13 giugno 2014
Tokyo, 12 giugno 2014
Ritorno a Jimbocho, a vedere cosa è rimasto dei posti cari. La velocità della vita a Tokyo violenta ricordi, spazza via luoghi fisici: una brutalità che lascia attoniti.
L'ascensore del tokyo kanda non si ferma al sesto piano, eppure ho premuto il tasto 6. Il negozio evdidentemente è chiuso.
La cabina si ferma al settimo piano, entra un ragazzo, imbarazzato. Ha un sacchetto che nasconde il suo acquisto al piano del porno. L'ascensore scende, lui guarda per terra. Usciamo, il tempo di fare una visita al grande negozio di libri antichi e lisi, ci sono delle belle maschere in vetrina, giacciono dentro scatole che hanno attraversato i decenni.
Mi perdo a osservare pile di libricini sottili, che sembrano quaderni di scuola, migliaia, uno sopra l'altro. Sono racconti, milioni di racconti che si intrecciano. A volte penso a questo fiume di storie, come le vedrebbe qualcuno di una civiltà aliena? Qualcuno che trovasse queste tracce del passato e pensasse: "ecco, questo era l'uomo, in Giappone, nel XX secolo". Speranze, lotte, desideri, delusioni, incertezze, viaggi, vittorie, sconfitte, catarsi.
La fabbrica del sogno non cessa di rinnovarsi. E lo fa attraverso quanto di più semplice l'uomo disponga, la sua voce, la sua capacità di tracciare dei segni, delle forme.
La scrittura giapponese in questo è il perfetto equilibrio, tra segno e parola.
Uscito mi imbatto in un negozio di pennelli per la calligrafia.
Rimango dei minuti, ad ammirarli. Sono così belli, puri, puliti, ancora con la chioma chiara, di chi non è mai stato intinto nell'inchiostro.
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