6 maggio 2013

pagine ingiallite

Alter Linus pubblicò la prima storia di Moebius nel 1975. Una storia bianca, visionaria, scritta da Druillet, dal titolo Missione su Centauri, 6 tavole. E fu chiaro a tutti che qualcosa di inedito stava accadendo. Le tavole erano bellissime e spettacolari, riempite di dettagli, e tratteggi da fuoriclasse, ma non era questo a stupire. Quello che lasciava a bocca aperta era la carica innovativa che in quelle pagine tutte bianche si sprigionava. Moebius con quella e altre piccole storie che seguiromo, raccontava un futuro diverso dalla festa delle ferraglie che spesso la fantascienza aveva portato sino ad allora. E lo faceva attraverso l'idea del deserto. Moebius d'altronde era l'alter ego di Jean Giraud, e di deserti nel western “Blueberry” ne aveva disegnato a decine. Io all'epoca ero ancora a Cagliari, meditavo di spostarmi in continente, e sebbene disegnassi da anni e fossi in contatto perenne con il mio amico Giorgio Carpinteri, che avevo conosciuto sui banchi delle scuole medie, Valvoline era ancora una cosa di là da venire. A ogni modo, leggevo i libri di Fantascienza e gli hard-boiled, tra le altre cose e l'intuizione di portare la materia ruvida nel western e di sposarla al mondo del fantastico e del surreale conferiva un'aria tutta speciale alle pagine di Moebius, aria che noi lettori (e disegnatori in erba) cominciammo ad amare. Inoltre, cosa niente affatto secondaria, il genere fantascienza si era spogliato dell'azione. Avevano fatto molta impressione due film: “2001 odissea nello spazio” e “Solaris”, che erano film con una certa portata filosofica e nei cineforum i dibattiti impazzavano. Scuola americana (Kubrick) contro scuola russa (Tarkovskji) e baggianate del genere. Però, figlie di questa epoca, con Moebius le sceneggiature del fumetto erano diventate il teatro di una cosa inedita: la contemplazione. Fedele al motto “l'arte deve produrre segreto” che un tempo fu sostenuto da Marcel Duchamp, Moebius definì dei cambiamenti radicali nel modo di concepire il racconto. “Basta con le sceneggiature quadrate, le storie possono avere forma di casa o di elefante!” affermava sornione e psichedelico il talentuoso Moebius. Poco dopo sarebbe arrivato Arzack, in cui la struttura narrativa nel giro di 5 capitoli addirittura scompariva del tutto. L'inosabile era stato osato. Negli anni che seguirono avrei sentito molte voci dire che Moebius aveva rovinato tanti disegnatori e aspiranti autori con le sue storie-non-storie. Eppure a dispetto di queste voci, il suo lavoro brilla ancora per una visione misteriosa e apollinea che conferisce a quel disegno una grazia sino a ora ineguagliata. Quel lavoro influenzò moltissimo Pazienza e Manara per citare due disegnatori che pubblicarono subito dopo le loro storie di esordio. Ma nel gioco magico delle influenze, Moebius stesso fu influenzato da Crumb, il quale, a sua volta, veniva dalla scuola di Segar. Ognuno aveva comunque il proprio mondo e le storie di Moebius non si potevano confondere con quelle di Paz o di Milo. E fu chiaro a tutti che se alcuni elementi stilistici erano comuni quello che rendeva memorabili le storie era la personalità di un autore. Mi sono spesso interrogato su quella miscela stramba che fa si che un autore cominci a individuare le piste del suo proprio mondo interiore, sino a vederle fiorire su carta sotto forma di storie. Dagli altri credo di aver imparato a “guardare”: Come diceva Vonnegut, un autore è un osservatorio sul mondo. E imparare a guardare fu probabilmente la cosa che animò, in modo del tutto istintivo, quei primi anni. Parlo della fine degli anni Settanta, quando cioè stavo per cominciare a pubblicare e mi illudevo di intrecciare le molte teorie, studiate anche all'università, con le cose che amavo disegnare. Una cosa per me era chiara, Era esistita una cultura freak, che chiamavamo contro-cultura. Con i suoi miti beat, e ora c'era una nuova cultura, portata dagli scrittori pop (Barth, Barthelme, Pynchon) e dal post punk che vedeva sorgere la musica new wave. Da un nuovo modo di vedere, meno “figlio dei fiori”. C'era Franco La Polla che studiava il nuovo cinema americano in saggi geniali pubblicati da Marsilio (poetica della nostalgia, dell'iper-realismo, della violenza), che parlava della nuova letteratura ebraica (Salinger, Roth, Bellow, Malamud, Mailer). Tutto questo, insieme a centinaia di altre piccole grandi cose, la fotografia di Diane Arbus, di Weegee, il recupero del pulp, l'idea che il fumetto potesse raccontare a lungo respiro, l'amore per l'architettura e per la grafica sarebbero confluite in Valvoline, sino a portare alla teoria di un fumetto che racchiudesse questi universi allora piuttosto distanti. Ricordo che parlavamo di “ricostruzione fumettista dell'universo”, parafrasando la “ricostruzione futurista dell'universo”. In pochi mesi, dopo la definizione di “cubo-futurista” di Carpinteri da parte di Cristante, e diversi disegni di architetture nelle mie tavole, ci diedero perfino dei fascisti. Il futurismo era, alla fine degli anni Settanta e primi Ottanta, ancora del tutto famigerato. E se ti piacevano le architetture di Sant'Elia o Adalberto Libera, eri certamente un pericoloso reazionario. Ma l'amore per il fumetto si era nutrito, prima dell'avvento di Moebius sulle pagine di Alter con l'aiuto di una persona che non ho mai incontrato, se non per via epistolare e che fu per me e, credo, per Carpinteri, fondamentale: Manlio Bonati. Lui era un importatore di comic book americani, ma anche un grande appassionato. Se gli scrivevi ti spediva delle liste sterminate di titoli che potevi ordinare per corrispondenza. Ricordo per esempio Fantagore, Slow Death, Grim Wit, fever dreams, anomaly, Junkwaffel, ecc il meglio della produzione underground della seconda generazione. Corben, Greg Irons, Bill Griffith, Bodé ecc. Trovavi anche le cose di Robert Crumb, o i comc book della DC, the shadow, swamp thing ecc. E sebbene questi albetti costassero un occhio della testa e arrivassero dopo lunghi viaggi transoceanici profumavano di qualcosa di impagabile. Di sogno realizzato, di talento grafico e visionario. Erano la base su cui si poteva cominciare a sperare che un giorno avremmo fatto questo, raccontare con i disegni.

1 commento:

CREPASCOLO ha detto...

Tre vignette dei Peanuts. Nella prima Charlie Brown dice a Lucy van Pelt che, secondo alcuni filosofi, ogni giorno andrebbe vissuto come fosse l'ultimo.
Nella seconda , Lucy corre via urlando e disperandosi perchè la
( sua ) fine è vicina.
Nella terza, Charlie guarda il
( suo) lettore e commenta che alcuni filosofi non scrivono per tutti.
Quella cosa della storia in cui entri come nella casa di un elefante non è per tutti. Ha lasciato lungo la strada tonnellate di pagine di aspiranti cartoonists ripiene di edifici del ventennio ripieni di Ganesh e Dumbo che discutevano come nelle strisce di Schulz. Io lo so bene. Ricordo una domenica d'autunno
( come nella canzone Rapput di Claudio Bisio/Rocco Tanica )inchiodato alla seggiolina punitiva del mitico cinema De Amicis ( i cinefili masochisti meneghini sanno di cosa sto parlando ) di fronte a Solaris. Il mio pard non amava i comics e credeva che Giraud avesse inventato la Girella e che Valvoline fosse un medicinale coadiuvante della corretta digestione, leggere attentamente il bugiardino eccetera.
In un altro momento avrei apprezzato il film , ma avevo passato una settimana lavorando in due call centers e il teak delle poltroncine trascendeva ogni mio controllo, come direbbe Valmont ( e lo aveva detto pochi gg prima in un altro cineforum che frequentavo )e così mi ritrovai a pensare che il tizio sullo schermo - un aitante gemello diverso di Paul Villaggio per il mio neurone bollito - rifletteva sul significato ultimo dando il lato B ad un razzo che stava decollando. Tarkovskji non è per tutti, commentai appena uscimmo a riveder le stelle. Il mio pard non la prese bene e mi disse che non partecipavo ad una emozione se non era raccontata in quattro vignette rettangolari nella stessa pagina
( gabbia kirbica ndr ). Continuammo a discutere ben oltre il crepuscolo e ci sfidammo: "ilmiopard" avrebbe scritto e disegnato un fumetto su di una merendina senziente che si perde nella giungla alla ricerca del cimitero degli elefanti, io avrei scritto e diretto un cortometraggio su di un contadino alieno che coltiva un campo alieno a valvole che crescono sotto un sole alieno. Un musical, se non ricordo male.
Non ci siamo + visti da allora, abbiamo evitato di telefonarci e non bazzichiamo i social network per timore di ritrovarci. Per quello che posso sapere, non è stata pubblicato nessun graphic novel su di un dolcetto esploratore. Io ho da qualche parte due minuti di girato con un tizio in un costume di gomma con parapodi imbarazzanti che semina un giardino con pezzi di ricambio, ma spero che Crepascola e Crepascolino non li trovino mai...