14 agosto 2012

il grande discreto

Era un gigante delle riviste da 20 cent, che io compravo dove potevo, nelle edicole delle stazioni o nei lungomare italiani popolati dai turisti. Eroi di serie B, non certo prime testate. Tor (come Thor ma senza l’h), fantasy preistorico derivato di Tarzan e SGT Rock, storie di guerra, con anacronistici eroi tutti d’un pezzo. Eppure Joe Kubert nell’industria dei sogni di carta di bassa lega, la carta chiamata pulp, da cui presero il nome i pulp magazine, aveva un posto di rilievo. Forse per via di quel suo tocco particolare, e di uno stile nervoso e personalissimo che lo rendeva immediatamente riconoscibile, qualunque cosa disegnasse. Era un grande, che sapeva tuttavia resistere alle lusinghe della tecnica. Non c’era compiacimento, lui amava l’arte della sequenza, il fumetto puro insomma. E si divertiva a creare pagine che pareva respirassero. Tagli lunghi in cui poteva contrapporre un volto a una panoramica, a creare quell’effetto mozzafiato che mandava in visibilio generazioni di teen-ager. Aveva il dono, faceva sognare. E io, nei miei giorni di ragazzo, ho sognato sulle sue pagine. A quell’epoca, erano i primi anni settanta, cresciuto con i fumetti americani, avevo capito che un grande autore non lo riconosci solo dal blasone che certi caratteri portano con sé. Potevi disegnare Batman ed essere una schiappa o potevi prestare il tuo ingegno su storie di seconda classe ed essere un grande. La partita di scacchi si giocava lì, dentro e tra i quadretti, nel modo di tracciare i segni, ma soprattutto nel modo in cui sapevi guardare a quello che raccontavi. E Kubert mi stupiva per quella sua sapiente vena di irregolare che lo caratterizzava. Lui, per esempio, aveva inventato dei segni lunghi che attraversavano i corpi, e quelli definivano non tanto le masse ipertrofiche che ai suoi colleghi interessavano tanto, quanto, semplicemente, la pelle. Il tessuto della pelle che si allunga e stira. Il che rendeva qui corpi in movimento molto umani, e molto eleganti. A quell’epoca, io non avevo neppure sedici anni e ammiravo le sue pagine senza sapere chi dietro questi nomi, spesso esotici (Kubert, Steranko, Kaluta, suoni non esattamente americani) si celasse. E quali storie di adattamento ed emigrazione quei nomi portassero con sé. Ma si formava, inconsciamente l’idea che questo tessuto fertile e creativo made in USA fosse lo specchio di un vero melting-pot culturale. Kubert apparteneva alla grande scuola realistica americana; classe 1926, cresciuto a Brooklyn in una famiglia di immigrati polacchi, aveva cominciato prestissimo ad appassionarsi al fumetto. Nel ’38, non ancora dodicenne, fu assunto come apprendista nello studio di Harry Chesler, con una paga di 5 dollari a settimana. “Una settimana, una pagina, e 5 dollari erano un mucchio di soldi a quei tempi”. Ebbe occasione di condividere quell’esperienza con talenti come George Tuska o Carmine Infantino che diventeranno artisti di nome nel firmamento del comic book. Poi, negli anni 50, la EC line di Harvey Kurtzman, creatore di Mad e di memorabili storie sulla guerra di Corea. Quella lezione rimarrà vivida. E quando la DC comics gli affiderà la serie SGT Rock, ambientata nella seconda guerra mondiale, Kubert darà il meglio di sé, pur disegnando a ritmi parossistici. Le sue pagine fanno dimenticare testi non sempre all’altezza con immagini che lasciano trasparire un terrore genuino per la guerra. C’è l’energia adrenalinica d’ordinanza, nei fumetti per adolescenti, ma in quel furore si insinuano dei sentimenti imprevisti, che sono il frutto di un temperamento drammatico con cui Kubert sapientemente dirige la propria matita. Ed è così che diventò un grande, facendo filtrare la sua personalità fortissima, malgrado le regole del genere, personaggi spesso minori o storie infarcite di retorica.
Anni dopo, forse memore dell’importanza che per lui ebbe l’iniziazione nello studio di Chesler, nel 1976, in compagnia della moglie, creerà la Joe Kubert School, per formare giovani talenti all’arte dello storytelling disegnato. La sua è la grande storia della leggendaria industria americana dell’enterteinment, fatta spesso di geni discreti e modesti, che fanno al meglio il loro lavoro e costruiscono la massa di quella che in quegli anni Wharol avrebbe chiamato argutamente Pop Art. Come Siodmak, o Siegel, Corman e tanti altri, nel cinema.
Così. anche quando il suo graphic novel, Fax da Sarajevo gli darà la statura di “autore” e poi in Italia verrà chiamato a disegnare un albo speciale di Tex, lui rimarrà, nel cuore di chi lo ha conosciuto negli anni della gloria, sempre come quello di Tor, di SGT Rock, o del Tarzan disegnato quando l’eroe della giungla era oramai un personaggio demodé. Ci ha lasciato un paio di giorni fa, Joe Kubert, poco prima del suo 86 compleanno. Rimangono gli albi consumati, reperti di un’altra epoca, con i colori sgargianti, e il sapore ancora vivido del sogno che ci ha regalato. Grazie Joe, fai buon viaggio.

3 commenti:

Unknown ha detto...

condivido in pieno.

CREPASCOLO ha detto...

Il mio primo Kubert è stato quello del Soldato Fantasma, il Milite Ignoto con la faccia coperta di bende che apriva uno dei pochi mensili della Editoriale Corno dedicati alla DC. Il mio primo JK era ed è ancora oggi Jack Kirby e non ho ancora, del tutto, superato l'imprinting del tratto stilizzato e di quelle greche che attraversavano le masse del corpo come dei riflessi sulla pelle del suo Kamandi, altra testata Corno/DC, ma ho sempre ammirato l'eleganza dei personaggi kubertiani. Lo zigomo del tizio che sale sul ring contro la vita ed al massimo vince ai punti. La chioma liscia e mai completamente doma di chi confonde Mike Bongiorno con il Torpedo di Bernet. Il lay out di pagina indiavolato di chi sa che quella cosa con cui ti confronti sul ring e che puoi al massimo vincere ai punti è una corsa sull'ottovolante vicino al drive in di un racconto di Lansdale. Mi ha sempre colpito che dalla sua scuola - se non consideriamo i figli Andy ed Adam che sono frutti non caduti lontano dall'albero - siano usciti cartoonists, mainstream e meno, tanto differenti come Tim Truman, Rich Veitch, Tom Mandrake e Jan Duursema. In questa valseriana in cui l'adsl è lontana come Pellucidar, leggo solo oggi che JK ci ha lasciati e, come direbbe Crepascolino, sono triste. So long, John.

igort ha detto...

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