24 dicembre 2012

la ballata di Steve Ditko

Ogni giorno, metodicamente, si reca nel suo modesto studio di Midtown est e si siede al tavolo per otto ore. Oggi ha ottantacinque anni. Non concede interviste ufficiali dagli anni Sessanta, e anche all'epoca rispondeva alle domande solo per posta. Non frequenta i festival, né si fa fotografare, le poche immagini che circolano di lui sono di cinquant'anni fa.
E' Steve Ditko, una leggenda vivente, il creatore dell'uomo ragno.Questo artista ha fatto della riservatezza una forma estrema di clausura, della devozione al lavoro una sorta di fede. Non si è mai sposato, non ha figli, né amici. Il sua misantropia fa pensare a J.D. Salinger o a Thomas Berhard. E sì che, all'uscita in pompa magna del nuovo film hollywoodiano di Spiderman, nel 2002, avrebbe potuto rivendicare la paternità del personaggio, richiedere un risarcimento. Eppure niente, non ha mosso un dito. Non è interessato al danaro né alle luci della ribalta, a lui piace disegnare. Punto. Per questo, probabilmente, oggi, noi tutti, sappiamo che l'uomo ragno è frutto delle fervida mente di Stan Lee, mentre ignoriamo chi sia Steve Ditko. L'importanza di Lee (al secolo Stanley Martin Lieber), non è in discussione: è stato il genio dei comics, un grande innovatore, che portò al genere dei super eroi una dimensione umana. Ma qui parliamo del reale apporto del suo co-creatore, partendo dalle parole dello stesso Ditko: “quando tu hai un idea, quella è un idea. Ma se la realizzi, la fai vivere, allora c'è un personaggio, un universo”. Intendeva che Stan Lee aveva avuto la pensata di un ragazzo che si arrampica per i muri, e poco più, quello era l'uomo ragno. Mentre il suo lavoro non si limitò certo a mettere in forma grafica quella semplice idea. Ma creò fu un vero e proprio mondo di relazioni, uno sguardo intimista compiuto, degno di un grande storyteller. Ditko. figlio di emigranti russi, crebbe nell'area industriale della Pennsilvanya. Suo padre all'epoca della Grande Depressione lavorava in un mulino. Sin da bambino Steve mostrò segni di una precoce manualità, durante la guerra costruiva modelli di aerei nemici per aiutare gli avvistatori. Poi la scoperta del fumetto, l'amore per le pagine sinuose di Will Eisner, creatore di Spirit e l'iscrizione alla prestigiosa New York School of visual arts, che all'epoca si chiamava ancora Cartoonist and illustrators school.
Fu allievo di Jerry Robinson, inchiostratore di Batman. Il metodo di Robinson era quello di mettere in condizione i suoi allievi di pubblicare il prima possibile. “solo vedendo i tuoi lavori pubblicati puoi capire cosa funziona e cosa no.” E così il giovane Ditko, classe 1927, si trova a esordire nel mondo della carta stampata nel 1953. Pubblica i suoi primi fumetti per la Crestwood publication e per la Harvey comics. Poi comincia a fare le copertine per diverse riviste di fantascienza della Charlton, casa editrice con cui collaborerà sino alla chiusura, nel 1986. Si fa le ossa, disegna inchiostra, in quella fucina del racconto disegnato made in USA che forma i suoi talenti in tutte le diverse mansioni. Questa esperienza sarà preziosa quando Steve Ditko, dopo il suo incontro con Stan Lee comincerà a immaginare le gesta di Spiderman e di Doctor Strange in un secondo momento. 1962. L'anno della Pop art, di Fluxus, di Dylan, che si stabilisce a New York. Sono i primi anni della Marvel comics Group, Stan Lee è scenegiatore capo, inventa una galassia di personaggi e affida a Ditko l'uomo ragno. Per prima cosa il disegnatore, che all'epoca divide il suo studio di Hell’s Kitchen 53 con un altro autore di fumetti, più giovane di un anno, Eric Stanton, propone un costume del tutto fuori dal comune, e, cosa inaudita, una maschera che copre interamente il volto. In quel modo Spiderman sembra quasi un alieno, i suoi movimenti sono dinoccolati, stranamente eleganti, come avrà modo di notare Alan Moore, suo devoto fan sin dall'età di 8 anni. Lee propone una pistola spara ragnatela, Ditko chiacchiera con Stanton che gli dice “perché non un apparecchio nascosto nel polso, sotto il costume?” Prende così fisionomia un gesto, quello dello sparare ragnatele dal polso, che diventerà leggendario presso generazioni di teen-agers. Ma non è tutto, per meglio capire il mondo di Ditko e quello che sta per avvenire, la sua seconda stagione, è bene sapere che Ditko scrive. Racconta. E infatti indaga, pagina dopo pagina, i rapporti familiari, le difficoltà esistenziali del giovane Peter Parker, concentrandosi quasi più su questo aspetto che sulle gesta atletiche dell'eroe in calzamaglia. Dal numero 10 non è più Stan Lee che scrive. Lui riceve le pagine disegnate e si limita a riempire i ballon con i dialoghi. Ma soggetto, sceneggiatura e disegno sono di Ditko. Nel numero 18 di Amazing Spiderman non compare l'uomo ragno in calzamaglia. Ci si aspetta una profonda delusione dai lettori teen-ager, e si scatena l'ira di Stan Lee che, dalle pagine della posta, scrive: “Molti lettori lo detesteranno di certo, il No. 18”. Al numero 25 i due non si parlano più. Al numero 38, all'acme del successo, Ditko lascia.
E qui comincia la vera leggenda. Una leggenda lunare e misteriosa.
The Question realizzato per la Charlton, un editore del Connecticut, che paga assai di meno ma ha fama di lasciare liberi gli autori, sembra rispondere alle esigenze quasi didattiche, del nuovo Ditko. Che frattanto ha cominciato a frequentare le teorie oggettiviste di Ayn Rand.
“La mia priorità in letteratura e filosofia è quella di definire e preservare l'immagine di un uomo ideale” afferma la Rand (al secolo Alisa Zinov'yevna Rosenbaum), nata a San Pietroburgo nel 1905, e convinta sostenitrice dei valori dell'individuo e delle forze razionali.
Poco dopo Ditko pubblica il nuovo personaggio: mr. A. “Non cercavano neppure di essere storie”, dice di Mr. A il famoso sceneggiatore americano Neil Gaiman. “C'è il bene, il male. Tutto bianco e nero. Niente zona grigia”. Ditko disegna, centinaia di storie, e scompare. I suoi giovani lettori non vogliono qualcuno che usi toni didattici. E' una sorta di suicidio artistico in piena regola. Ma un suicidio consapevole e rituale. Ditko persiste. Disegna, publica, e cala nella penombra. Ma diventa sempre più leggendario, come sottolinea lo stesso Alan Moore in un bel documentario della BBC, In search of Steve Ditko. Il creatore di Watchmen confessa che “Mr A ebbe una grande influenza sulla creazione del personaggio Rorschach, che ne condivide una feroce integrità morale”. Ancora oggi Ditko è imitato, mai eguagliato. D'altronde la stessa griglia grafica a 9 vignette, così tipica, sarebbe stata adoperata da Moore per la saga di Watchmen. Questa è la storia di Steve Ditko. autore di fumetti al di là del tempo che preferisce la compagnia dei personaggi a quella delle persone.

8 ottobre 2012

in ricordo di Anna P.

ieri era l'anniversario dell'omicidio di Anna Politkovskaja. La abbiamo ricordata in un incontro alla sala estense di Ferrara, insieme a Francesco Boille di Internazionale, e a Galina Ackerman, amica intima e traduttrice di Anna. Li ringrazio entrambi. Abbiamo parlato dei quaderni russi, in quella occasione. E mi ha scaldato il cuore e dato speranza, vedere che a molti, ancora, importa di quello che sta succedendo in terra di Russia. Per contro, ho letto con sgomento che, sempre ieri, Ornella Muti, Gerard Depardieu, E Gullit, il calciatore, sono andati a festeggiare in Cecenia il compleanno del dittattore Kadirov. Non c'è limite alla miseria umana.

16 settembre 2012

A come Agota

Confesso una certa simpatia per Alessandro Baricco. Non tanto per lo scrittore, che ho frequentato poco, ho letto di suo solo "Novecento" e mi è piaciuto, non conosco ancora molto altro di lui come romanziere. Il Baricco che frequento e che mi è vicino è il Baricco comunicatore. Di lui apprezzo l'affetto genuino e contagioso verso quella pratica che ha cambiato la mia vita: Il narrare. Così, oggi, tutto contento, leggo che si occupa, sulle pagine di repubblica, di Agotha Kristof. Inizio a leggere con il sorriso, poi qualcosa stride, man mano che mi avventuro nel ritratto che il buon Baricco delinea, di lei e della sua meraviglia: trilogia della città di K. Delusione cocente! La prosa spoglia e piena di umanità, scolpita da una scrittura rigorosa, e da un incedere narrativo implacabile che ha reso leggendario il primo quaderno della trilogia, diventa per Baricco "il libro più triste che abbia mai letto". Dico, tra me e me, "mamma mia, che lettura riduttiva e fuorviante". Cerca di redimersi, il cronista Baricco, è vero, ma si infila in una inutile dissertazione tecnica, da olimpiadi della parola, ("Provate a raccontare una qualsiasi storia, o a descrivere una situazione qualsiasi, usando praticamente il solo verbo essere. Vi regalo anche il verbo avere, se proprio non ci riuscite") mentre a chiunque abbia anche solo sfiortato una pagina di A. K. appare evidente che quell'uso parco degli aggettivi e del sentenziare laconico trasmette altro, la bellezza di silenzi e dolori interiori, così raro e stupefacente. Tutto questo, ad articolo finito non mi pare proprio che si colga. Quello che appare è un acrobata del racconto, greve. Per fortuna "non mediocre" (almeno quello)
Ma dov'è il Baricco che raccontava Cirano con un trasporto e una febbre tanto complici? Dove sei finito Alessandro? Pare che il Baricco comunicatore si sia assopito per lasciare la parola a un suo sosia offuscato. Ha senso dire che Salinger sembra uno scrittore per ragazzi al confronto (ma dico, caro Baricco, li hai letti Franny e Zooey, Alzate l'architrave Carpentieri e Il giorno ideale per i pesci banana? Non ti sembra che in quel modo "americano" si parli di cose sottili e invisibili, che sono assai prossime all'approccio della Kristof?). Mi sono risposto che quell'approccio "terra terra", quella fede cieca nella parola e nell'arte di raccontare, attrezzo così utile e duttile adoperato da Baricco tanto spesso, si sia trasformato in questo caso in una trappola. Incapace, come pare, di cogliere l'essenza di una scrittura feroce e spirituale, che ritrae le cose sottili, visibili proprio nello spazio tra una parola e un'altra. Dato che forse, nell'edificio narrativo, solidissimo peraltro, quello che dobbiamo seguire non è la perfetta geometria delle pareti, ma gli spifferi che soffiano freddi, raccontando un mistero indicibile, quello della vita, che è anche vita spicciola nel caso della Kristof. Come nel caso di Vonnegut, Agota è turbata da una tragedia insormontabile, un trauma che non evaporerà mai dalla sua esistenza. Quello di una donna che scappa, una notte del 1956, a piedi, per attraversare, in mezzo alle fucilate dei doganieri, il confine ungherese, con un neonato tra le braccia. Il sogno? Sfuggire alle rappresaglie dell'invasore russo. Anche se poi dirà che dopotutto sarebbe stato meglio un paio di anni nelle galere comuniste di 5 anni in una fabbrica svizzera.
Insomma c'erano tante cose bellissime da dire per suggerire che la Kristof va letta, senza esitazioni, se si vuole cogliere quello che la parola scritta apparentemente non può dire. Se si vuole comprendere come il particolare diventi universale. Per osservare come un racconto di un centinaio di pagine diventi un piccolo monumento tascabile. Caro Alessandro, mi sa, per usare il tuo linguaggio, che stavolta "hai toppato". Peccato. Un abbraccio. ti saluto. igort.

22 agosto 2012

scolpire la carta

Ukiyo-E' Haiku & Suspence. Si chiamava così il mitico libro che andavo a cercare ogni settimana alla libreria di via Garibaldi, a Cagliari, senza mai trovarlo. “arriva, arriva” dicevano. Era il 1975. E non arrivò mai. Lo aveva disegnato Sergio Toppi, che era un gigante. Il volume era una contemplazione grafica sul Giappone dei samurai con le loro armi e armature; un opera sinfonica di segni e colori che in poche pagine tramortiva il lettore. Puro epos. C'era tutto il suo repertorio di segni violenti, grossi, delicati, lievissimi che conferivano peso alle masse, sino a renderle quasi tangibili (la magia del disegno) e a queste Toppi alternava fondi bianchi, impalpabili, del tutto grafici. L'effetto era di una perfezione scioccante.
Quando 22 anni dopo, a Milano, fui premiato inseme a lui, mi sentivo come qualcuno che si trova lì per sbaglio. Da Toppi avevo imparato tanto, sin da ragazzo e mi ero reso presto conto che il suo cuore di disegnatore era un incastro impenetrabile, un forziere misterioso fatto di cose preziose e molto diverse. Cosa guardava Toppi? Sembrava spuntare dal nulla. Io lo spiavo, ci eravamo anche parlati ad Angouleme. Avevo visto delle cose sue, delle tavole stupefacenti, che pensavo vecchie, fantasticavao sull'età dell'oro, gli anni che furono, e invece le aveva appena disegnate. Era in forma il grande Toppi, e glielo avevo detto. Lui se la rideva discretamente, mentre tracciava una di quelle dediche che mandavano in visibilio i lettori francesi. Lo aveva rilanciato, Oltralpe, l'editore Mosquito, un minuscolo e puntiglioso editore che ha dato una seconda vita a diversi disegnatori degli anni Settanta italiani. Quella meravigliosa stagione del bianco e nero, di cui Toppi era un maestro riconosciuto e amatissimo. In Italia, si sa come siamo ritardatari noi a celebrare le nostre glorie, l'attenzione era venuta dopo, ma era venuta. E mi faceva piacere vedere il lavoro di questo immenso maestro esposto all'attenzione che meritava, dato che io ero uno di quelli che finito di leggere una storia la ricominciava a guardare. Ore trascorse su quei segni, per capire come faceva. Lui, che il pennino lo faceva cantare, aveva un bianco e nero che scolpiva gli spazi con stilizzazioni personalissime. E una composizione che teneva conto della grande scuola grafica degli anni 50. Stile, insomma. Aveva cominciato negli anni 60, sul Corrierino, a fare le storie del mago Zurlì, e poi era passato al Corriere dei ragazzi, mi ricordo che andavo in chiesa a procurami delle copie, non si trovava nei circuiti normali. E rimanevo scioccato a rimirare quei colori elettrici, che sembravano dipinti su vetro. Toppi aveva un gusto tutto suo per gli accostamenti.
Lui dialogava con le alte sfere del disegno. E parlava da pari con Schiele e Klimt, con Kirchner, per questo forse, quando approdò alle pagine prestigiose di Alter Linus, che pubblicava il fior fiore del fumetto mondiale, lui era a suo agio, aveva il suo posto. Oreste del Buono lo osannava, giustamente. E ne ammirava la modestia, che è tipica dei grandi. Qualcuno, in quegli anni ci provò perfino, a imitarlo. Ma fu chiaro per tutti che quella era impresa disperata. Perché Toppi era unico. E indimenticabile.

14 agosto 2012

il grande discreto

Era un gigante delle riviste da 20 cent, che io compravo dove potevo, nelle edicole delle stazioni o nei lungomare italiani popolati dai turisti. Eroi di serie B, non certo prime testate. Tor (come Thor ma senza l’h), fantasy preistorico derivato di Tarzan e SGT Rock, storie di guerra, con anacronistici eroi tutti d’un pezzo. Eppure Joe Kubert nell’industria dei sogni di carta di bassa lega, la carta chiamata pulp, da cui presero il nome i pulp magazine, aveva un posto di rilievo. Forse per via di quel suo tocco particolare, e di uno stile nervoso e personalissimo che lo rendeva immediatamente riconoscibile, qualunque cosa disegnasse. Era un grande, che sapeva tuttavia resistere alle lusinghe della tecnica. Non c’era compiacimento, lui amava l’arte della sequenza, il fumetto puro insomma. E si divertiva a creare pagine che pareva respirassero. Tagli lunghi in cui poteva contrapporre un volto a una panoramica, a creare quell’effetto mozzafiato che mandava in visibilio generazioni di teen-ager. Aveva il dono, faceva sognare. E io, nei miei giorni di ragazzo, ho sognato sulle sue pagine. A quell’epoca, erano i primi anni settanta, cresciuto con i fumetti americani, avevo capito che un grande autore non lo riconosci solo dal blasone che certi caratteri portano con sé. Potevi disegnare Batman ed essere una schiappa o potevi prestare il tuo ingegno su storie di seconda classe ed essere un grande. La partita di scacchi si giocava lì, dentro e tra i quadretti, nel modo di tracciare i segni, ma soprattutto nel modo in cui sapevi guardare a quello che raccontavi. E Kubert mi stupiva per quella sua sapiente vena di irregolare che lo caratterizzava. Lui, per esempio, aveva inventato dei segni lunghi che attraversavano i corpi, e quelli definivano non tanto le masse ipertrofiche che ai suoi colleghi interessavano tanto, quanto, semplicemente, la pelle. Il tessuto della pelle che si allunga e stira. Il che rendeva qui corpi in movimento molto umani, e molto eleganti. A quell’epoca, io non avevo neppure sedici anni e ammiravo le sue pagine senza sapere chi dietro questi nomi, spesso esotici (Kubert, Steranko, Kaluta, suoni non esattamente americani) si celasse. E quali storie di adattamento ed emigrazione quei nomi portassero con sé. Ma si formava, inconsciamente l’idea che questo tessuto fertile e creativo made in USA fosse lo specchio di un vero melting-pot culturale. Kubert apparteneva alla grande scuola realistica americana; classe 1926, cresciuto a Brooklyn in una famiglia di immigrati polacchi, aveva cominciato prestissimo ad appassionarsi al fumetto. Nel ’38, non ancora dodicenne, fu assunto come apprendista nello studio di Harry Chesler, con una paga di 5 dollari a settimana. “Una settimana, una pagina, e 5 dollari erano un mucchio di soldi a quei tempi”. Ebbe occasione di condividere quell’esperienza con talenti come George Tuska o Carmine Infantino che diventeranno artisti di nome nel firmamento del comic book. Poi, negli anni 50, la EC line di Harvey Kurtzman, creatore di Mad e di memorabili storie sulla guerra di Corea. Quella lezione rimarrà vivida. E quando la DC comics gli affiderà la serie SGT Rock, ambientata nella seconda guerra mondiale, Kubert darà il meglio di sé, pur disegnando a ritmi parossistici. Le sue pagine fanno dimenticare testi non sempre all’altezza con immagini che lasciano trasparire un terrore genuino per la guerra. C’è l’energia adrenalinica d’ordinanza, nei fumetti per adolescenti, ma in quel furore si insinuano dei sentimenti imprevisti, che sono il frutto di un temperamento drammatico con cui Kubert sapientemente dirige la propria matita. Ed è così che diventò un grande, facendo filtrare la sua personalità fortissima, malgrado le regole del genere, personaggi spesso minori o storie infarcite di retorica.
Anni dopo, forse memore dell’importanza che per lui ebbe l’iniziazione nello studio di Chesler, nel 1976, in compagnia della moglie, creerà la Joe Kubert School, per formare giovani talenti all’arte dello storytelling disegnato. La sua è la grande storia della leggendaria industria americana dell’enterteinment, fatta spesso di geni discreti e modesti, che fanno al meglio il loro lavoro e costruiscono la massa di quella che in quegli anni Wharol avrebbe chiamato argutamente Pop Art. Come Siodmak, o Siegel, Corman e tanti altri, nel cinema.
Così. anche quando il suo graphic novel, Fax da Sarajevo gli darà la statura di “autore” e poi in Italia verrà chiamato a disegnare un albo speciale di Tex, lui rimarrà, nel cuore di chi lo ha conosciuto negli anni della gloria, sempre come quello di Tor, di SGT Rock, o del Tarzan disegnato quando l’eroe della giungla era oramai un personaggio demodé. Ci ha lasciato un paio di giorni fa, Joe Kubert, poco prima del suo 86 compleanno. Rimangono gli albi consumati, reperti di un’altra epoca, con i colori sgargianti, e il sapore ancora vivido del sogno che ci ha regalato. Grazie Joe, fai buon viaggio.

12 luglio 2012

mattino

oggi, sul mattino. Giuseppe Montesano, lo scrittore, parla di pagine nomadi. un bell'articolo.

24 giugno 2012

doppio viaggio

Sul mio tavolo molti libri di mistica. Non è facile tentare una sintesi. Sfoglio i giornali, mentre cerco di fare il punto, e mi cade lo sguardo su un sottotitolo: torna a suonare la banda degli gnostici che scorticano il sapere con aforismi. Si parla di Sgalambro, di cui sto leggendo Trattato dell'empietà. Ha pubblicato un nuovo libro per Adelphi, Della Misantropia. Ne scrive Guido Vitiello sulle pagine de La Lettura. Leggo che René Girard riconduceva l'atteggiamento di alcuni intellettuali a un contegno infantile. "Il bambino offeso si chiude nella sua stanzetta e si convince do non aver bisogno di nessuno; dopo un po' la solitudine gli è insopportabile., ma per orgoglio non può ripresentarsi sorridente in salotto, allora, per attirare l'attenzione, senza ammettere la resa, deve compiere un gesto insolente, un delitto da piccola peste: la sua misangtropia ha un disperato bisogno degli altri. Trasponete tutto questo alla letteratura", diceva Girard "e avrete Lo Straniero di Camus". Misantropia. Posizione eterodossa rispetto al comune sentire. Questo, in fondo, lo stesso Sgalambro rappresenta, di fronte a filosofi più à la page. Sul mio comodino pascolano molti altri volumetti. E penso al viaggio di conoscenza che portò nel 1917 Gurdjieff e undici allievi, a piedi, attraverso il Caucaso. Ancora non lo sapevano i coniugi de Hartmann, al pari di molti altri intellettuali della Russia Bianca presenti in quella stramba comitiva di "ricercatori dello spirito", ma quel viaggio non era solo un viaggio iniziatico, fu anche la ragione per cui si salvarono dai bolscevichi. Gurdjieff abbandona la Russia che ora è in mano all'armata rossa, un'evasione degna di Houdini. Poi penso a Lev Trockij che viaggia in Europa, incontra Simone Weil, i due discutono della rivoluzione "non ci può essere rivoluzione di masse, se prima non c'è stata una rivoluzione interiore, dice Simone a Lev". Lei, che si è fatta assumere dalle officine meccaniche Renault per capire cosa sia la vita di un operaio, la cui salute rimarrà minata per sempre da questa esperienza, lei che frequenta ambienti anarco-comunisti, che affetta da tubercolosi, si aggrava per le privazioni auto-imposte, e muore nel sanatorio di Ashford nel 1943, a soli 34 anni. Simone è un faro del sentire (stavo per scrivere pensiero, ma quanto lontana è questa parola dall'eredità mistica di questo gigante). E Trockij in esilio che in seguito andrà in Messico, incontrerà Frida Khalo, ne diverrà amante, è anche lui un frammento di questo nuovo viaggio russo, che intreccia la mistica alla storia. D'altronde è noto lo stesso Gurdjieff era compagno di seminario di un certo Iosif Vissarionovič Džugašvili, in seguito noto con il nome di Stalin. I documentari russi dicono che Stalin, studente curioso, approcciò Gurdjieff per i suoi studi esoterici, gli chiese un oroscopo. Gurdjieff lo fece, e gli disse: "le tue carte prevedono un grande futuro, ma anche molto sangue, devi comportarti a modo, avere un codice morale molto forte per evitare di caderci". Le leggende dicono che Stalin smise di frequentare il suo compagno di studi e che da quel momento finse di essere nato un'altro giorno. Gurdjeff lo seppe: "Chi nasce due volte, morirà due volte", gli disse. E Stalin, effettivamente, ebbe due funerali. Ma questo ha poco a che vedere con la storia, riguarda soprattutto la letteratura alchemico-esoterica. Che è l'oceano profondo in cui nuoto in questi mesi.

25 maggio 2012

café de la paix

Tracce di Gurdjieff al Café de la Paix, a Parigi. Torno ancora una volta di fronte a l'opera, per parlare con i fantasmi del passato. I té con Svetlana, che mi raccontava come si faceva un tempo il té con il samovar, a parlare di Nijinskij e Diagilev. Cafè de la paix, all'epoca avevo letto qualche libro, ma non ricordavo che G. usava il café de la paix come suo ufficio parigino mentre installava a Fontainbleu il centro per lo sviluppo armonico dell'uomo. La Russia chiama ancora. Sarò all'altezza di rispondere?

8 maggio 2012

poche ore all'alba

tra poche ore, alle 18,30, si inaugura la mostra alla triennale. Gli ultimi anni: i viaggi, i disegni, i racconti, tutto sotto vetro. Mi fa quasi impressione vedere i quaderni nelle teche, le foto e i filmati, centinaia di disegni preparatori, le tavole, i documenti... non avevo mai avuto occasione di vederle tutte insieme queste tracce del mio pasaggio nei paesi dell'ex URSS.

25 aprile 2012

triennale

l'8 maggio inaugura una mia mostra alla triennale di Milano. La mostra si chiama come il mio ultimo libro, pagine nomadi, e racconta il lavoro di questi ultimi anni, e l'idea di narrare viaggiando. L'ha curata il buon Vincenzo Trione insieme ai suoi allievi dello iulm. E' stato un lavoro molto intenso e stimolante che mi ha permesso di meglio capire dinamiche e metodi che di solito vivo dal di dentro. Il volume di 176 pagine è lo specchio di questo lavoro di ricerca e osservazione; nel libro ci sono tantissimi materiali inediti e privati, appunti sul metodo, e disegni fatti in treno o in albergo,oltre alle storie a fumetti che andavo raccogliendo e che sto disegnando in questi ultimi mesi, dopo i quaderni russi. E la mostra è lo specchio di un work in progress, esperienza preziosa per me, perché viva. E' un pò come un'istantanea. A volte mettersi in discussione è doloroso, ma come diceva Tiziano Terzani, "se ti si parano davanti due strade, scegli quella in salita e ti troverai sempre bene". Siete tutti invitati.

24 aprile 2012

pagine nomadi



Terminato, dopo lunghe sessioni di lavoro, il nuovo libro. Pagine nomadi, un racconto nel racconto. Lo troverete in Libreria a Maggio. Buona lettura.

15 aprile 2012

sono qui


Costantinopoli un secolo fa, osservo le mie foto di documentazione e si attiva uno strano senso di appartenenza e di presenza quasi tangibili. Queste immagini mi parlano , ma non solo di un luogo e di un tempo remoto, mi parlano di me, di quello che sono e che probabilmente sono stato.

5 marzo 2012

Pavel




Pavel Florenskij era nato il 9 gennaio del 1882, a Evlach, in Azerbaigian, da madre armena. La sua infanzia nel Caucaso è fonte di tanti ricordi riportati fedelmente nelle lettere ai figli e alla moglie. Cresce in Georgia. Nel corso degli studi rivela una profonda attrazione per le materie scientifiche, a scuola però si annoia; è nella natura che i suoi interessi si risvegliano. Fin da piccolo la sua osservazione minuziosa dà origine a un metodo di studio e catalogazione, che gli servirà da adulto. Immerso nella natura, tra piante e minerali coglie il mistero che lo porterà, anni dopo, a una vocazione mistica molto importante. Il padre, ingegnere ferroviario, uomo di cultura molto rispettato, è figura di riferimento. La madre, austera e distratta, rimarrà per sempre come un vuoto nella sua vita.
Si laurea nel 1904 all’Università a Mosca in matematica e fisica, avendo avuto come maestro N.V. Bugaev, uno dei più eminenti matematici russi dell’epoca.
Subito dopo frequenta l’Accademia teologica di Mosca e approfondisce lo studio delle lingue antiche e delle scienze bibliche con risultati molto elevati.
Prende i voti, pubblica numerosi scritti di argomento teologico, filosofico, spirituale, ma non trascura le ricerche matematiche, sviluppa tematiche epistemologiche.
Dice di credere in una mistica scientifica, e in una scienza mistica.
Partecipa attivamente alla vita culturale moscovita pre-rivoluzionaria fatta di circoli simbolisti, società teosofiche, antroposofiche, che considera però distanti avanguardie artistiche.
Quando viene chiamato alla cattedra di Storia della filosofia, riscuote grande successo presso gli studenti e i suoi stessi colleghi.
In quell’epoca frequenta Anna Mikhailovna Giacintova che sposerà nel 1910. Sua moglie resterà al suo fianco per tutta la vita.
Una volta monaco presbitero indossa l’abito talare che non toglierà mai più, fino alla deportazione.
Nella Russia comunista quella tunica sarà fonte di grandi guai, ai congressi scientifici desta scalpore e inquietudine che un uomo di chiesa sia uno scienziato tanto influente.
Ma prima, negli anni che precedono la rivoluzione, la sua carriera ha un esito sfolgorante, viene nominato docente straordinario di filosofia, si interessa alla “storia delle idee”.
Insegna, approfondisce i suoi studi sul concetto di infinito nella logica simbolica e matematica.
Negli anni dal 1911 al 1917 dirige la prestigiosa rivista Messaggero Teologico di cui rinnova contenuti e impostazione.
Nel 1914 pubblica La colonna e il fondamento della verità, uno dei suoi testi più importanti. Saggio scritto in forma epistolare, oggi ritenuto la "summa del pensiero teologico ortodosso", e pietra miliare del pensiero filosofico-teologico contemporaneo.
Florenskij è a tutti gli effetti figura unica, pioniere di un nuovo orientamento di pensiero in campo teologico e scientifico, capace di contrastare l’avanzata del pensiero nichilista.
Dopo la rivoluzione russa, a differenza di molti suoi colleghi intellettuali che scelgono l’esilio, Florenskij crede nella necessità di rimanere in patria, al fianco di chi subisce soprusi e violenze. Questa sarà la sua condanna.
Diventa docente di "Analisi della spazialità nell’opera d’arte" e riesce, tra diverse difficoltà, a lavorare sino al 1924. Porta avanti la ricerca tecnico-scientifica nel settore della fisica e cura molte voci dell’Enciclopedia Tecnica. Collabora anche con l’Istituto Elettrotecnico di Stato.
Molto vasta la produzione scientifica che va fino al 1928. Poi il primo arresto. Interrogato nei tetri uffici della Lubianka, confessa sotto dettatura complotti inesistenti. In nessun interrogatorio accetterà di accusare i suoi colleghi o conoscenti, cosa invece molto diffusa all’epoca.
“Oscurantismo”, questa l’accusa con cui è incarcerato. Nel suo dossier viene subito catalogato come “soggetto socialmente pericoloso” e condannato al confino.
Arriva la depressione, lo sconcerto. Tre mesi dopo viene liberato in seguito all’interessamento di eminenti e influenti colleghi. La sentenza viene annullata. Una svolta nella sua vita, avverte il pericolo ma non vacilla. Pur avendone l’opportunità Florenskij rifiuta ancora una volta l’esilio a Parigi.
Lavora, studia e scrive ancora per qualche anno, circondato da una palpabile ostilità. L’ambiente intorno a lui è sempre meno accogliente, è chiaro, oramai è un uomo braccato dal regime. Un nemico del popolo.
Malgrado tutto, senza timore, si presenta alle riunioni scientifiche in abito talare.
Nel 1933 il secondo arresto. Nuove confessioni incongruenti sotto dettatura. Poco dopo la condanna terribile: dieci anni di lager e il trasferimento a Skovorodino, nella Siberia occidentale, dove comincia i suoi studi sul gelo perpetuo. Soffre perché gli sono stati portati via gli occhiali. È costretto a leggere e scrivere completamente incurvato sul tavolo. Lontano dalla famiglia invia lettere umanissime e rassicuranti, minimizza le proprie condizioni e la vita di stenti. Si preoccupa per le difficoltà economiche nelle quali, in seguito alla sua condanna, versa la famiglia. Poi, dopo anni, finalmente nell’estate del 1934 riceve la visita della moglie e dei tre figli più piccoli. Sarà l’ultimo incontro.
Il primo settembre dello stesso anno viene trasferito nell’arcipelago delle isole Solovki, la più terribile delle colonie penali, il gulag che dista soli 160 km dal circolo polare artico.
Le condizioni inumane e il progetto sistematico di annientamento della persona sono un duro colpo. Nelle Solovki si muore come mosche, regna il terrore, il dolore. Le fucilazioni sono all’ordine del giorno. E non sono solo i prigionieri a subire questa sorte. La macchina di sterminio sovietica elimina sistematicamente gli stessi ufficiali e militari. È un uso comune. Per tre anni, in queste condizioni spettrali, Florenskij studia brevetti importanti sull’estrazione dello iodio dalle alghe marine.
Ma è cominciato un lento e progressivo declino.
A soli 55 anni, l’8 dicembre del 1937 viene ucciso con un colpo alla nuca, assieme ad altri 500 detenuti nel bosco fuori Leningrado. La sua sorte verrà tenuta segreta per decenni. Fino ai giorni recenti, quando l’apertura degli archivi segreti dell’ex URSS rivelerà questa triste fine.
"Nulla si perde completamente, nulla svanisce - scrive in una lettera - ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo, anche se noi cessiamo di percepirlo".
La produzione di Florenskij è vastissima e spazia in tutti i campi: teologia, scienza, filosofia, letteratura, linguistica, arte, musica.
È tuttora considerato una delle menti più fulgide del Novecento.

4 marzo 2012

un sabato pomeriggio in libreria


5200 novità, l'anno scorso in Francia. Libri, numeri, giorni spesi a vivere, a disegnare, a scrivere. Il rischio dell'indifferenza è mortale. Per questo i librai hanno un ruolo determinante. Si gioca alla roulette russa delle idee, delle visioni. E se un libraio segnala "coup de couer du vendeur" significa tanto per un libro, un minuto di luce, prima dell'oblio.

3 marzo 2012

raccontarsi


Istituto italiano di cultura, Parigi. Sera, modeste narrazioni di viaggio per contagiare la curiosità su luoghi remoti dell'ex impero soviet, carichi di dolore e silenzio. L'abbraccio arriva, stordisce e motiva. Ringrazio e penso a Florenskij, a Marina Cvetaeva, a quanto hanno sofferto; interrogati ingiustamente da chi non era neppure capace di leggere i loro scritti. Destini esplosi nel nulla, che oggi rimbombano.
Peso, forma, talento e cuore.

9 febbraio 2012

paris under the snow



Fa -8 in questi giorni di Febbraio, a Parigi, ma ci sono luoghi caldi e accoglienti in cui si possono scoprire i libri. Ieri all'Atelier 9, poco distante da Gare de l'est, in compagnia di amici autori, dei librai e dei miei editori, ho fatto degli incontri inaspettati. Le storie ti vengono incontro, quando apri la porta del documentario disegnato. E tremi, quando ti capita di imbatterti in verità profonde.
Chi l'avrebbe detto, che dopo tanti anni, tanto viaggiare, il raccontare per immagini mi avrebbe portato questo?
E' proprio vero che, come diceva Pascal, le cose si nascondono allo sguardo disattento. Imparare a guardare, ad ascoltare, la lezione dei miei ultimi anni.