15 maggio 2013

bazooka, les humanoides e gli altri

Nel 1980 frequentavo Nicola Corona, grande amico di Andrea Pazienza. La madre di Nicola abitava in via Saffi, a Bologna, e lui ci capitava di tanto in tanto. Così, in pratica, eravamo, per così dire, vicini di casa. Fu lui a mostrarmi per la prima volta le cose di Bazooka. Facevano molto effetto, anche perché il gruppo composto da Lou Lou, Kiki Picasso, Olivia Clavel, Kim Bravo e altri, aveva pubblicato un tabloid, e l'aspetto, naturalmente, non era proprio quello di un quotidiano, anche se era un alegato di Liberation. Se adesso ci penso mi pare un miracolo, un gruppo di avanguardia grafica che produce un tabloid, bellissimo. Ma era un finto tabloid, privo dell'elemento essenziale del giornale, i fatti. Le immagini, in quella versione Bazooka, spogliavano fatti della loro concretezza, figuravano scene spettacolari prese da riviste della scienza e della tecnica, ma anche dalle riviste di Gossip ecc ridisegnate in maniera glaciale. Segno freddo, teso al puro inespressionismo. Era il famoso “Freeze” teorizzato da Wharol ed esaltato dal punk. In quel senso di vuoto pneumatico l'esistenza sembrava denunciare la propria tragica, irrinunciabile, futilità. “I want to be a machine” cantavano John Foxx e gli Ultravox nel 1977. E quello stesso anno, l'anno del punk, ad accrescere il mito di Bazooka era uscito in Francia un albo nero, grande, bellissimo pubblicato da Fururopolis, casa editrice di culto. 30 X 40 cm. Titolo, semplicemente: Bazooka productions (e l'amore per le merci, i prodotti, a partire dalla “Tomato Campbell Soup” era un must per quella generazione senza guru). C'erano delle pagine a fumetti dentro l'albo Bazooka, ma si lavorava molto anche sull'immagine singola, l'illustrazione, che era utilizzata non per dare sfoggio di tecnica, cosa banale e già vista, quanto per fermare, ingrandire e mostrare nel suo aspetto effimero, degli scorci di quotidianità. Erano come fotogrammi di un film vuoto, che ci riguardava tutti, questo sembrava essere il manifesto dell'avanguardia nichilista, creativa e disperata che cantava in coro con i sex pistols “no future, no future”. Bazooka piaceva molto a Corona, che ne faceva la sua versione a colori, nelle storie pubblicate sui primissimi numeri di Frigidaire. Pareva davvero il membro italiano di quel gruppo fantasma, Corona, che era dotato di una tecnica moderna e volumetrica. Le sue prime apparizioni colpirono per quell'aspetto post-pop in technicolor. Era la stagione delle riviste, e allora, se facevi qualcosa, anche una piccola storia, nel posto giusto, al momento giusto, si parlava di te per mesi e mesi. Sempre a Parigi, a partire dal 1974, due disegnatori, uno sceneggiatore e un poeta amministratore (che fuggirà con la cassa, stando alle leggende) diedero vita a un piccolo miracolo editoriale “Metal Hurlant”. Come nel caso precedente erano autori che diventavano editori di se stessi. Anche se il nome dell'impresa era pieno di quella fantasia ironica che rappesentava la forza e al tempo stesso il limite dell'impresa. Si chiamarono Les Humanoides associeés, gli umanoidi associati. Druillet aveva pubblicato I sei viaggi di Lone Sloane, che raccoglieva le sue storie pubblicate da Pilote sin dal 1966. Lone Sloane era nuovo, unico, diverso da tutto quello che si conosceva sino ad allora. Il suo autore vantava influenze letterarie distantissime, per generazione e genere, da Lovecraft (maestro del racconto gotico degli anni 20) a VanVogt (controverso scrittore di fantantascienza anni 40), e che magicamente, in quelle pagine disegnate si miscelavano in modo efficace dando luogo a una rivisitazione del genere fantascientifico. L'approccio grafico era monumentale, quasi barocco se si vuole, Druillet amava i macchinari e gli edifici che popolavano quei mondi sconosciuti ricordavano vagamente i templi indiani o le cattedrali gotiche, il che gli valse in breve l'appellativo di “architetto spaziale”. A guardar bene il suo evocare civiltà remote e decadenti era profondamente imbevuto di quegli umori lovecraftiani che lo rendevano tanto distante dalla fantascienza sino ad allora praticata. Niente Scarlett dream o Barbarella, rappresentanti di una fantascienza lieve e all'acqua di rosa, le tavole di Druillet formicolavano di apparecchiature dai riflessi scintillanti e parlavano di un mondo in cui l'uomo è posseduto da solitudini divoranti. C'era un senso di vuoto metafisico e filosofico che forniva alle storie uno spessore inedito. Memorabili le pagine del robot agonizzante che canta le melodie dello spazio. Moebius che era un disegnatore affermato di fumetti western, con il suo vero nome Giraud, o Gir, aveva in mente anche lui di affrontare il fantastico con approccio filosofico, ironico, surrealista, che poi sarebbe diventato, con il tempo, esplicitamente più mistico. A questi si unirono presto altri talenti del firmamento transalpino tra cui Bilal per cui scrisse la saga spaziale “Sterminatore 17” Jean Pierre Dionnet, altro membro fondatore. Giornalista e scrittore, e direttore di Metal da subito. E poi Tardi, Gal, con le armate del conquistatore (sempre sceneggiato da Dionnet) e di lì a poco Chantal Montellier. Di Farkas, amministratore e poeta, si sa poco o nulla, è un personaggio discreto. Lascerà la rivista al numero 23 per fare fortuna lanciando il Cubo di Rubik sul mercato francese. Questi autori erano sensibili a quanto stava accadendo oltre oceano e presero contatto con un grandissimo visionario del Missouri, un autore capace di dare una concretezza fino ad allora mai vista a sogni e mostri, corpi e atmosfere, il suo nome era Richard Corben. La rivista, 68 pagine, di cui solo 18 a colori, prese corpo e cominciò le pubblicazioni trimestrali a dicembre, i numeri nascevano in una minuscola redazione situata in una tipica corte interna di un palazzo parigino, era davvero poco più che un garage. Mentre Bazooka che era un fenomeno camp, ironico, citazionista, con nessuna velleità di diventare popolare, scomparve come una cometa bella e luminosa del firmamento francese, Metal Hurlant e il suo mito si diffusero in una galassia di idee e storie che bene o male è giunta fino a noi. Fu Oreste del Buono a raccontarmi che li incontrò a Lucca, i fantastici 4 del fumetto, e, innamoratosi della neonata Metal Hurlant, strinse un accordo per pubblicare su Alterlinus il 90% del materiale. All'epoca Alter era mensile e Metal trimestrale, fu grazie alla solidità economica di questo accordo che Metal divenne mensile da un giorno all'altro. Il che trasformò Alter nella succursale di Metal ben prima che l'editore Roca ne facesse la versione italiana. Quando questa apparve in Italia, lo spirito di Metal, sebbene fossero passati meno di dieci anni, si era disperso. La rivista che ne aveva colto le istanze sperimentali e innovative, che incarnava quella cultura che si era evoluta nella cosidetta new wave, seppur con altre coordinate, era Frigidaire. E a noi tutti pareva che Totem o Metal versione italiana non fossero altro che gusci vuoti che presentavano senza un vero progetto delle storie prese più o meno a caso nel calderone. Fu chiara a tutti questa cosa, di Oreste del Buono ce n'era uno solo. Frattanto, dal febbraio del 1978, aveva visto la luce un altro faro del fumetto francese. La rivista (A suivre...), così con il nome tra parentesi, che era la dicitura tipica in basso in ultima pagina che chiudeva i romanzi a puntate, i cosidetti feuilleton. A suivre voleva dire “continua”. Si trattava di una rivista a fumetti il cui logo era stato studiato da Etienne Robial, sempre lui, grafico geniale e fondatore di Futuropolis, che aveva realizzato anche il logo per Metal Hurlant, poi saccheggiato da Fiorucci, per la cronaca. (A suivre...) si proponeva di sviluppare narrazioni a lungo respiro, storie a fumetti in cui il disegno non fosse la cosa dominante, ma che desse risalto all'aspetto narrativo. Oggi, e sono passati 35 anni, siamo qui. Si sta lavorando alle narrazioni a lungo respiro, le chiamano “graphic novel”.

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