10 ottobre 2006

per una birra




Recupero in rete, dal bel blog di inquilina

per una birra

di Anna Politkovskaja, tratto da "Cecenia. Il disonore russo", pp. 8-12.


"Mi hanno sparato", prova a spiegare Aisha con estremo sforzo, dopo aver perso brevemente conoscenza. "A bruciapelo".
"Dio mio! Ma perché?"
Ancora una volta, cerco di capire. Di nuovo, l'irrazionale prende il sopravvento.
"Per una birra".
Due settimane prima, un giovane soldato russo originario di un villaggio della regione di Riazan, Oleg Kuzmin, in servizio da nove mesi, aveva fatto sedere davanti a sé, sul letto, una donna di Grozny di sessantadue anni, Aisha Suleimanov, e le aveva sparato a bruciapelo cinque pallottole 5.45 vietate da tutte le convenzioni internazionali. Si tratta di pallottole dal baricentro decentrato, assolutamente disumane: attraversano il corpo con traiettorie bizzarre facendo esplodere gli organi al loro passaggio. Ecco cos'è successo ad Aisha, a casa sua, in un sobborgo di Grozny chiamato Michurin.
Suo figlio, adulto, le sta accanto in ospedale. Non si è rasato da alcuni giorni. Significa che recentemente c'è stato un funerale in famiglia. Mi guarda freddamente, come da una grande distanza. Mi odia e non lo nasconde.
Di quando in quando sembra che abbia voglia di parlare. Ma, con una smorfia di disgusto, si ferma alla prima mezza parola:
"Non tocca a voi avere pietà di noi... Non a voi!". Un urlo muto e disperato che sembra inghiottire tutta la stanza in una specie di vortice: "Non a voi! Non a voi!"
Noi siamo noi, i russi.
Il figlio di Aisha stringe così forte la sbarra di ferro opaco del letto d'ospedale che le ossa sporgenti delle sue falangi diventano bianche. "Non a voi!"
"E a chi allora?"
Non sente la mia domanda muta... Non vuole? Piuttosto, non può.
La guerra mette alla prova le persone senza chiedere loro il permesso: affina l'udito degli uni e rende sordi gli altri.
Ma, grazie a Dio, Aisha ha voglia di parlare: ha bisogno di condividere la sua sofferenza, e così facendo di alleggerirla un po', questa sofferenza immeritata, incomprensibile e quindi ancora più pesante da sopportare.
"Eravamo già coricati... A un tratto, alle due del mattino, credo, bussano alla porta. Qualcuno che bussa alla porta, a quell'ora, con il coprifuoco, non significa niente di buono. Ma siamo costretti ad aprire, sennò si rischia grosso. Perciò mio marito e io abbiamo aperto. Sulla porta ci sono due soldati. Dicono: 'Dateci una birra'. Gli rispondo: 'Non vendiamo birra'. Insistono: 'Vai, portaci un po' di birra!'. Allora dico: 'Da noi non c'è birra, le nostre leggi lo proibiscono'. Rispondono: 'Bene, nonna', e se ne vanno. Noi siamo tornati a letto".
Aisha si sente male. Le sue labbra non sono più grigie ma blu, rigate di nero. Si tormenta il collo, come se avesse una crisi di asma. Ma è un'ondata di lacrime che la sommerge.
Dietro a me risuona la voce del dottor Khajev:
"Non sarebbe meglio smettere? Andiamo nella stanza accanto".
"Per favore, no...". Aisha alza la testa dal cuscino e ci chiede di rimanere. Ha bisogno di parlare e spiega perché: "I russi non vengono mai qui e io voglio che sappiano... Che abbiano pietà per noi. Perché ci fanno questo? Perché?"
Aisha ha sessantadue anni. Ha vissuto quasi tutta la sua vita in Unione Sovietica e, nonostante la deportazione sotto Stalin e gli anni duri che erano seguiti, si considerava ormai una cittadina di quello stesso Stato che ha scatenato una guerra contro di lei e i suoi cari. Cerca senza riuscirci, come tanti altri anziani ceceni, di capire perché un soldato del suo stesso paese abbia tentato di uccidere lei e la sua famiglia...
"Perché?", ripete trattenendo i singhiozzi. Le ferite infette le fanno troppo male. Aisha afferra la spalla di suo figlio per appoggiarsi e prosegue:
"Poi siamo tornati a letto... Più o meno un'ora dopo, mi sono svegliata con quei soldati che andavano da una stanza all'altra. Frugavano ovunque. Perquisivano. Ci hanno detto: 'Stavolta siamo venuti per una zaciska*'. Ho subito capito che ci volevano punire perché avevamo rifiutato di dar loro la birra e mi sono pentita di non aver proposto loro dei soldi in cambio. I soldati hanno frugato la piccola farmacia -mio marito era asmatico- pensano forse di trovarvi qualche droga. Invano... Poi uno di loro è andato nella stanza dove dormivano i nostri nipotini: quattro mesi, un anno e mezzo e cinque anni. Ho avuto paura che violentassero mia nuora davanti ai bambini perché li ho sentiti urlare. L'altro soldato ha ordinato a mio marito di seguirlo in cucina. Abas aveva ottantasei anni. Sento che gli propone dei soldi perché se ne vadano tutti e due. E poi, ad un tratto, un urlo. Il soldato aveva ammazzato mio marito con una coltellata. Uscito dalla cucina, mi ha portato in camera, ero pietrificata. Capisco tutto ma non riesco ad opporre resistenza. Con un tono dolce e indicandomi il letto con la mano, mi dice: 'Siediti lì, nonnina, chiacchieriamo un po''. E si è seduto di fronte a me. 'Non siamo degli scellerati, siamo OMON*, è il nostro lavoro', e i bambini continuavano a piangere dall'altra parte del muro... Gli ho detto:'Non fare paura ai bambini'. 'Non si preoccupi', mi ha risposto con voce soave. E con queste parole, senza alzarsi dalla sedia, mi spara addosso. Mia nuora mi ha raccontato che, dopo, hanno chiuso la porta piano piano e sono andati via".
Sono passate una o due settimane. Non sono riuscita a scovare l'assassino, Oleg Kuzmin, però ho trovato l'altro soldato che era venuto quella notte a casa dei Suleimanov: lui non aveva sparato e non aveva affondato il coltello nel corpo di un vecchio di ottantasei anni, però se n'era andato, anche lui, senza far rumore.
Sono rimasta colpita dal suo aspetto completamente anonimo, insignificante. Un uomo dei più ordinari. E' anche vero che i suoi occhi erano vuoti forse per via dell'erba: cosa normalissima in Cecenia, dove barattare qualche cartuccia, senza chiedersi a cosa servirà, in cambio di un po' di droga è la cosa più facile del mondo.
"Hai visto quello che ha fatto Kuzmin a quella vecchia della periferia Michurin?"
"Sì".
"Sai perché?"
"Non ci hanno dato la birra".
"Ti pare una reazione normale?"
Lui alza le spalle con indifferenza e tace.
"E se l'avessero fatto a tua nonna? Per una birra?"
"Mia nonna gliel'avrebbe data, ai soldati".
"E se non ne avesse avuta?"
-

*letteralmente 'pulizia'. spedizione punitiva, purga.
*OMON, Unità Speciali del Ministero degli Interni.

3 commenti:

andrea barbieri ha detto...

Fai bene a pubblicare queste cose.

andrea barbieri ha detto...

Altre informazioni e foto qui

Anonimo ha detto...

grazie.