4 febbraio 2006

il racconto del lettore 2




riceviamo e volentieri pubblichiamo.
(Racconto di Cristiano Fighera. Illustrazione di Paige Pooler 2003.)

Il suono, questo suono, questo suono di violino, che sento, sentivo, sò di aver sentito, si è tramutato ora in un ricordo lontano, vago, indistinto, in nebbia rossa e dolore, in qualcosa che era, e non può essere, ed era, e non è. Steso, nel buio, un peso rotondo e sagomato sul petto, e un lento stillare - spillare - di liquido sconosciuto in basso, a destra, fuori di me. Alla mia destra quindi, dove suppongo essere qualcosa che non è io, ma è...altro. Per il resto, silenzio.
Ricordo solo, concentrandomi, un viale lungo, alberato, di quelli....di quelli che si possono chiamare viali, immagino, posto che ci sia un modo di definire un viale, e un viale piuttosto che un altro, e via così. E sto divagando, credo di stare divagando, forse si, me ne rendo conto, dovrei - dovrei - tornare, come si dice, in me. Divagando per non sentire che quella cosa rotonda e sagomata....Ma torniamo a noi, a voi, a me. Quel viale, gli alberi, il violino, sotto tutti intimamente collegati da un percorso solo, un filo di note che -appunto- si snoda e sorvola al città del mio ricordo, la città che ho lasciato? che sto raggiungendo? in cui vivo, ho vissuto, vivrò?
Lento stillicidio, se fossi in piedi - a arguisco quindi che non lo sono - verrei da te e ti chiederei per favore di fermarti, o perlomeno ridurti, o perlomeno trasformarti in un suono ritmato e deciso e sicuro e perfetto come quello emesso da un metronomo. Un tic, e tac, e tic, e tac, e tic, e tac e via così. Se sei in grado di capirmi, ovvio. Ma stiamo, come si dice, divagando.
Avevo una volta una ragazza, che aveva lunghi capelli dorati, e una treccia per tenerli insieme, e una schiena su cui farla roteare al ritmo simbolico dei suoi fianchi, dei suoi passi, e corte gonne pieghettate da studentessa, studentessa col fascio di libri raccolti al petto, tra le mani giunte come in preghiera, preghiera a me rivolta, affinchè ci fossi, restassi, rimanessi, la guardassi ti prego un'ultima volta prima di tornare indietro, fare le valigie, pagare la signora Hauser, lasciare la stanza senza un solo sguardo indietro, o forse solo uno, ad abbracciare la stanza....ma abbracciare no, troppo sentimentale, non adatto ad una chiusura, meglio "comprendere". Con un solo sguardo. Tutta la stanza.
Questo per assicurarsi di non aver lasciato niente indietro, aver raccolto tutto e non avere di che tornare (inutile seccatura!), e un ultimo sguardo sfuggente e fuggevole oltre i vetri della finestra lungo il viale, e gli alberi, e il fiume, laggiù in fondo, sospeso, silenzioso.
Ma stiamo divagando.
Questo oggetto rotondo e sagomato, che preme non più giù dello stomaco e non più su dei polmoni, mi rende difficile, capite, suonare, e muovermi, e respirare. Suppongo che ci sia una simbolizzazione inconscia dietro tutto questo, ma da dove nasca, cosa voglia, dove vada o voglia andare a parare, io proprio non lo so. Schiocco la lingua. Il suono rimbomba. Dovrebbe?
E, questo mio schioccare, questo mio produrre suono con nonchalance, è adatto alla circostanza? E non avrei dovuto forse produrre un suono migliore? Più adatto? Più aggraziato?
Avevo un violino, un tempo. Questo mi fa supporre di averlo suonato. E di averlo qui, accanto, vicino o lontano, in questo buio perfettamente nero. Se muovessi -potessi muovere - una mano, magari potrei addirittura riuscire a trovarlo, e suonare per voi. Potrei, magari, apparire in sogno ad un giovane che non sa di dormire, e con l'aria mesta che - si dice - tanto mi si addice, per lui suonare qualcosa, dopo aver estratto lo strumento, con contegno adeguato, come - lo so - è sempre stato, da sotto il suo letto.
Ma...questo a cosa dovrebbe portare? Siamo sempre e solo io, il buio, il perfetto silenzio, e....niente altro, perchè anche il liquido ha cessato ormai di cadere. Contegno, Signori, contegno! Ricordo una volta, alla Scala...Ma stiamo divagando.
Io, allora. Da sempre amante delle belle maniere, così serio e degno nel mio abito scuro, così adatto a star seduto nell'orchestra. Io, che ritorno a cena e poso la custodia sempre allo stesso modo, sempre nello stesso punto, sul tavolo nero, ancora prima di slacciare il cappotto, ancora prima di togliere il cappello. Io, amante del bello, dell'arte, dell'armonica disposizione di idee e cose. Eccomi qui, con voi, sospeso, a guardare sorgere la luna, e i cristalli spezzati dei finestrini che brillano come stelle fredde. Eccomi qui, con gli angeli che mi carezzano già le ginocchia. Eccomi qui, vagone 22, non ho prenotato, grazie, ma un posto si trova sempre, per me non è un problema, posso anche stare in piedi, Signora. Eccomi qui, tra le carrozze ritorte come ossa spezzate, abbandonate lungo il fianco della collina, immobili, spente, sole.
Paradosso o salvifico omaggio? Scherzo o dono? Lieto omaggio di un Dio superiore o solo scherzo di un povero pazzo?Ora, mentre aspetto, mentre vado, nella tranquillità della notte, circondato da morti che non rispondono più, mi accompagnano verso il buio solo gli squilli elettrici e distorti di mille e mille cellulari.

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