10 luglio 2006

ARGENTO! (capitolo 37)




Quando si sentì risuonare la campanella del camion dei pompieri, un immenso silenzio aveva mangiato il fruscio delle acacie, inghiottite dai gorghi di fango e pioggia.
Videro arrivare il camion rosso fuoco, i pochi presenti giunti a dare il primo aiuto, e seguirono con lo sguardo quegli omini in uniforme argentata arrampicati alle fiancate come uccelli di marzapane in un albero di natale.
E dietro di loro i federales e dietro ancora una piccola armata di curiosi a cavallo. Rumorosi e inopportuni come solo i pistoleros perdigiorno e i loro padroni latifondisti sapevano essere. Aveva il suo pubblico, l‘alcalde e se ne compiaceva perché era in quelle occasioni, che, lo sapeva, dava il meglio di sé.
Rimpiangeva solamente che in uno staterello dimenticato da Dio come il Parador le catastrofi o le emergenze fossero merce rara.
Per il resto sembrava che tutta Mammarranca si fosse rovesciata sulla Piana do Diablo. Disordinatamente come i bastoncini di un gioco di shangai.
Così, per curiosità, per assistere allo spettacolo, ognuno con aspettative differenti.

Giacevano distesi alle prime luci del sole; un sole pallido che ancora non riscaldava, decine di corpi, recuperati dal fango e restituiti alla terra ferma grazie all’ausilio dei pochi primi soccorritori. Composti per file ordinate venivano distesi uno dopo l’altro.

Sembravano pesci che la terra avesse sputato fuori dalle viscere, manco fosse cibo indigesto.
E somigliavano ad aringhe, tutti ricoperti da quello strato di fango che ne cambiava colore e lineamenti. Enormi aringhe bipedi. Distese in fila ordinata.

Il silenzio quasi irreale che aveva accompagnato le voci confuse dei primi campesinos accorsi in aiuto fu rotto dagli ordini del capitano dei pompieri
“tagliate della legna!”
“Posizionate della frasche sotto le ruote del camion!”.
“Lanciate le cime dove vedete un corpo galleggiare!”
Cui faceva eco, simmetrica e sfasata di qualche secondo, la voce del sottotenente Lopez
“lanciate la cima!”
“Posizionate della frasche sotto le ruote del camion!”.
“Lanciate le cime dove vedete un corpo galleggiare!”

Quasi che le urla potessero recuperare il tempo ed evitare quella tragedia che era sotto gli occhi di tutti.

Poi scese l’alcalde con barba non rasata e uniforme sgualcita.
“Riferitemi quanto prima” ordinò al suo attendente.
E si portò sul ciglio del cratere, ove la terra ancora franava. Osservava sussiegoso e vide una cosa che attrasse la sua attenzione. Un volumetto nero mezzo coperto di fango.
Lieto della sua scoperta si inchinò per recuperarlo. Ma non aveva bene calcolato i movimenti e lentamente cominciò a sprofondare.
Ora ricordava confusamente di aver udito che nelle sabbie mobili l’unica cosa da non fare è agitarsi. E dunque cercava di darsi un contegno mentre tutto impettito come un soldatino di piombo veniva poco a poco inghiottito.
Non voleva neppure perdere la reputazione, che un soccorritore da soccorrere è roba ridicola che fa il giro della regione in men che non si dica. Quindi si limitava a girare la sua testa a destra e a manca cercando con gli occhi di rendere evidente la sua situazione.

Quando finalmente una cima fu lanciata verso di lui era immerso sino alla vita. E un pompiere urlò distintamente: “aiutatemi a tirare in secco l’alcalde”
E i campesinos risero, come tutti d’altra parte. E lui maledì quel libro nero che scompariva nel fango e le sue balzane idee. E con un sorriso autoironico di circostanza stampato sul volto teso cominciò a inzaccherarsi perché le cime lo tiravano e trainavano davvero come un pesce preso all’amo.

“dannata fanghiglia” fu tutto quel che disse per ringraziare a Heriberto Herrera Senior, il piccolo pompiere dallo sguardo ridente.

E senza attendere risposta cercò riparo nel camion dei federales.

Lo salvò dall’imbarazzo il fido attendente. “il colonnello dice che servono delle ambulanze signore. Molte più ambulanze di quelle che abbiamo a disposizione.”

“Occorrono dei carri decine di carri per trasportare le vittime dell’incidente alla vicina Coloriu Arrubiu, Signore. Occorre allertare l’ospedale”.

Incurante di quelle chiacchiere futili Don Erminio si fece avanti e prese in mano la situazione.
Parlò con i campesinos a voce bassa e definì con loro che dovevano portare i primi soccorsi, lì, subito e su due piedi. Una decina di volontari si fece avanti e cominciarono a lavare dal fango quei corpi e cercare di rianimarli.
L’alcalde prese la cosa come un affronto personale.
“che diamine cerca di fare dottore?”

“separiamo i feriti dai morti”.
E si rese conto che dopotutto quella era, evidentemente, la cosa più logica da fare. La prima elementare decisione.

“costruiamo un ospedale da campo, per prestare i primi soccorsi indispensabili”.
Non aveva previsto, l’alcalde, che in una situazione del genere l’autorità sul campo non erano le mostrine a darla ma l’esigenza primaria di salvare delle vite. E in questo la sua autoritas era ovviamente seconda a quella di Don Erminio, su dottori, con il quale avrebbe dovuto confrontarsi.


Ines, poco distante, cercava tra quei corpi, cercava suo figlio. In silenzio, senza lasciar trasparire nessuna impazienza o disperazione. Cercava come si setaccia un fiume alla ricerca di una pepita. Per lei, dopo la riconciliazione, quel figlio era diventato, se ne rendeva conto adesso forse per la prima volta, l’unica ragione di vita.

Il cratere era ricoperto di un fango dalla consistenza irregolare. Alcune parti sembravano più ghiaiose e franavano ma altre, verso occidente, erano ancora più liquide e melmose. Da quei gorghi di tanto in tanto affioravano braccia o gambe, tronchi o stracci, elementi di un mondo il cui ordine naturale era stato messo a soqquadro.

C’erano frasche, o interi alberi, e detriti che affondavano o emergevano lentamente a seconda de capricci di quei mulinelli.

“Agganciate quel carro”.

Ines sentì quell’ordine e vide, con apprensione che ciò che fluttuava a qualche centinaia di metri da lei era proprio un carro. Era di colore chiaro, come quello di Astor, ma non era certa che si trattasse proprio del carro di suo figlio.
Si arrampicò su un masso che sembrava ancorato solidamente alle rive di quel lago marron e nero e si sporse come poté per osservare. Il labbro le tremava e cominciò a sudare. Piccole perle apparvero sotto il naso e sulle tempie. Serrava gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco e cercava di mantenere tutta la calma possibile.
Poi, all’ultimo, una ruota emerse e si sentì felice. Ebbe la prova che cercava. Non era il carro di Astor, dato che il suo aveva, tradizione di famiglia, i mozzi delle ruote tinti di rosso.
E le sembrò d’improvviso di comprendere meglio il senso di quelle tradizioni che lei aveva sempre giudicato delle futilità di uomini.

Le sembrò che la speranza tornasse adesso che quel pericolo si allontanava dalla sua mente. Ma non voleva dire molto, Astor poteva avere avuto un incidente qua o là. Lo sapeva, e cercava di non farsi illusioni, a dispetto dei presentimenti, che cercava di leggere per abitudine, come le avevano insegnato da bambina.
Ma era titubante, quasi scettica, poiché anche quando morì suo marito aveva avuto presagi non troppo funesti ma il cuore le aveva mentito.

Discese da quel masso e continuò a cercare sino a quando, dietro a un canneto che costeggiava la carrettiera, non vide una ruota fracassata. Aveva il mozzo rosso.
Affrettò il passo perché era nervosa e diceva a sé stessa che non c’era tempo da perdere. Non un attimo.
Fin quando dietro a un cespuglio riverso a faccia in giù non vide il corpo di suo figlio e si sentì mancare.

Poggiata contro quelle canne troppo esili per sostenerla tirò il respiro e si avvicinò.
“Astor” disse.
“figlio mio”
E lo girò. Vide quel corpo pesto e macilento, ricoperto di sangue e fango, privo di segni di vita. Lo osservò con tutta l’attenzione di cui era capace, sino a quando non udì il suono.
Un suono che per lei fu come una sinfonia, il suono della vita pulsante.
Che faceva “mmm llmmm”
E proveniva da quella bocca con i denti rotti e le labbra gonfie.

Ines abbracciò delicatamente Astor, una cosa che non faceva da quando lui era in fasce.
E prese quasi a cullarlo, cantando una sorta di nenia che credeva dimenticata per sempre, e ringraziando il suo cuore, già che non aveva Dio quella donna, per avere salvato suo figlio.

Poi malgrado le lacrime che le velavano gli occhi sorrise e constatò che aveva finalmente smesso di piovere.

30 commenti:

igort ha detto...

Vi racconterò prossimamente.
E' una cosa lunga. Sono l'unico sopravvissuto a quella collaborazione, su un gruppo di 169 autori. Ma il "trattalmento" è un privilegio che hanno riservato a me solo. Una cosa durissima che servì a un esperimento mediatico unico nel suo genere. in pratica mi avevano condierato giapponese come loro. Poi ve lo racconterò.

Niccolò Storai ha detto...

Sembra una cosa molto interessante!
Sono curiosissimo di saperne di più!

Roberto La Forgia ha detto...

racconta racconta, igort.
dicci tutto che l'argomento mi interessa assai.

ciao

ausonia ha detto...

nel senso che dovevi assecondare i loro ritmi lavorativi? sono curioso...

andrea barbieri ha detto...

Ehi, ci sono pure io, fatemi entrare ad ascoltare...

Mastro Alberto Pagliaro ha detto...

stiamo aspettando....

igort ha detto...

miei cari, ho problemi di connessione che la telecom con la sua magica inefficenza aumenta a dismisura.
La mia esperienza giapponese è durata 13 anni consecutivi e adesso pare riprendere.
ho lavorato con editor formidabili che lavoravano fianco a fianco. Con molta umiltà e altrettanta testa dura. Il mio editor preferito si chiama tsutsumi.
E' l'editor di taniguchi e tanaka.
una volta convinsi i miei amici nipponici di una cosa evidente: in una mia vita precedente fui giapponese.
Loro presero atto della cosa e si decisero,cosa mai fatta prima di allora con nessun gaijin (così chiamano gli occidentali) a lavorare in diretta.
Lavorare in diretta vuol dire che tu fai e pubblichi subito dopo. peccato che il ritmo sia settimanale.
Ora i Giapponesi sono le tigri dell'Asia. Sono convinti di essere dei mostri: lo sono.
E nel lavoro non scherzano.
Ci sono molte leggende su questo. Frequentando l'Asia ho compreso che molte di queste non sono leggende ma verità, raccontate con il sorriso, come favolette, per sembrare dei racconti da caminetto, cosa cvhe invece non sono affatto.
La verità è che sono tostissimi.

Fui invitato, come tutti gli anni, a tokyo.

Una volta arrivato vennero a prendermi, all'aeroporto. In segno di rispetto.
Domanda: quanti di noi autori ha il suo editore che lo viene a prendere quando arriva in aereo?
Io non ne conosco tanti.

Considerazione: per me era notte fonda, per loro giorno fatto, le 8 o giù di lì.

mi chiesero se volevo fare la doccia e mi dissero che attendevano alla lobby del mio hotel.
dopo un ora cominciarono il trattamento.

Assioma 1. In giappone il personaggio esiste a tutti gli effetti; l'autore deve sapere tutto di lui. Cominciarono a chiedere come si sarebbe comportato se
C'era un terremoto. Scompariva per esempio una persona cara ecc ecc.
ora tenete presente che l'editor è un asso in storytelling, mica un babbuino curioso.

igort ha detto...

Io cominciai a farfugliare qualcosa. Loro dissero "OK, questo una persona qualunque, ma cosa farebbe esattamente il suo personaggio?" dicevo cazzate: Ero stanco, e anche un poco nervoso perchè non me lo aspettavo; non era mica il primo anno che lavoravo con loro ma era la prima volta che tutto questo avveniva.
Poi altro dettaglio, uno scriveva tutto ciò che raccontavo. E faceva, in pratica una relazione.

Mi lasciarono andare a dormire con una frase della buonanotte, scoccata in maniera sibillina.
" per domani una storia". Questo dissero.

Per domani una storia significa che dovevo inventarmi la storia, scrivere i dialoghi e disegnarla a matita.

Angoscia.
Incredulità.
Violenza (meditavo di uccidere l'editor).
Compresi in breve che era un test. Volevano capire se ero in grado di lavorare secondo i ritmi giap. Erano anni che mi domandavano "esattamente quanto è veloce?" e io facevo tutto per depistarli. A volte ero rapidissimo altre lentissimo, non volevo farmi inscatolare.
Comunque sia io non credevo possibile realizzare 16 tavole e non conoscevo nessuno capace di farle in una notte.
fatto sta che dopo qualche ora crollai e poi riemersi da un sonno profondo che era durato quanto? 5 ore?
Ero nella merda.

cominciai a fare chiaro nella mia testa. mangiato presi ad annotare dialoghi e poi ricordo che verso le tre di notte spedii a Midori il primo testo da tradurre (dovevo anche tenere conto del fuso orario per permettere alla mia traduttrice, che stava a roma di tradurre cosa scrivevo.
Accadde un miracolo perchè cominciai a disegnare sempre più precisamente e alla fine terminai 16 pagine in un giorno. Non erano definitive, ma erano pronte da inchiostrare, definite.

La cosa terribile era quanto accadde in seguito.

igort ha detto...

In seguito giunse Tsutsumi, il mio editor. Sempre in albergo, sempre in segno di rispetto (era lui che si spostava per venire al mio "studio"). Lesse la storia. Io sorridevo. La lesse e la studiò. Non disse una sola parola a riguardo, poi soggiunse: "domani un'altra storia".
Avevo smesso di sorridere. Cercavo un coltello di pattada, una roncola, una katana. Adesso lo dico in maniera scherzosa ma allora, quando avvenne, non fu piacevole. Era in gioco tutto, tutta la collaborazione. Se fallisci con i Giap hai chiuso, torni a casa e chi s'è visto s'è visto.
Non era una questione di soldi o di successo, era che io ci credevo a questa sfida di costruire un esperanto grafico. Un linguaggio universale che unisse oriente a occidente.
E poi sono uno a cui piacciono le sfide.

Mi ci buttai e in breve compresi come si devono sentire gli animali in gabbia. guardavo Tokyo dalla finestra, io per me, potevo anche essere a quyartuo a budrio, tanto non potevo uscire. Una passeggiata a prendere i sandwitch e poi via. al lavoro. il giorno dopo l'editor trovò la sua seconda storia.
Non mi aspettavo nulla. Feci bene. Non ottenni nulla se non la solita siòpatica frasetta: domani un'altra.

Feci 160 pagine in due settimane, comprese le pause.
Ci fu una crisi serissima nella quale dieidi in escandescenze, volevo sapere se era un test zeno che cavolo era.
io che facevo zen e che dimiostravo con quella mia reazione, di non avere capito nulla. che mi perdevo, che urlavo che chiedevo cose che non si dicono con le parole.

igort ha detto...

così l'esperienza proseguì e loro decisero che si poteva procedere. poi arrivarono i voti del pubblico ( in giappone se non vai in Hit parade ti licenziano in tronco) ce la feci: Yuri andò 11 volte in classifica.
Ma nelle lettere di lettori si parlava di colore, colore colore. Amavano il colore atmosferico che io volevo nelle mie storie. E questo mi fregò, perchè io stavo barattando il colore in cambio di più pagine. La regola era:
Personaggio sempre al centro di una vignetta.
Sempre visibile. Se è nascosto il lettore deve sapere dove è.
Un ballon per personaggio a vignetta.
Storie di otto pagine.
Il lettore deve essere sconvolto, coinvolto, commosso.
la storia deve essere autoconclusiva.
sei vignette a tavola al massimo.

ora per lavorare con tutte queste limitazioni dovete essere padroni del vostro mondo artistico, del linguaggio e molto, molto pazienti.
Talmente pazienti che poi vi create polmoni artistici facendo cose agli antipodi ( per me fu 5, una libertà assoluta di lavorare con macchie e con ellissi narrative, fuori da quella logica cartesiana. da quella logica pop, se osservate un fumetto popolare troverete che in genere queste regole auree sono rispettate. Perfino Pratt le rispettava)

Comunque si andò avanti e un giorno Tsutsumi mi convocò per dirmi che i lettori avevano votato per il co-protagonista. Voleva dire un sacco di cose questo. Per esempio che parlavo a un altro pubblico, o che sentivo maggiomente il co-protagonista rispetto al protagonista.

ecc ecc ecc

ho imparato un mucchio di cose. Su di me, sul raccontare, su come vedere le cose da altri punti di vista. Una volta mi sono infuriato e ho chiesto al mio editor di scrivermi dei dialoghi. Volevo vedere se ne era capace.
fu il peggior errore della nostra collaborazione. Mi scrisse una paginetta di dialoghi incredibili.
Non ci credevo. Il bastardo era anche capace di scrivere, oltre che di leggere le cose da Dio.

duccio ha detto...

in parte avevo sentito il raccconto dal vivo durante alcuni seminari, ma tutte le volte mi stupisco..
la cosa che mi colpisce maggiormente è il fatto che, sfuriate a parte, sia possibile non perdersi d'animo.
io a volte per molto ma molto meno perdo le energie. per stupidaggini a volte..
E mii ritrovo ad accanirmi con forza contro qualcosa o contro qualcuno disperdendo tutte le mie energie nel nulla..
aria fritta.

la cosa che mi colpisce maggiormente, è la capacità di fermarsi un attimo, e convogliare tutta quella forza da 1 altra parte.
quella giusta.

igort ha detto...

Molti libri che facciamo alla coconino hanno una cura particolare. Lavorando con gli editor credo di avere, forse, imparato qualcosa a proposito della solitudine del narratore;
A me faceva piacere avere uno "specchio" che era il mio editor, con cui potermi confrontare.
Ma devo dire che Tsutsumi non mi imponeva niente; Lui domandava perché. "Perché un personaggio reagisce così?" "Qual'é il suo carattere?"
"Perché la storia sembra chiudersi a un dato momento?" ecc ecc.
E tu pensi a quello che stai facendo anche con l'aiuto di uno sguardo esterno.
Molto, molto utile.
Ma ci sono momenti in cui la storia deve stare al buio, a lievitare. coperta, al riparo da sguardi esterni.

Per esempio con gipi o con altri amici intimi parliamo delle storie mentre stanno nascendo. E io, nel mio piccolo, cerco di aiutare senza fare ingerenza.

Io credo molto nel gioco di squadra. Ma anche nell'uncitià dell'autore.
Si tratta di vedere le cose con equilibrio.

Mastro Alberto Pagliaro ha detto...
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Mastro Alberto Pagliaro ha detto...

Non c'è che dire, si tratta di un' avventura fantastica, sono rimasto veramente affascinato dal tuo racconto, mi piacerebbe anche a me subire "il trattamento", solo per vedere dove potrei arrivare. Come autore cerco sempre d' impormi dei ritmi da catena di mantaggio ( una pagina al giorno), questa mia auto costrizione è scaturita dalla mia volontà di tenere la mente impegnata sul racconto e non solamente sul disegno. In passato per chiudere una pagina in B/n impiegavo anche una settimana, questo perchè ero troppo legato al bel disegno e alla singola vignetta, in pratica curavo bene la singola inquadratura, ma non mi preoccupavo se poi essa era compatibile con la successiva. Fare fumetti significa raccontare ( disegnare bene però aiuta). Mesi fa ho vissuto una esperienza analoga o quasi alla tua. Mi sono ritrovato in Disney insieme ad altri disegnatori per seguire un corso di formazione per la realizzazione di una nuova serie top secret ( molto interessante, alla disney hanno scoperto che i giovani scopano e fumano)In pratica abbiamo disegnato cinque giorni di fila lavorando subito sui personaggi e successivamente alla realizzazione di quattro pagine. All'inizio di questa avventura ero un pò perplesso , anche perchè ero l'unico disegnatore non Disneyano e avevo paura di non esere in grado di seguire i loro ritmi di produzione, alla fine però ho retto benissimo ed ho anche imparato molto, la serie infatti è in stile manga e io erano anni che mi volevo confrontare seriamente con questo genere.
é vero che ho da poco consegnato un fumetto in stile manga che mi ha impegnato per circa tre anni, ma è un manga alla pagliaro, fasullo, non mi sono studiato neanche un fumetto giapponese per farlo, non mi andava, non mi interessava, ho solo realizzato una storia ambientata in giappone, per farla breve, mi sono limitato solamente a fare gli occhi a mandorla.
Per fare il robottone sono partito da una mia versione gotica di Pinocchio.
Dopo l'esperienza in Disney adesso sono diventato ancora più veloce nella realizzazione delle tavole e questo è un bene, perchè posso raccontare più cose e meglio( spero).
Anni fa ho conosciuto Il fumettista fiorentino Massimo cavezzali, lui sosteneva che il tempo impiegato per la realizzazione di un fumetto, dovesse essere identico al tempo impiegato per leggerlo.
Interessante vero?
ciao Igort

duccio ha detto...

più passa il tempo più mi accorgo di quanto sia importante il confronto.
un po' per caso, un po' per carattere, fino ad ora sono sempre restato un po' isolato.
questo, da un lato mi ha permesso di guardarmi bene dentro, ma dall'altro mi ha fatto perdere di vista l'insieme.
e l'insieme è importante. ti permettere di guardare il tuo lavoro da fuori. e perchè un lavoro venga bene credo che sia necessario guardarlo anche con "distacco". perchè man mano che cresce e si delinea diventa sempre più qualcosa di "altro" da te. qualcosa che d'un tratto, di te, non ha più bisogno.

mi interessa molto la figura dell'editor.

Roberto La Forgia ha detto...

porca miseria, igort, sei un grande!

Anonimo ha detto...

Che fantastica esperienza. Sarebbe un'ottima base per una storia con dei numeri. Mi conferma due cose: che i giapponesi sono grandi e che le voci che sento su di te come persona sembrano proprio vere: sei un grande anche tu.

ale ha detto...

Dev'essere stata un'esperienza tremenda! La storia è eccezionale, l'ho stampata e la farò leggere in giro. Grazie di avercela raccontata!

Mi chiedo piuttosto quali siano le conseguenze di un "trattamento" del genere. In positivo credo che uno provi a se stesso di potercela fare (sempre che ce la possa fare!)e che scateni la propria immaginazione alla ricerca di stratagemmi creativi e tecnici (per velocizzarsi o semplicemente per finire il lavoro). In negativo: non si rischia alla fine di schematizzare il racconto?

E' interessante quello che dici sul personaggio. Su Internazionale, da qualche mese, c'è una rubrica di scrittura creativa che si intitola "un romanzo in un anno" ed è tentuta da una scrittrice inglese che non conoscevo, Louise Doughty. Nelle ultime settimane ha discusso di come si lavora con un personaggio e dice più o meno la stessa cosa: cioè di creargli una biografia completa, un contesto, provare a porlo in alcune situazioni (tipo: la rottura di un dito, una sveglia notturna, ecc.) per vedere come si comporta e quindi "conoscerlo" meglio...

igort ha detto...

Non si può cadere in cose schematiche se lavori con un editor che chiede coinvolgimento ed emozione. Queste cosette sfuggono per definizione.
Conoscersi è importantissimo. Credo sia necessario fare una lunga esperienza di solitudine e di lavoro sodo prima di sottoporsi a una collaborazione talmente estrema. Non dormi, ma devi restare lucido. In sintesi si tratta di capire se si riesce ad andare al cuore, se si lavora con precisione e sintesi. Pulendo le idee. Stephen king parla di "portare alla luce dei fossili sepolti". Questo è fare una storia.
occorre tatto e tecnica, ma soprattutto cuore per raccontare. i giapponesi toccandosi il petto dicono Kokoro, che è il cuore spirituale (situato al centro del petto). Questo bisogna raggiungere. Kokoro.
L'esperienza che racconta Pagliaro mi sembra utile e bella ma diversa da quella che ho vissuto in giappone. Si trattava di raccontare, di approfondire moltissimo. E seppure in silenzio io ero guidato da un senior editor (ce ne erano tre su 53 in tutta la redazione).
Credo che lavorare in questo modo sia un privilegio e un pericolo.
Io sono stato molto fortunato perché era 18 anni che pubblicavo le mie storie e sapevo quele era il mio modo di guardare, più o meno. Ma sarebbe stato devastante se fossi stato meno certo dei miei mezzi, questo credo sia chiaro;

luciaLu ha detto...

Tiziano Terzani amava tantissimo la Cina , mentre in giappone diceva il tipo di vita e di relazioni gli avevano fatto maturare il cancro che lo ha portato alla morte

VINCENZO FILOSA ha detto...

magari è stato un bene...

andrea barbieri ha detto...

Di Yuri a me piace da matti Spring Simphony. Pensare che una cosa così delicata è nata in quel modo è pazzesco! :-)

luciaLu ha detto...

baxter
in che senso ...vorrei capire prima di incazzarmi a vuoto

scusa igort

igort ha detto...

CAri ragazzi, ma vi pare che sia equilibrato o anche solo sensato tirare fuori una frase come quella su terzani? Mi fate cadere le braccia, io sto raccontando una mia esperienza e poi ci si spiattella un po' di malta sopra. Scusa Lucia, ma adesso magari mettetevi a litigare pure.

Non so. A volte magari sondare il senso di opportunità non sarebbe più "opportuno"?

igort ha detto...

Spring simphony fu esattamente la storia che seguì "il trattamento". la prima storia che feci subito dopo. Questo per dire che le cose delicate uno le cerca anche in momenti che delicati non sono per nulla.
Ma è inutile parlare di cose se non si chiarisce un fatto prima: la poesia o la bellezza non sono quegli elementi surgelati che corrispondono a definizioni di vocabolario.
Pasolini ha usato volti e musiche che erano imbevuti di cultura da una parte e di violenza e ruvidità dall'altra.
Non sono gli elementi a definire la "bellezza" ma l'accostamento, anche stridente, di questi elementi.

Terzani amava la cina e non il giappone. La cina era docissima. tra le cose più crudeli che l'uomo abbia creato diversi supplizi sono nati in cina.

luciaLu ha detto...

vabbene volevo fare un discorso più completo sulla tua esperienza di lavoro in giappone e su come il vostro entusiasmo su tali metodi non mi trova assolutamente d'accordo ...cosi ho tirato fuori una cosa appena letta della biografia di Terzani ... chiedo scusa ...avremo tempo e occasione per parlarne

baci

igort ha detto...

Io sto parlando di cose che ho vissuto. Forse sembra che sia acriticamente entusiasta su queste cose, allora sono un fesso e me ne scuso. Sono stato male e ho imparato tuttavia delle cose. l'esperienza mi sembrava di averla definita devastante se fosse accaduta quando ero più giovane.
E' invece accaduta quando ero vaccinato e adultino. Sono sopravvissuto e sono qui a raccontarla.
Ancora faccio quel gioco di raccontare a disegni e ancora ne provo immenso piacere.
Detto questo dobbiamo anche cercare di uscire da quella forma mentis per cui si sta solo a casina a fare a uncinetto così non si soffre. Non credo sia vero; non credo esista questo mondo.
Si naviga e a volte il mare è brutto. Punto.
Così si impara anche a navigare.

Tutto qui.

La storia degli amanti della cina o del giappone è una vecchia querelle orientalista. non la tirerei in ballo adesso. non è risolvibile e non serve se non a fare un simposio barbosissimo.
terzani è stato un grande. Ho letto alcune cose sue bellissime e sto leggendo alcune scose di sua moglie sul Giappone. per me non lo capiscono, non lo amano, non lo apprezzano. Non c'è nulla di male.
Ma non sono la scienza.

perec ha detto...
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ausonia ha detto...

mh.
mi interessa molto ciò che scrive igort. ho sempre creduto nei "trattamenti". perché la "sequenza" dell'albergo mi ha fatto tornare in mente una cosa diversa che mi è capitata qualche hanno fa ma che ha sempre a che fare con un tipo di "trattamento".
ho vissuto vicino parigi un mese sì e uno no - per quasi un anno - a casa di un famoso sceneggiatore francese... che era convinto che io fossi capace di disegnare una sua storia su un gruppo di ecoterroristi. in questa storia erano comprese svariate scene con armi da fuoco e da taglio e io, da bravo obiettore di coscienza, non avevo mai tenuto in mano una pistola in vita mia. e anche per questo motivo facevo fatica a disegnare armi e persone che le usano.
la sua vecchia casa, aveva una piccola armeria zeppa di pistole, fucili, carabine di precisione, spade giapponesi, vichinghe... e lui, lo sceneggiatore, sapeva tutto in fatto di armi. era una sorta di storico di strumenti di morte. ma simpatico.
ho passato mesi non a disegnare, ma a usare spade e pistole. smontavo la carabina di precisione. pulivo la 8mm. e ogni pomeriggio andavamo nel bosco a sparare o a parigi a comprare proiettili. mi costringeva a bere tantissima birra per avere bottigliette di vetro da far esplodere nel bosco. "e se non le riesci a colpire" diceva, "almeno hai la scusa di essere ubriaco."
disegnavo pochissimo, ma imparavo cose fondamentali: disegnare è interpretare. proprio come fa un bravo attore. disegnare è entrare nel personaggio. un po' servizio militare e un po' actors studio, ecco cos'è stato quel periodo francese. e quella storia sugli ecoterroristi, io, non l'ho mai fatta. non l'ho mai disegnata. ma in un anno ho imparato cose... e un atteggiamento verso il raccontare storie.

Anonimo ha detto...

Che esperienza favolosa! Grazie del racconto, ne valeva la pena di aspettare...