22 giugno 2014
Tokyo, 22 giugno 2014
Nel suo bell'appartamento al dodicesimo piano, vicino a Kudanshita, Giorgio mi mostra una meravigliosa edizione firmata di Ba ra kei. Ordeal by roses. Il libro di Eikoh Hosoe, che raccoglie le immagini delle sessioni fotografiche in cui Yukio Mishima posò, interpretando vari ruoli, tutti tragici e decadenti. Sono le foto a cui pensiamo quando pensiamo a Mishima. Un lascito, una porta su un mondo altrimenti esplorato in varie altre forme e con varie narrazioni. Tutte degne di nota.
E stamani, verso le 4, rivedo Yukoku, (憂国, Patrottismo). Il dramma filmato che Mishima interpretò e diresse nel 1966. Quattro anni prima di togliersi la vita.
Nel film, dalla regia stlizzata e teatrale, anticipa il suo suicido rituale.
E mostra la morte, in tutta la sua fatica fisica. Il bianco e nero sobrio è letteralmente sporcato dal sangue di questo corpo che non vuole morire.
Mishima, lo scrittore giapponese più tradotto nel mondo, cambia le regole del narrare in Giappone, intrecciando letteratura, teatro e cinema. Una figura complessa che mi fa pensare ad altre visioni artistiche, per certi versi simili eppure diversissime come quelle di P.P. Pasolini o Jean Genet che attraversanono i linguaggi con un senso di inquietudine forsennata, che pareva non trovar pace. Era la scrittura che si faceva corpo e che si incarnava, appunto, giungendo al regno del corpo, il teatro, e poi alla sublimazione metafisica di questo, il cinema, dove il corpo diventa un'ombra bidimensionale.
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