2 agosto 2013
teli bianchi
Trentatre anni fa fui svegliato dalle sirene delle ambulanze. Erano più o meno le 10 e mezza del mattino, avevo trascorso tutta la notte al tavolo da disegno. Abitavo in via Saffi 24, a Bologna, sulla via per l'ospedale maggiore. Dalle mie finestre al primo piano potevo vedere la strada e notai un viavai insolito di autobus a tutta velocità. Avevano dei drappi bianchi, lenzuola appese ai finestrini, alla bell'e meglio, per coprire.
Si intravedeva qualcosa però, c'erano dei corpi distesi. E dottori. E poliziotti.
Qualcosa di serio era successo, accesi la radio. La programmazione regolare era interrotta. C'erano collegamenti volanti che si cercava di mettere su. Voci confuse che parlavano di una strage.
A quel tempo trasmettevo per radio Carolina, l'erede di Radio Alice, a Bologna. Chiamai la redazione di via Michelino per avere più informazioni.
Mi dissero che era esplosa l'ala ovest della stazione, probabilmente una bomba, che ancora non si capiva bene, ma le prime notizie incerte parlavano di diverse decine di morti.
Ricordo il senso di agitazione, quella sorpresa amara che ti regala qualcosa di spiacevole che non ti aspetti e non sai bene come affrontare.
Mi infilai una camicia, giusto il tempo di inforcare la bici per correre verso la stazione. Al mio arrivo, una decina di minuti dopo, il piazzale era ancora immerso in un nuvolone di polvere. C'erano le persone che scavavano. Militari del genio, poliziotti, volontari.
Dove c'era la stazione ora c'erano macerie.
Al parcheggio dei taxi, di fronte all'ala ovest, che era saltata in aria, delle lamiere schiacciate; faceva molta impressione vedere un taxi ridotto a quel modo.
Poliziotti e vigili del fuoco che indossavano le mascherine, l'orologio, in alto, si era fermato alle dieci e venticinque.
Sotto quello che rimaneva di un arco, di là della voragine provocata dalla bomba, la vista dei binari, solitamente impedita dalle mura dell'edificio. Quella visione ora faceva male. Spaventava.
Le scritte ristorante, tavola calda, sbilenche, segnalavano un disordine disarmante.
E la parola morte, che rimbalzava di bocca in bocca.
Dopo un po arrivarono i camion, le ruspe, a scavare, alzare altra polvere, per cercare di rendere agibile quella parte di piazza che era coperta di macerie.
Giornalisti, operatori tv, curiosi, tutti cercavano sgomenti qualcosa che non si poteva trovare, in mezzo a quell'inferno.
Ricordo solo il bianco abbacinante. Degli operatori sanitari, il bianco delle barelle e dei teli stesi sopra i feriti a proteggerli dalla polvere, o sulle salme.
Quel bianco era senso, era civiltà. Una superficie pulita e ordinata che si opponeva a polvere e disordine. Quella piccola superficie immacolata, mobile e operosa era la risposta.
Per me qualcosa, in quei minuti, si è rotto per sempre.
Da allora, per esempio, non riesco più a frequentare un luogo di passaggio, un aeroporto o una stazione, senza un istintivo senso del pericolo.
Siamo piccoli, noi umani.
Sebbene avessi trascorso la mia adolescenza di liceale a seguire la sequela di attentati, rapimenti, gambizzazioni, omicidi e stragi che avevano preso il triste nome collettivo di “anni di piombo”, non mi abituai mai a quell'insensatezza.
Ho rivisto dei filmati, che mi riportano a quei momenti. Che mi mostrano quello che in quel giorno non potei vedere.
Le telecamere che entrano nei vagoni divelti, i poveri effetti personali, borselli aperti, carte da gioco, giornali, scarpe, valigie squartate, cassette musicali, radioline, bicchieri di plastica, giornaletti. Oggetti abbandonati sui sedili, in mezzo ai vetri dei finestrini esplosi, sotto alle tende, che dicono più di tante parole.
E quei teli bianchi, che da allora, senza quasi accorgermene, sino a oggi, ho preso istintivamente ad amare.
Igort. 2 agosto 2013. Per non dimenticare.
13 giugno 2013
Paz amarcord
La prima volta che andai a trovare Paz, era il marzo 1979; abitava con Betta, la sua ragazza, in un piccolo appartamento dalle parte dei tribunali, a Bologna.
Lui non c'era, ma mi intrattenne Nando, il fratello di lei, che all'epoca non era che un ragazzino, un tredicenne moto curioso e gentile, che mi fece compagnia per una mezz'oretta circa.
Ma Paz non arrivava.
Sul tavolino, un piccolo piano arrangiato a tavolo da disegno, la pagina da cui Alter ha appena tratto la copertina del numero in edicola. Un disegno potente e ironico, ritrae un umano che somiglia all'uomo mascherato e due scimmie che osservano, con lo stesso sguardo assente. Tutte e tre le figure hanno gli occhi color rubino.
E' il 1979 Paz è già una star, uno dei disegnatori di maggior talento. Gli piace spiazzare.
E in quegli anni si viaggia con le immagini. Un' immagine è una porta dimensionale per penetrare in mondi sconosciuti.
Questa visione dell'autore come maestro di cerimonia, sciamano, ipnotista dei lettori, l'ha teorizzata 5 anni prima Moebius. E ha fatto un grande effetto. “Le storie non devono essere quadrate”, dice, “possono essere a forma di casa... o di elefante”.
Io all'epoca sono un autore in erba, visito Magnus, “il maestro”. Frequento Carpinteri, Federici, Giardino, che stanno muovendo i primi passi. Sono tornato da Londra dove ho visto sorgere il punk.
Bologna è esplosiva, piena di energie. In tanti vogliono fare, dire la loro. Aleggia una grande forza iconoclasta. Il Dams, è il clubbino che molti di noi giovani autori, frequentiamo. E che Paz ha reso mitico sulle pagine di Penthotal.
La fine degli anni Settanta è la stagione delle riviste. Pubblichi su Alter, o su Linus e ti leggono praticamente tutti. Oreste del Buono ha fatto il miracolo, ha mostrato al mondo, e ai signori della cultura, che esiste un'isola inesplorata, si chiama fumetto.
I giganti di questa narrativa, trascurata sinora, si chiamano Munoz& Sampayo, Moebius, Druillet, Corben, Breccia. Sono davvero tanti, decine, centinaia.
E in questo contesto, il giovane Paz, che all'epoca ha 23 anni appena, si muove con la disinvoltura dei grandi. Destruttura. Le sue storie sono fatte di schegge, frammenti, spesso sgangherati di poesia metropolitana, oppure deliri esilaranti che si leggono con le lacrime agli occhi, ripetendo le battute a voce alta, per poi riprendere a ridere. E disegna Paz, se disegna!
Frequenta la traumfabrik, una casa occupata in pieno centro. Al 20 di Clavature, sotto le due torri. In quella casa, al secondo piano, sulla porta dipinta di rosso, è stato piantato un campanello da bicicletta funzionante. Ci sono decine di messaggi a pennarello e la scritta Tramfabrik, fabbrica dei sogni. I sogni sono quelli dei talenti di nuovo fumetto e della nuova musica, che pascolano in quelle stanze, a tutte le ore. E' una casa aperta, come si usa allora, dove non c'è neppure un fornello per farsi un caffè, ma dove si produce. Si disegna, fotocopia, taglia, incolla, scrive, suona, prova, fotografa, filma. Verranno fuori grandi talenti, voci influenti per gli anni a venire.
Circolano i nomi di riferimento: Burroughs, Wharol, Artaud, Iggy Pop, i Ramones.
In pochi anni le cose cambiano velocemente. Il 1980 è uno spartiacque. Muore Cannibale, dove Paz aveva folleggiato insieme ad altri grandi talenti del fumetto, e nasce Frigidarire.
Andrea si rinnova, pubblica Zanardi. Un affresco spietato della giovane generazione. Le storie vengono in gran parte dai racconti di liceo di Nando, il fratello di Betta. E ricordano quell'atmosfera decadente e cupa che ho visto con i miei occhi alla Traumfabrik. Bologna è sempre presente, e pare che nelle sue pagine diventi universale. Anche questo è un grande talento di Paz.
Sono storie in cui cinismo, e cattiveria adolescenziale si miscelano pericolosamente.
Io ho due anni in meno di Andrea, ho cominciato il mio percorso, in pochi anni pubblichiamo sulle stesse riviste. Quando sbarchiamo in Francia, sulle pagine de l'Echo des Savanes, la sua storia “notte di Carnevale” desta scalpore. Pare il principio di una carriera internazionale. Ma Andrea, ultimamente si è invaghito di un personaggio bizzarro, tale Tortorella. Dicono che è un ex pusher, è stato promosso sul campo “manager di Paz”. Fa trattative con il boss de l'Echo in puro stile Al Capone, chiede il triplo, se si vuole pubblicare altro Pazienza. In breve Paz è messo alla porta.
Non è grave, gli ho visto vendere la stessa storia a due editori concorrenti, Paz ha mille risorse, però, che spreco. In Spagna lo chiamano Paciencia. “E dai”, dico, “i nomi mica si traducono”. Lui ride. Lo amano, laggiù, lo sa.
Si incontra a casa di Marcello Jori con Piervittorio Tondelli la cui opera prima “Altri libertini” è stata appena sequestrata. I due simpatizzano, parlottano continuamente. Hanno uno sguardo fratello sul reale, ognuno con il suo stile.
Questa era la mia Bologna di quegli anni. Piena di talenti che si incontravano, parlavano e facevano. Ci sarebbero tante altre storie. Storie piene di passione e di dolore. Che un giorno, forse, vedranno la luce.
30 maggio 2013
autunno 1982





22 maggio 2013
sinatra del dopobomba





15 maggio 2013
bazooka, les humanoides e gli altri
Nel 1980 frequentavo Nicola Corona, grande amico di Andrea Pazienza. La madre di Nicola abitava in via Saffi, a Bologna, e lui ci capitava di tanto in tanto. Così, in pratica, eravamo, per così dire, vicini di casa.
Fu lui a mostrarmi per la prima volta le cose di Bazooka. Facevano molto effetto, anche perché il gruppo composto da Lou Lou, Kiki Picasso, Olivia Clavel, Kim Bravo e altri, aveva pubblicato un tabloid, e l'aspetto, naturalmente, non era proprio quello di un quotidiano, anche se era un alegato di Liberation.
Se adesso ci penso mi pare un miracolo, un gruppo di avanguardia grafica che produce un tabloid, bellissimo. Ma era un finto tabloid, privo dell'elemento essenziale del giornale, i fatti. Le immagini, in quella versione Bazooka, spogliavano fatti della loro concretezza, figuravano scene spettacolari prese da riviste della scienza e della tecnica, ma anche dalle riviste di Gossip ecc ridisegnate in maniera glaciale. Segno freddo, teso al puro inespressionismo. Era il famoso “Freeze” teorizzato da Wharol ed esaltato dal punk.
In quel senso di vuoto pneumatico l'esistenza sembrava denunciare la propria tragica, irrinunciabile, futilità.
“I want to be a machine” cantavano John Foxx e gli Ultravox nel 1977.
E quello stesso anno, l'anno del punk, ad accrescere il mito di Bazooka era uscito in Francia un albo nero, grande, bellissimo pubblicato da Fururopolis, casa editrice di culto.
30 X 40 cm. Titolo, semplicemente: Bazooka productions (e l'amore per le merci, i prodotti, a partire dalla “Tomato Campbell Soup” era un must per quella generazione senza guru).
C'erano delle pagine a fumetti dentro l'albo Bazooka, ma si lavorava molto anche sull'immagine singola, l'illustrazione, che era utilizzata non per dare sfoggio di tecnica, cosa banale e già vista, quanto per fermare, ingrandire e mostrare nel suo aspetto effimero, degli scorci di quotidianità.
Erano come fotogrammi di un film vuoto, che ci riguardava tutti, questo sembrava essere il manifesto dell'avanguardia nichilista, creativa e disperata che cantava in coro con i sex pistols “no future, no future”.
Bazooka piaceva molto a Corona, che ne faceva la sua versione a colori, nelle storie pubblicate sui primissimi numeri di Frigidaire. Pareva davvero il membro italiano di quel gruppo fantasma, Corona, che era dotato di una tecnica moderna e volumetrica. Le sue prime apparizioni colpirono per quell'aspetto post-pop in technicolor.
Era la stagione delle riviste, e allora, se facevi qualcosa, anche una piccola storia, nel posto giusto, al momento giusto, si parlava di te per mesi e mesi.
Sempre a Parigi, a partire dal 1974, due disegnatori, uno sceneggiatore e un poeta amministratore (che fuggirà con la cassa, stando alle leggende) diedero vita a un piccolo miracolo editoriale “Metal Hurlant”.
Come nel caso precedente erano autori che diventavano editori di se stessi. Anche se il nome dell'impresa era pieno di quella fantasia ironica che rappesentava la forza e al tempo stesso il limite dell'impresa. Si chiamarono Les Humanoides associeés, gli umanoidi associati.
Druillet aveva pubblicato I sei viaggi di Lone Sloane, che raccoglieva le sue storie pubblicate da Pilote sin dal 1966. Lone Sloane era nuovo, unico, diverso da tutto quello che si conosceva sino ad allora. Il suo autore vantava influenze letterarie distantissime, per generazione e genere, da Lovecraft (maestro del racconto gotico degli anni 20) a VanVogt (controverso scrittore di fantantascienza anni 40), e che magicamente, in quelle pagine disegnate si miscelavano in modo efficace dando luogo a una rivisitazione del genere fantascientifico.
L'approccio grafico era monumentale, quasi barocco se si vuole, Druillet amava i macchinari e gli edifici che popolavano quei mondi sconosciuti ricordavano vagamente i templi indiani o le cattedrali gotiche, il che gli valse in breve l'appellativo di “architetto spaziale”. A guardar bene il suo evocare civiltà remote e decadenti era profondamente imbevuto di quegli umori lovecraftiani che lo rendevano tanto distante dalla fantascienza sino ad allora praticata.
Niente Scarlett dream o Barbarella, rappresentanti di una fantascienza lieve e all'acqua di rosa, le tavole di Druillet formicolavano di apparecchiature dai riflessi scintillanti e parlavano di un mondo in cui l'uomo è posseduto da solitudini divoranti.
C'era un senso di vuoto metafisico e filosofico che forniva alle storie uno spessore inedito.
Memorabili le pagine del robot agonizzante che canta le melodie dello spazio.
Moebius che era un disegnatore affermato di fumetti western, con il suo vero nome Giraud, o Gir, aveva in mente anche lui di affrontare il fantastico con approccio filosofico, ironico, surrealista, che poi sarebbe diventato, con il tempo, esplicitamente più mistico.
A questi si unirono presto altri talenti del firmamento transalpino tra cui Bilal per cui scrisse la saga spaziale “Sterminatore 17” Jean Pierre Dionnet, altro membro fondatore. Giornalista e scrittore, e direttore di Metal da subito. E poi Tardi, Gal, con le armate del conquistatore (sempre sceneggiato da Dionnet) e di lì a poco Chantal Montellier.
Di Farkas, amministratore e poeta, si sa poco o nulla, è un personaggio discreto. Lascerà la rivista al numero 23 per fare fortuna lanciando il Cubo di Rubik sul mercato francese.
Questi autori erano sensibili a quanto stava accadendo oltre oceano e presero contatto con un grandissimo visionario del Missouri, un autore capace di dare una concretezza fino ad allora mai vista a sogni e mostri, corpi e atmosfere, il suo nome era Richard Corben.
La rivista, 68 pagine, di cui solo 18 a colori, prese corpo e cominciò le pubblicazioni trimestrali a dicembre, i numeri nascevano in una minuscola redazione situata in una tipica corte interna di un palazzo parigino, era davvero poco più che un garage.
Mentre Bazooka che era un fenomeno camp, ironico, citazionista, con nessuna velleità di diventare popolare, scomparve come una cometa bella e luminosa del firmamento francese, Metal Hurlant e il suo mito si diffusero in una galassia di idee e storie che bene o male è giunta fino a noi.
Fu Oreste del Buono a raccontarmi che li incontrò a Lucca, i fantastici 4 del fumetto, e, innamoratosi della neonata Metal Hurlant, strinse un accordo per pubblicare su Alterlinus il 90% del materiale.
All'epoca Alter era mensile e Metal trimestrale, fu grazie alla solidità economica di questo accordo che Metal divenne mensile da un giorno all'altro.
Il che trasformò Alter nella succursale di Metal ben prima che l'editore Roca ne facesse la versione italiana.
Quando questa apparve in Italia, lo spirito di Metal, sebbene fossero passati meno di dieci anni, si era disperso. La rivista che ne aveva colto le istanze sperimentali e innovative, che incarnava quella cultura che si era evoluta nella cosidetta new wave, seppur con altre coordinate, era Frigidaire. E a noi tutti pareva che Totem o Metal versione italiana non fossero altro che gusci vuoti che presentavano senza un vero progetto delle storie prese più o meno a caso nel calderone.
Fu chiara a tutti questa cosa, di Oreste del Buono ce n'era uno solo.
Frattanto, dal febbraio del 1978, aveva visto la luce un altro faro del fumetto francese. La rivista (A suivre...), così con il nome tra parentesi, che era la dicitura tipica in basso in ultima pagina che chiudeva i romanzi a puntate, i cosidetti feuilleton. A suivre voleva dire “continua”.
Si trattava di una rivista a fumetti il cui logo era stato studiato da Etienne Robial, sempre lui, grafico geniale e fondatore di Futuropolis, che aveva realizzato anche il logo per Metal Hurlant, poi saccheggiato da Fiorucci, per la cronaca.
(A suivre...) si proponeva di sviluppare narrazioni a lungo respiro, storie a fumetti in cui il disegno non fosse la cosa dominante, ma che desse risalto all'aspetto narrativo.
Oggi, e sono passati 35 anni, siamo qui. Si sta lavorando alle narrazioni a lungo respiro, le chiamano “graphic novel”.







14 maggio 2013
the pulp fiction






10 maggio 2013
my generation
Bisognava scendere un paio di rampe di scale per penetrare nei meandri del Punkreas, a Bologna. All'epoca sono studente morto di fame, e pago 52.180 lire di affitto, mio padre mi spedisce 100.000 al mese, dunque devo vivere con 47.820, un'impresa.
Comunque si mangia alla mensa universitaria (che fa schifo, ma costa pochissimo, 500 lire), tutti si preoccupano di preservare il fegato, dunque almeno un pasto bisogna farlo fuori mensa. Il punkreas è uno dei pochi lussi che mi permetto, ha prezzi ragionevoli e poi sono a Bologna per la cultura, che cazzo.
Appena entro l'aria è folleggiante come al Roxy, ma meno esacerbata.
Nella zona universitaria è annunciato l'evento. Punkreas, Gaznevada sing Ramones.
I Ramones li ascolto dal loro primo 45 giri, “Sheena is a punk rocker”, che è uscito due anni prima, un'era geologica fa, in pratica. Frattanto sono diventati una leggenda del rock'n'roll primitivo. Miscela commovente di energia orizzontale, suono distorto, e semplicità americana, quasi minimale.
Punkreas, ore 21,30. Entro, atmosfera fumosa, parlottare.
Freak Antoni, che conosco di fama, scende qualche gradino prima di me, indossa un giubbotto bellissimo, pelle marron e beige. Sulla schiena c'è un disegno meccanico molto ben fatto su cui campegia una scritta: Pistoni roventi. Ed è tutto un programma.
All'epoca Freak è già il cantante degli Skiantos, incide per la Cramps records, quella degli Area, di John Cage, non so se mi spiego, ha inventato il rock demenziale. Non c'è muro di Bologna su cui non figuri una scritta Skiantos, in pratica sono già celebri prima ancora di aver suonato. Arrivato da Londra, mi sono ambientato in poco tempo e Bologna mi piace, c'è gente che pensa e fa senza posa, anche grazie al DAMS a cui mi sono iscritto.
Freak me lo presenterà dopo qualche tempo Stefano Tamburini, in trasferta, ma all'epoca sono un semplice ascoltatore-fan. Gli Skiantos sono degli urlatori, in piena tradizione punk, rivendicano il fatto di non saper suonare e prendono in giro gli stilemi del rock. I nomi d'arte sono uno peggio dell'altro, Freak Antoni, Leo Tormento Pestoduro, Sbarbo Cavedoni, Jimmy Bellafronte, Dandy Bestia, solo per citare a memoria. Il secondo disco, Mono Tono, del 1978, spopola. In Saffi 24, la mia tana, è addirittura la sveglia di casa. Verso le 9 (l'alba in una casa da studenti) metto a tutto volume il primo pezzo che inizia con “Fatti questo slego. uno due sei nove”, conta surrealista che precede la partenza a razzo di un brano rock'n'roll sgangherato quanto geniale. Titolo: Eptadone.
I miei amici studenti, o studelinquenti come li chiama Tamburini nelle tavole di Rank Xerox, si alzano svogliatamente. Dura la vita ad Animal house da quando ho scoperto gli Skiantos.
Da quel momento si ascolta musica tutto il santo giorno, specie quando disegniamo.
Siamo in tre a fare fumetti, anzi in 4 se contiamo Pari che fa fumetti per puro sfizio, uno ogni cento anni. Per il resto io, Antonio Fara e Andrea Maimone siamo partiti con la pretesa di diventare autori. Eravamo già andati ad Alter, l'anno prima. E al di là del fatto di aver terrorizzato la redazione per come ci eravamo acconciati, non era andata così male. Ma poi le urgenze del punk si sono sovrapposte. In quei giorni le spinte appaiono così forti e insopprimibili che segui il flusso. Fai quello che ti sembra imprescindibile. Sotto, in profondità, comunque, l'amore per il fumetto rimane un leit- motiv. Sai che devi, a tutti i costi, disegnare le tue storie.
Abita in quella casa di studenti un nutrito drappello di amici, oltre alla mia ragazza, Susanna, e un amico poeta, Donci, che ha il vizio di ululare la notte e smontare le persiane per sfogare il suo nervosismo. Poi, come detto c'è Roberto Pari, che fa finta di studiare a scienze politiche; è stato compagno di liceo di Carpinteri, così l'ho conosciuto. E Giorgio abita proprio dietro casa mia in via Podgora. Sempre Bulagna.
E' lui che mi parla degli Skiantos per primo, è in visibilio per questo gruppo. Io li ascolto, non si può non amarli perché i dada in confronto sono sobri.
Bologna, sala piena, gli Skiantos suonano come spalla ai Gong.
In breve l'atmosfera si surriscalda. Sbarbo finge di suonare una scopa, come fosse una chitarra, mentre canta con uno scolapasta in testa, poi parte il provvidenziale lancio di verdure. Ma sono loro, gli Skiantos a bersagliare il pubblico a suon di sedani, cardi, verdurame vario che ti arriva all'improvviso sul muso. Freak canta, con incedere cattedratico un inno folle: “Largo all'avanguardia, pubblico di merda, tu gli dai la stessa storia, tanto lui non ha memoria”.
Dagli Skiantos ti aspetti di tutto, il pubblico risponde al fuoco, la pioggia di verdure è talmente fitta che i ragazzi capitolano, abbandonano il palco, ricordo ancora le suppliche di Sbarbo “no ragazzi, basta, così non possiamo suonare”, la pioggia continua.
A questa e altre provocazioni gli Skiantos avevano abituato il pubblico. Sin da Bologna rock, 1979. Quando, saliti sul palco insieme al fior fiore delle avanguardie bolognesi, avevano allestito la scena come un soggiornino domestico. Tv, tavolo, sedie, fornelli. E si erano preparati un piatto di pasta, invece che suonare, mangiando in pubblico, tra i fischi della folla inferocita.
Freak questo lo considerò il loro apice. Ma mancò poco che venissero linciati.
A ogni modo, Punkreas: i Gaznevada suonano velocissimi i Ramones e senza pausa tra un pezzo e l'altro, come gli originali, ma in versione futurista, missilistica. E' notevole.
Come per gli Skiantos e decine di altri gruppi, è in voga l'uso wharoliano del ribattezzarsi. Alla Factory ci sono Ultra-violet. Holly Woodlawn, Candy Darling ecc, tutti nomi creati da Andy Wharol, che ha trasformato la fauna della Factory in un santuario di icone pop, personaggi di un fumetto reale e semovente.
Così a Bologna, che in quei giorni mi pare la città più americana del mondo, questo uso prende piede. Gli Skiantos scelgono nomi ridicoli, l'ironia attraversa tutto il movimento artistico dell'epoca, ma i Gaz, sono già più “arty”, meno dichiaratamente satirici. Loro sono cresciuti leggendo Burroughs e Wharol è davvero il loro santone.
Raffini (Billy Blade), che pubblica in quegli anni un paio di storie su Cannibale (frammenti di vita decadente) canta spiritato, si è dipinto una serie di nei posticci, stile Settecento, Giorgio Lavagna (Andrew Nevada) occhiali neri, canta in trance, (Ciro) Robert Squibb arrota le corde della chitarra, è il rock'n'roll, baby. Ma c'è anche Giampiero Huber aka Johnny Tramonta (che con Raffini e Lavagna vive nella traum-fabrik, casa occupata di via Clavature, a due passi dalle 2 torri) che percuote il basso; dietro di loro Bat-matic (Gianni Cuoghi) alla batteria, che poi passerà ai Confusional .
Sono lugubri, belli, assenti e infoiati, tutti vestiti di nero. E Raffini, particolare che non passa inosservato, ha la svastica al braccio.
In breve partono i buuuuh, fischi, bottiglie volanti, baraonda. Bologna in quegli anni è la Bologna del movimento, e il punk, con la sua iconografia politicamente blasfema infiamma gli animi.
Il situazionismo estremo non è tollerato.
Io staziono sotto il palco, sono a due metri da loro, e sento la tensione crescere. La rissa è lì lì per scoppiare, anche perché i Gaznevada quella pantomina la eseguono per tre giorni di fila e si è sparsa la voce.
In quella occasione li nota Oderso Rubini che è il Malcom McLaren di Bologna, ha aperto un piccolo prodigio, una cosa minuscola e preziosa, una casa discografica! Si chiama Harpo's Bazaar e sta in via Sant'Isaia 49, a due passi dal Punkreas. Ha un orecchio notevole, Oderso, e la sua fama di talent scout si diffonde in breve. Mette sotto contratto i Gaz, ma anche tutti gli altri gruppi che suonano nelle varie cantine di via San Vitale. Ce ne sono una miriade, tutti bravi.
Windopen, Confusional, Luti Chroma, Nafta e poi man mano Stupid set, Hi-fi bros e decine di altri.
In un primo tempo stampa cassette e 45 giri, poi LP. Sarà lui a pubblicare il mio primo album, di lì a poco.
Io lo incontro a più riprese anche alla radio, Radio Città, che è un vero e proprio centro propulsore di quella cosa che allora si chiama “contro-cultura”.
Questa è la storia della new wave bolognese, che fu un fuoco potente e influente per noi, che contaminò, stimolò e intrigò la scena del nuovo fumetto italiano. Rispondendo alle istanze di uno sguardo contemporaneo, per poi scomparire in un fragoroso vuoto, mentre l'industria discografica nazionale, continuava a dormire. Languendo in cascami di progressive rock e cantaurotato decisamente inascoltabili, per la mia generazione.
Freak che era amico di Andrea Pazienza e frequentava la Traumfabrik dove abitava anche Scòzzari, non lo incontrai mai con loro. Si fece tatuare un disegno di Carpinteri nel braccio e presentò il Valvoline party due anni dopo. Era il 1982.
Gli Stupid Set ed Enrico Serotti dei Confusional fecero la colonna sonora di un fumetto di Carpinteri e Jori. Era il 1982.
Gli Hi-Fi bros furono prodotti da Arto Lindsay, per l'Italian records. Era il 1982.
Raffini (Billy Blade) divenne mio amico, mi rubò una chitarra X27 che valeva due lire, ha smesso di fare fumetti. Era il 1982.
Sotto lo pseudonimo di Radeztky e gli isotopi pubblicai il mio album “funerale a Bombay”. Era il 1982.






9 maggio 2013
punk



8 maggio 2013
sturiellett



7 maggio 2013
igort & Brolli



6 maggio 2013
pagine ingiallite



Iscriviti a:
Post (Atom)