dalla bocca aperta fuoriuscivano quei suoni sconnessi. Suonava come una salmodia inquietante.
“non capisco” si scusava Alvino
“non lo so. Davvero, non ne so niente”
Le tarantole avevano continuato la loro danza e si erano mosse dallo specchio che ora appariva ricoperto di una sostanza opaca simile alla pece. Non rifletteva più nulla.
Si avvicinavano: Alvino le osservava con un misto di schifo e terrore, ma era anche curioso in fondo. Si sentiva attratto da quegli enormi insetti che non aveva mai visto prima d’ora.
Uno squarcio di luce ferì i suoi occhi, era luce bianca, fortissima, faceva male.
E tornarono quei suoni incomprensibili.
“ch…ooo…entiiiiii”
“cosa volete da me? Basta con quella luce” protestava il bambino.
Sentiva la forza venire meno; il suo corpo era diventato sempre più pesante; tanto che le gambe non lo reggevano più. Si ritrovò per terra con i muscoli che non ubbidivano. Cercava di rialzarsi ma invano. Mentre le tarantole si avvicinavano rapidamente e gli camminavano sopra. Sulle gambe, sul busto e sul volto. In breve ne fu completamente ricorperto. E questo fu poco prima di essere sbattuto da una forza superiore, quasi un’elettricità misteriosa, che scagliava il suo corpo qua e là su quel pavimento di pietra.
Piangeva Alvino. Singhiozzava. E desiderava solo di essere lasciato in pace, per potere tornare a un oscurità che adesso gli sembrava quasi desiderabile.
Poi si rese conto, le tarantole filavano la loro tela. Goccia dopo goccia, un filo sottilissimo che colava da quelle minuscole bocche pelose, come un filo d’argento che lo avvolgeva. In vita. Sempre più stretto, strettissimo; fino a tagliargli il respiro.
E bruciava i panni, la pelle, le carni, che si scoglievano come burro fuso.
Il dolore era sempre più forte con il crescere della luce, che adesso inondava gli spazi portata da qualcosa di aereo. Cos’erano quelle forme indistinte? Lucciole? Erano lucciole quelle che vedeva? Non le aveva mai incontrate in sogno ma era come se facessero parte di lui. Udì dei suoni orribili che rimbombavano nel suo cranio e di colpo il reliquiario, le tarantole, ogni forna di presenza ostile o amica, parve dissolversi.
Quando aprì gli occhi vide che c’erano delle donne attorno a lui che lo vegliavano.
“Chico mi senti?”Chiedeva una di queste. Era lei che gli teneva aperti gli occhi con le sue dita callose.
“No…nna…” riuscì a malapena a pronunciare Alvino.
“Non c’è la tua nonna piccolo”.
“come ti chiami?”
“hhrrrrrrrr”
Non riusciva bene ad articolare, come fosse rimasto muto per tanto tempo.
“non riesce a parlare” disse la donna che gli aveva spalancato gli occhi.
“E’ il nipote di Donna Aurelia” aggiunse Esmeralda.
“guardate, piange”
“Non è lontana tua nonna, chico, è laggiù, non piangere; presto si rimetterà”.
Alvino si sentì calmo, fece un respiro profondo, rassicurato da quelle parole. Due lacrime scesero, senza dolore.
Chiamate don Erminio, il ragazzo ha la testa spaccata.
Lo pulirono del sangue con una pezza imbevuta d’acqua. Esmeralda lo accarezzacva e gli cantava sottovoce una specie di ninna nanna. Ed era una situazione irreale perché poco distante il medico contrastava i federales che avevano arrestato Felix.
L’alcalde si godeva lo spettacolo di uno scompiglio che metteva a soqquadro le precarie condizioni di lavoro. Era quasi orgoglioso di essere riuscito nell’impresa di disturbo. Anche se il suo ruolo gli imponeva un’espressione accigliata che a malapena dissimulava un sorriso sprezzante.
Anche Alvino sorrideva, gli occhi chiusi, ignaro di tutto quel trambusto. Poi ebbe un sussulto e parve rinvenire. Aveva l’aria spaventata di chi vuole sfuggire a un sonno febbricitante.
Don Erminio parlamentò con l’alcalde. Era riuscito a fatica a sedare l’ira dei campesinos che subivano l’arrivo dei bracconieri come un affronto. Esmeralda e le altre donne udirono poche distinte parole, pronunciate quasi sottovoce:
“ Autorizzi il trasferimento di morti e feriti, o sarà peggio per tutti”.
Stavano giocando con il fuoco entrambi, dottore ed Alcalde, e ne erano consapevoli.
L’alcalde non poteva mettere a repentaglio il precario equilibrio politico, che aveva mostrato tutti i suoi limiti pochi giorni prima. D’altra parte era uomo pratico, sapeva riporre il suo rancore nell’armadio dei buoni propositi per liberarlo come una belva feroce quando ne aveva occasione. E dato il suo potere ne aveva spesso occasione.
I bracconieri erano poco più che una presenza folcloristica da quando la loro guida era stata decapitata. Ma questo dettaglio, che era d’altronde chiarissimo nella visione dell’alcalde, fu valutato come si valutano i guanti usati, con quell’indulgenza di chi si affeziona ai ricordi e non vuole ammettere che la funzione principale di un oggetto è forse oggi sfumata.
D’altra parte don Erminio sentiva un senso di oppressione che gli sembrava insormontabile. Aveva bisogno della sua musica, del suo Mozart per sopportare lo sfacelo e la distruzione che lo circondava. Si sentiva mancare il respiro al pari dei suoi pazienti, perché, a dispetto di una fede che credeva incrollabile oggi si domandava quale Dio avesso potuto permettere una simile sofferenza.
Era uomo di esperienza e aveva imparato a conoscere i momenti del dubbio, erano questi che gli avevano suggerito delle scorciatoie. Nell’arte ritrovava la grazia e in questa un nuovo fiato che gli consentiva perfino di riconciliarsi con il suo Dio. Di sopportarne meglio la violenza inaudita, quando questa bussava alla sua porta.
Si consolava anche, con la conoscenza dei testi sacri indù che avevano definito Shiva come “il tremendo”. Il Dio distruttore eppure dolcissimo, che gli aveva insegnato qualcosa sull’amore. Sul fatto che amasre non è solo nettare o indulgenza, ma anche, talvolta, furore.
Questi pensieri sferzarono i tempi, che parevano addormentati in una pausa eterna, e gli imposero di tornare al suo lavoro.
“ Autorizzi il trasferimento di morti e feriti, o sarà peggio per tutti”.
In seguito a quella frase era seguito un silenzio sostenuto da un accanito scambio di sguardi, talmente accanito che nell’interpretazione di alcune tra le donne presenti c’era perfino ferocia.
Don Erminio si allontanò per tornare al suo lavoro, lasciando l’alcalde a tirare su un poco di tabacco da naso dalla sua tabacchiera d’avorio e madreperla.
Si accostò, Don Erminio e tastò il polso di Alvino. Poi osservando meglio le ferite sul suo volto e sulla cute del cranio chiese:
“Ciao Alvino. Cosa ti è successo?”
“ As…tor?”
“Non lo so piccolo”.
“hai la testa spaccata, dove hai battuto?”
Ma Alvino non rispose. Si sentiva al sicuro adesso. Aveva solo bisogno di raccontare il sogno a sua nonna.
“dov’è no…nna?” chiese
“ ha fatto un lungo viaggio, come te, adesso sta tornando.” Disse il medico con voce roca.
19 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 42
Si alzarono lentamente, come richiesto, e tennero le mani bene in alto
per non mostrare la minima ostilità, Vladymir e il bambino (come lui
si ostinava a chiamarlo a dispetto di una maturità fuori del comune).
Il picaro era furioso, detestava essere interrotto mentre leggeva i
suoi amati libri, ma forse anche a causa delle due armi spianate si
sentì meno offeso di altre volte.
"Cosa volete da noi? Non abbiamo danaro, se è questo che cercate."
Disse con la sua voce più suadente.
"L'aria di morto di fame ce l'hai tutta ma anche quella del damerino,
se è per questo".
"Ti credi furbo? Noi odiamo i furbi, che si sappia".
"Già. Li appendiamo al ramo più alto di solito, a prendere un poco d'aria"
"Non siamo nati ieri, fratello. Molti riccastri recitano la parte del
miserabile per sfuggire ai predoni, specie se viaggiano".
Parlavano con l'incedere di una mitraglia, sparando le loro minacce
quasi che recitassero un testo già scritto. Erano professionisti,
questo fu subito chiaro.
"E poi quel bel cavallo può fruttare qualcosa, altrimenti si trasforma
in bistecche".
"Ho un certo appetito, Bull"
"Anche io, Jason".
I due forestieri, apparentemente dei bracconieri inglesi, in mancanza
di prede mannare si erano distaccati dal gruppo dei loro consimili per
darsi alla libera impresa criminosa. Depredavano ciò che trovavano e i
campesinos avevano cominciato a segnalare la loro presenza, tramite
messaggi diffusi con ogni mezzo. Il loro arrivo era preceduto da
imposte chiuse e porte ben serrate, dato che erano noti, i due, per la
loro condotta efferata. E questo li aveva resi ancora più decisi e
crudeli. Pochi giorni prima a Su Spantu erano penetrati in una casa
isolata. Ma non c'era praticamente nulla da rubare. Si erano quindi
seduti a tavola e impiccato l'uomo avevano costretto la donna a
servire loro il pranzo. Poi avevano dato fuoco alla misera abitazione
chiudendo lei dentro.
Le loro risa avevano eccheggiato per la valle.
Ed erano state udite dalla povera gente del circondario. Il
malcontento si era diffuso rapidamente e i federales del luogo avevano
chiesto autorizzazione scritta all'Alcalde per mettere una taglia
sulle teste dei due gringos.
Non che fossero troppo dispiaciuti delle scorribande, i federales,
dato che contribuivano a seminare il terrore e questo, si sa, è amico
del potere. Era solo che il troppo stroppia e i campesinos
minacciavano di insorgere in una personale caccia all'uomo, il che
avrebbe reso ingovernabile la regione per un pezzetto e messo a
repentaglio la comoda posizione del capitano La Cruz, che preferiva
coltivare rose nere piuttosto che mangiare polvere in groppa al
cavallo di ordinanza.
Quando i due si avvicinavano a Herr Doktor con fare non esattamente
pacifico Elmer raccolse tre sassi della dimensione di un pungo e
cominciò il suo gioco di funambolo.
"Noi uomini di circo"
"Noi povera gente"
"Lasciare noi andare, noi non disturbare nessuno"
Vladymir Andrey Rostropovitch guardava con una certa ammirazione lo
spirito di iniziativa del ragazzo che si dava da fare per
salvaguardare la sorte comune. Era un piccola sopresa continua questo
ragazzo, che procacciava il cibo e si muoveva, a tutti gli effetti,
come un adulto.
"Ehi, ci sa fare il marmocchio" disse Bull compiaciuto.
"Bull, non siamo qui per intrattenerci. E poi la vecchia ha sparato
dei colpi di fucile. E tu non vuoi che arrivino fin qui i federales,
vero?"
"Al diavolo i federales, la più vicina caserma sta a dodici miglia da
qui, come credi che possano sentire?"
Mentre i due discutevano Vladymir cercava di comprendere come si
sarebbe evoluta quella ennesima situazione di pericolo. Da una parte
lo addolorava la possibile separazione con Herr Doktor; erano vecchi
compagni di strada da diversi anni oramai e lui in quel cavallo aveva
un amico. Un ascoltatore fedele delle sue lamentazio, un discreto
conversatore (Vladymir era convinto di comprendere il senso dei suoi
brusii e nitriti). D'altra parte si sentiva mortificato, al pensiero
che l'ultima galoppata potesse concludersi su una griglia. Non era
certo meta prestigiosa od onorevole questa.
Il nodo di questi pensamenti gli serrava (metafisicamente) la
gola. Vlad cercava il momento propizio per estrarre le sue colt dalle
fondine ascellari; ed evitava accuratamente di ipotizzare cosa mai avrebbe potuto
succedergli (fisicamente) qualora i due mantenessero la parola di
appenderlo al ramo più alto a prendere aria.
Francamente ne aveva abbastanza di tutti questi attentati al suo osso
del collo. Gli pareva impossibile che ogni sorta di sconosciuto non
avesse altri pensieri se non quello: impiccarlo.
In quel momento preciso Elmer scagliò le tre pietre con violenza
inaudita. Una fracassò il lobo temporale di Bull facendo fuoriuscire
l'occhio sinistro. Bull crollò a terra come un sacco di patate.
Jason non ebbe neppure il tempo di accorgersene dato che due pietre
gli spappolarono il volto, meno di un secondo dopo. Svenne tirando il grilletto del suo fucile.
Un colpo secco che spezzò alcune frasche di ulivo.
"Accidenti ragazzo"
Elmer frattanto si impossessava dei fucili e nel farlo prendeva a calci i corpi
dei due bracconieri svenuti.
"And now? And now? And now?" chiedeva rabbioso.
Vladymir, con un certo sgomento, notò la ferocia della quale il
piccolo era capace.
"Andiamo ragazzo, andiamo. Non c'è tempo".
E afferrando il braccio di Elmer la sua schiena di picaro fu percorsa
da un brivido. Sentì che quello che aveva scambiato per un bambino
non era poi l'essere innocente che lui aveva immaginato. A dispetto
delle sue scienze, delle sue leggendarie intuizioni, Vladymir aveva
probabilmente sbagliato valutazione, e in questo ebbe conferma. Stava
invecchiando, era ora di fermarsi: vide, negli occhi di quella
creaturina che adesso gli sorrideva una realtà che non avrebbe voluto
conoscere: Elmer aveva già ucciso.
Montarono a cavallo di Herr Doktor; adesso avevano anche due fucili,
si sentivano più sicuri. Vladymir era bravo a trascurare i suoi
pensieri funesti e quella volta, eccezionalmente, decise di mettere a
nanna perfino i suoi presagi, che di solito lo guidavano come una
stella polare. Tirò il fiato e si concesse un lungo sorso di ottimismo
(unico sorso possibile dato che avevano le borracce vuote).
Voltandosi verso i due corpi esanimi disse con il suo solito tono:
"A shaynem dank in pepek!"
E tutto fu coperto dallo scalpiccio degli zoccoli.
17 settembre 2006
ARGENTO! capitolo 41
Fissava donna Aurelia che respirava con un filo di fiato, il colorito cinereo. Ed era come imbambolato, perso nei suoi pensieri più remoti, don Erminio, cercando nel volto immobile della donna le espressioni di un tempo.
“Dottore. Ne hanno portati altri sette”.
“Sì, arrivo”
“Beva questo, Don Erminio, la rinfrescherà”.
Esmeralda preparava l’infuso di menta e ghiaccio più buono di tutta la regione, ne aveva portato una brocca, da Coloriu Arrubiu.
“lasciatelo respirare, non vedete che è stremato?”
Il dottore bevve, ancora assorto nei suoi pensieri.
“Vuole assaggiare le panadas? Mangi almeno un biscotto di anice, se no”.
La guardò con gratitudine, per un attimo e lei si sentì autorizzata ad aggiungere:
“ Non ha mangiato nulla tutto il giorno”.
“Grazie, ma ho lo stomaco chiuso”.
Fu mentre si avviava che vide in lontananza i bracconieri arrivare con la loro aria compiaciuta.
Tutt’intorno gli schiamazzi erano ripresi, anche se in tono minore. I latifondisti però, notando quel drappello di smandrappati, con i loro cani da caccia e i fucili, si rianimarono e ripresero a rumoreggiare più forte di prima.
“venite a divertirvi anche voi”. Urlava Ilario Ramirez, uomo forte della North American Cultivations, completamente ubriaco.
“manco a organizzarlo ci si riesce a fare uno sconquasso del genere”
“ però, che buona idea, potremmo darci da fare con la dinamite già che ci siamo”.
E giù a ridere a crepapelle. Erano come dei bambini troppo vecchi e troppo viziati cui un padre incosciente avesse regalato un giocattolo pericoloso.
I bracconieri, di solito piuttosto propensi a fare bisboccia alcolica, sembravano impegnati a darsi un contegno, per difendere forse la missione augusta che cullavano nel buio delle loro insondabili menti.
Da quel drappello si staccò Harvard Muybridge, l’avaro, che in veste di capo pro tempore desiderava parlamentare con l’autorità costituita.
Fischi e urla ripresero, mentre tutto questo accadeva, e l’alcalde, febbricitante, vedeva il nuovo frastuono come una rivalsa nei confronti di tutta quella disgustosa operosità. Detestava Don Ermino e la sua capacità di rendersi utile, addirittura indispensabile talvolta, e perfino amato, da quei poveretti che invece consideravano lui, nel migliore dei casi, come un male da subire.
Il capo dei bracconieri avanzò impettito ma fu fermato da un soldato.
Non perse la pazienza e fissò l’alcalde, da lontano, senza dire una parola.
“lasciatelo passare”, fu accontentato.
“Thank you, Eccellenza”.
Quindi, assumendo posa di qualcuno, che avendo dote di enorme discrezione e riservatezza si trova tuttavia costretto dalle circostanze gravissime a rivelar segreti ad autorità superiori, si accostò e prese a bisbigliare qualcosa all’orecchio di Sua Eccellenza.
“ah beh, hm, capisco.”
L’alcalde annuiva e sorrideva, aspirando del tabacco da naso. “Però, veda, non so. Questione di opportunità. Comprenderà…”
E bisbigliava solerte, con rinnovata foga e piglio certo, Harvard Muybridge, tanto che si sarebbe detto che cominciasse ad arrossire.
“Ah se prendiamo in esame questo…”
“andiamo Eccellenza…” sembrava soggiungere il bracconiere inglese.
Un concertino di sopraciglia arcuate e distese e aggrottate sembravano insistere, sibilline, a tal punto che d’un tratto fecero vacillare la fermezza di Sua Eccellenza.
“E sia”. Disse l’alcalde, con tono regale.
Tutto questo si svolgeva ben poco distante dalle donne che aiutavano ad assistere i malati. Dignitose nelle loro vesti bianche abituali apparivano, in quella circostanza, come un esercito di crocerossine, ordinate e attente ad assistere gli sciagurati scampati da quell’incredibile dissesto.
Creavano quasi una barriera tesa a proteggere la concentrazione di Don Erminio da tutto quel frastuono indecoroso; a negare l’evidenza di una esistenza crudele che aveva assegnato ruoli diversi a seconda del censo: chi faceva e chi assisteva, come in un palco d’opera.
Era lo spettacolo della vita e riluceva in tutto il suo splendore illuminato dai raggi dorati di un sole convalescente, che cominciava a sentire il vigore di un tempo.
Le donne, seppure impegnatissime, avevano notato i movimenti dei bracconieri e il confabulare discreto dell’alcalde. E non erano passate inosservate le numerose occhiate, non ricambiate, che Harvard Muybridge aveva rivolto in lontananza al dottore.
Ma avevano attribuito quei cenni del capo e quegli sguardi a un timido, insospettato, motto di gratitudine. Il dottore era colui che aveva salvato in extremis “sir” Colmish, era dunque logica almeno una certa qual curiosità, se non si è capaci di mostrare una qualunque manifesta riconoscenza.
“Dottore il caldo diventa soffocante”.
“felix ha ragione dottore”
“si dobbiamo fare qualcosa, spostare i feriti, e sgombrare i cadaveri”.
“L’alcalde dovrebbe provvedere ma se ne sta a chiacchierare”. Non temeva i federales Esmeralda, che era stato presa e torturata diverse volte. Poi in quella guerra di uomini pure loro si erano stancati e avevano accettato le opinioni avverse di quella femmina disgraziata come si accetta l’inesorabilità dei moscerini con il caldo.
“Adesso vado a dirgli due parole”
Non c’era un momento da perdere e mentre Harward Muybridge, l’avaro, si riuniva ai suoi bracconieri con fare soddisfatto Don Erminio approcciava l’alcalde.
“E’ necessario che ci muoviamo da qui”
“ah sì? E chi lo ha deciso?”
“il sole è già alto, con il caldo i corpi andranno in putrefazione rapidamente e i feriti soffriranno. Non abbiamo quasi più scorte d’acqua e ho bisogno di lavorare in condizioni meno sfavorevoli”.
“Crede che sia uno scherzo trasportare questo centinaio di corpi dottore?”
“No. Non lo credo”.
“Io stesso sono sofferente, le ricordo che sono ancora convalescente , ma il dovere mi impone di mantenere la calma e di ponderare le scelte più assennate”.
“ E’ lei l’autorità. Ma, da medico, le posso dire che se vuole evitare un’epidemia e delle morti inutili è indispensabile che autorizzi lo spostamento di morti e feriti.”
Soppesava le parole perché aveva capito che in una inutile guerra di ego chi avrebbe avuto tutto da perdere erano i campesinos; a un uomo come l’alcalde piace prendersi i meriti quando ve ne siano sul tavolo delle probabilità piuttosto che assumersi responsabilità faticose.
quindi aveva scelto la formula dell’Autorizzi piuttosto che quella più adatta di “disponga” nella speranza di alleggerire la cosa. Era Erminio che disponeva e l’alcalde che autorizzava. In caso di errore la responsabilità era tutta del dottore.
Su questo contava Don Erminio.
Fu mentre parlamentavano e si studiavano in un gioco virile di sguardi quasi messicani che un urlo fece breccia in quel silenzio irreale.
“Cosa stai facendo razza di bastardo!”
Felix afferrava il polso di Harward Muybridge. E lo stringeva con tutta la sua forza poiché quello impugnava un pugnale dalla lama d’argento con il quale aveva appena accoltellato un cadavere.
“sono già morti cosa vi importa?” farfugliò Harvard Muybridge.
“maledetti neppure i morti lasciano in pace” disse Esmeralda sotto voce.
L’alcalde fissava ancora il dottore, con un sorriso di disprezzo si voltò verso Felix.
“abbiamo un patto. La città di Mammarranca si è impegnata a ricompensare a peso d’oro chiunque ci porti l’uomo lupo. I cacciatori inglesi vogliono solo sincerarsi che il lupo mannaro non sia tra questi morti.”
“ e cosa cercano di fare?” chiese Don Erminio.
“Semplicemente infilano nel cuore una lama d’argento, se il corpo si trasforma o decompone rapidamente è il segno che hanno catturato l’uomo lupo”
Felix sputò per terra e sferrò un pugno sul naso a Muybridge, che lasciò cadere il coltello. Ma i bracconieri e i cani gli furono addosso. E cominciò il parapiglia.
13 settembre 2006
5
cosa contiene questa nuova edizione di 5? In più, rispetto allla prima, contiene un capitolo di extra e una postfazione.
Si racconta tutta la vicenda editoriale, cosa 5 è diventato in termini di "racconto nel racconto". Gli incontri che ha portato, le diverse vite e vesti del libro, e si comparano i montaggi cambiati, le sequenze tagliate e quelle rifatte. Ci sono numerosi disegni e studi inediti. Nuova copertina e veste grafica. La coperta l'ho fatta io interamente, anche se Mucca Design si attribuisce la grafica. E il retro (graficamente discutibile) è quello della collana rizzoli.
Il formato compatto è quello di Black (17 X 24 centimetri), la grammatura della carta è 140 grammi: superiore di venti grammi rispetto all'edizione classica e di grande formato realizzata da coconino.
12 settembre 2006
diario di bordo
Andare dal veterinario. Kubrick, la biografia. Annotazioni su ARGENTO (è per questo che ancora non imbuco i nuovi capitoli, ne ho tre da verificare). Struttura. Madeleine Peyroux, Eels dal vivo.
Appunti per il seguito di 5. Sarà, come forse qualcuno ha letto, una trilogia. Alligatore, andare avanti.Chiudere casa, aprire guardaroba autunnale. Pensare a Lucca.
11 settembre 2006
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