22 maggio 2013
sinatra del dopobomba
1977. Dai tempi del glam di Ziggy Stardust erano passati 5 anni appena, eppure pareva un'era geologica. Il punk aveva investito tutto con quei suoni lancinanti e quell'universo violento, che mandava in pensione leader, guru, maîtres à penser, e predicava la bruttezza, perfino la mostruosità, come valori veri, da contrapporre alla bellezza patinata delle pubblicità.
In quei cinque anni il rock'n'roll si era imbolsito, ammorbidito dai contorsionismi insopportabili del progressive. Non che il progressive non avesse partorito le sue perle, ma l'apice di quel virtuosismo ampolloso erano sorti maghi, mantelli, miti fantasy e paccottiglia favolistica.
Per ritrovare la bussola, alla ricerca di un suono primitivo e autentico, si erano recuperati dei maestri, che parevano già gli avi lontanissimi, i "bisnonni" della nuova generazione, anche se erano di qualche anno più anziani dei "nipoti". C'erano Lou, Iggy, che erano accettati come punto di partenza, padri del punk. Bowie aveva fatto l'amore con troppi cosmetici durante il periodo precedente ma aveva un carisma fuori dal comune che lo imponeva.
E gli Who, che tempo addietro avevano scritto My generation, e quella violenza distruttiva l'avevano cavalcata a tutto gas. My generation Roger Dartley l'aveva cantata con fare balbuziente: “ My ggg. ggg generation, baby” cantava, e questo, accompagnato da un Pete Townsend che spaccava tutto sulla scena era parso un'illuminazione.
Patti Smith fin dal 1975 dunque (anno del suo primo Horses) aveva reso omaggio a quella canzone con una cover feroce e scoordinata che aveva fatto Bum.
E My Generation era diventata un inno della mia generazione.
Il 45 giri, pubblicato nel 1976 come retro del singolo Gloria, risuonava ovunque nelle case da studente, pompato a tutto volume insieme alla versione di “My way” rivista e abbaiata da Syd Vicious o la satisfaction dei Devo (“macché Rolling Stones, questi sono i DEVO” dicevano Tamburini e Liberatore sulle pagine del Male. Il nome del fumetto era appunto: Johnny Devo).
Ci si poteva riappropriare di tutto. In quei giorni si faceva distinzione tra cover (reinterpretare una canzone) e remake (partire da una canzone e modificarne la struttura musicale o il testo).
Il cut up di Burroughs, tecninca di collage surrealista che lo scrittore beat aveva applicato tagliando verticalmente in 3 i fogli dattiloscritti e incollandoli a caso per creare inediti percorsi di racconto, era la bibbia.
Aggettivi come nichilista e iconoclasta erano abusati.
Questa era la fine degli anni Settanta un periodo fertile e seminale che avrebbe influenzato la cultura sino ai giorni nostri.
La musica non la si ascoltava come semplice accompagnamento, era un segno di riconoscimento, una parola d'ordine.
C'era, insomma, chi aveva capito e chi no, chi viveva ancora come un frichettone ignaro che il mondo era cambiato che il flower power era morto e sepolto e chi surfava sull'onda dei tempi.
(I am looking for brand new values, cerco valori tutti nuovi) avrebbe cantato Iggy nel 1979.
Iggy ci appariva come un Sinatra del dopobomba, occhi bellissimi e tristi, sorriso splendido. Divorato da una rabbia fuori controllo, era chiaramente posseduto dal dio del rock'n'roll che lo sbatacchiava qua e là, senza senso.
Dal vivo si agitava, saltava, rotolava sul palco. Poi si lanciava dagli amplificatori, piegando le aste dei microfoni al ritmo dei tamburi sporchi di Lust for life e cantava struggente, ispirato “Here comes Johnny Yen again, with the liquor and drugs, and the flesh machine”. Era semplicemente divino, ricordava il Burroughs più feroce.
E faceva pensare anche a Hubert Selby Junior.Il cantore del degrado americano che ci aveva galvanizzato con il suo “ultima fermata a Brooklyn” scritto negli anni sessanta e pubblicato in Italia, con la traduzione geniale di Attilio Veraldi, da Feltrinelli, proprio negli anni del punk. Era un pugno allo stomaco che meteva k.o. il mito dell'America solare, e puritana.
Senza veli la penna di Hubert ritraeva quell'universo di diseredati, travestiti divorati dalle gelosie, dagli amori lancinanti. Sullo sfondo la vita di strada, le droghe sintetiche, i militari in licenza dalla guerra di Corea, la violenza pura.
Un affresco abbacinante si era affacciato a spazzare via tutte le certezze della letteratura beat e di quella pop.
Hubert influenzò Lou, che scriveva i suoi testi metropolitani e decadenti per i Velvet.
E un decennio dopo Patti, che avrebbe preso il testimone.
E con lei la no wave, infatuata del delirio autodistruttivo.
Tutti avevano preso a cantare il corpo, la notte, il piacere, la morte.
Dopo l'esperienza Stooges, terminata nel 1974, devastato dalla dipendenza da eroina e da seri problemi mentali ed economici Iggy Pop si era volontariamente ricoverato in un istituto di recupero.
Era giunto al culmine della sua autodistruzione, non gli restava che esplodere o cercare di ricostruirsi.
In quei giorni di isolamento e fragilità, l'unica persona che lo andava a trovare era David Bowie. Anche lui alle prese da una disintossicazione, da cocaina.
Così i due vecchi amici in fuga, entrambi piuttosto provati, decisero di fare un pezzo di strada insieme.
Bowie e Iggy favoleggiavano di un progetto artistico nuovo, di una rinascita.
Lasciata l'America e dopo alcuni soggiorni francesi si erano rifugiati negli Hansa Studios, a due passi dal muro di Berlino, nei cui appartamenti avrebbero abitato per quasi due anni, a immaginare suoni e ritmi diversi, a comporre e registrare.
Queste voci, che si rincorrevano per mezza Europa, inquietavano fans e discografici; si sapeva che Iggy pop era scomparso dalla scena, e si sapeva anche che Bowie lo aveva sempre ammirato, ma non si poteva immaginare cosa i due stessero per fare.
Bowie, con il suo talento generosissimo scrisse per Iggy alcune tra le canzoni più memorabili della sua intera carriera. L'abum The Idiot e il successivo, Lust for Life, segnarono un salto di atteggiamento. Apparvero paesaggi sonori inediti, suoni cupi e notturni che resero ancora più fascinoso il viaggio dell'iguana.
La mia generazione era cresciuta a ufo, giornaletti, film e rock'n'roll.
C'era il giornale dei misteri che blaterava di alieni e fenomeni paranormali.
I mostri, Frankenstein o Godzilla si sovrapponevano ai western spaghetti.
E i fumetti, o giornaletti, come li si chiamava allora: li andavi a comprare nei polverosi negozi di usato. Si giocava a carte usando Tex, Zagor, Capitan Miki, Bleck, Eureka, Guerra d'eroi ecc. come fiches.
Poi, negli anni del liceo, si comincava a respirare un'aria diversa.
C'era anche Gong, e Re Nudo. Ma quest'ultima mi pareva una cosa già molto vecchia, freak. Mi annoiava mortalmente.
La controcultura, la droga, l'amore libero ecc ecc. come la si chiamava allora, proponeva dei modelli che confinavano talvolta con una visione narcotica della vita.
Molti cazzeggiavano, consumando il tempo tra una risata, una fame chimica, e qualche palpatina.
Le porte della percezione, cantate dall'ondata psichedelica, erano un pallido ricordo.
L'eroina scorreva a fiumi e divorava la mia generazione. Morivano come mosche i drughi, sdraiati nelle fontanelle di Piazza Repubblica.
Da ragazzo avevo in antipatia Kerouak, che era con il suo “on the road” l'idolo del frichettonismo più becero e lercio, da strada appunto. Ricordo le chiome fluenti e unte dei miei amici, le barbe lunghe, i gilet sdruciti sopra camicie fuori dai pantaloni, le canne, e gli sguardi languidi al kajal che lumavano le pupe con aria sognante e vissuta. Il free love e il sole della California sarda che poi degradava in viaggi on the road, al massimo al poetto, (4 km dal centro) o in tram senza pagare il biglietto o a Tonara a vedere i concerti, in autostop. Keep on truckin'.
Sandali infradito in pelle, per maschi e femmine, frangette esasperate ed effluvi di patchuli-misto- sudore da mozzare il fiato.
Mentre io me ne stavo da una parte, consumandomi la vita e le speranze con Lou Lou (come lo chiamavamo al tempo) e i suoi velvet.
Orano, la peste di Camus. Lo straniero. Sarte, la nausea. L'esistenzialismo, il trucco fatale di Juliette Greco. L'oltraggio dei pistols.
Nella mia stanzetta al terzo piano di Dante 71, Rock'n'roll animal suonava tutti i giorni, in cuffia, mentre entravo piano piano, calandomi in quell'universo di tossici, metropolitano e feroce.
Lou d'altronde aveva cantato una wild side abitata da travestiti e pusher. Heroin is my life is my wife. Luce bianca bianco calore, puro mito dell'autodistruzione.
Era il mondo della Factory di Andy Wharol. Il mondo del genio e dell'invenzione.
Kerouak lo avrei recuperato decenni più tardi per scoprire che era tutt'un'altra cosa. Una cosa che cantava il bop, gli anni Quaranta.
A posteriori, penso che sia stato un miracolo che non mi ci sia dedicato, a quel rito di morte, perché lo sentivo benissimo, lo respiravo, e con il mio metodo sicuramente sarei arrivato al capolinea in brevissimo tempo.
Londra fu dunque il viaggio nelle brume del rock'n'roll dove potevo finalmente respirare un po di sana violenza. C'era Arancia meccanica, che la raccontava bene, quella mitica, pericolosamente bene. E come mi sia salvato dal trasformarmi in delinquente abituale o eroinomane professionista davvero me lo domando ancora.
Avrei semplicemente fottuto la mia esistenza tra una cella e un ambulatiorio a prendere l'eptadone, come molti amici miei.
Cosa fu, a tenermi alla larga da tutto questo?
L'effetto, forse fu questo a insegnarmi.
Le mascelle sdentate dei miei coetanei, la pelle grigia e lo sguardo spento, perso a “sentire”.
O la camminata ciondolante, una grattatina, e poi ancora qualche passo, corpo assente, fino a ruzzolare per il marciapiede. Forse fu questo a farmi orrore.
E poi fu la bellezza a salvarmi la vita, credo, quella bellezza che si annidiava nell'odore di una rivista appena stampata, nel sogno della rotativa che mi portava a visitare le edicole come fossero cattedrali dell'immaginazione.
E poi, certo, Arancia meccanica che al cinema lo vedevi, ancora e ancora, mai pago, recitando i dialoghi a memoria, capendo che Ludwig Van poteva essere l'idolo anche di un drugo qualunque, di un teppista della vita, che non ne vuole sapere di studiare o lavorare, perché ha visto, respira energia, cerca e brama solo quella, altrimenti muore, in un crepuscolo di insulsaggine.
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4 commenti:
" crepuscolo di insulsaggine " finirà prima o poi sul mio biglietto da visita, sebbene io sia lontanissimo da Alex DeLarge e dalla sua sana ultraviolenza.
Anni dopo avrei sperimentato sulla mia pelle la sana Ultra Non-violenza professata da Ghandi.
Mi ha colpito tantissimo la sua asserzione secondo cui la sua sana Ultra Non-violenza era una strategia vincente perchè sfoggiata contro quel particolare nemico, cioè l'impero coloniale britannico. Un pacifista realista che è consapevole che la storia sarebbe stata un'altra se l'avversario dell'India avesse ragionato secondo altre logiche. E stiamo parlando di un uomo che ha vinto, ma è stato ucciso.
C'è un bellissimo libro che riassume tutto il movimento punk inglese, avanguardia artistica secondo me prima che un riff musicale che mutò il tutto, e l'ho compreso dopo anni di riflessione, che si intitola "Post-punk" edizioni Isbn, copertina in perfetto stile new-wave tra l'altro, sembra un album degli Xtc per dire..ciao D
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