26 settembre 2006

ARGENTO! capitolo 44




Numerosi avvenimenti si affastellavano l’uno sull’altro in quella mattinata.
Rilasciato Felix, in seguito all’intervento del dottore presso i militari, insorse un altro problema capitale.
Comparivano, tra le salme e i feriti, numerosi degli uomini creduti morti da anni. Erano i membri della confraternita dell’argento che avevano preferito lasciare intendere di essere passati a miglior vita per potere combattere in clandestinità la dittatura di Fulgenzio Villa. Ora è notorio che le visite dall’aldilà destino sorpresa e meraviglia, in alcuni casi perfino paura. Così quando qualcuno credette di riconoscere nelle sembianze di un ferito il volto di Catarino Diaz ci fu un motto di emozione. Quando, poco distante, alle donne parve di riconoscere l’aspetto di Aureliano Rubirosa il saggio, l’emozione si trasformò in terrore e qualcuno svenne.
Ma quando fu rinvenuto il corpo esanime di Ramon Picocca e quello del suo amico Ruma Velasquez ci fu chi giurò di avere compreso l’antifona; era chiaro come il sole che l’inferno stava sputando fuori gli indesiderabili. E quelle anime impenitenti erano ritornate alla terra dannata che li aveva partoriti per portare malasorte.

Don Erminio si avvide del problema e fu turbato lui stesso di trovarsi davanti a quei corpi di cui, complice, anni prima, aveva decretato ufficialmente il decesso.
Adesso erano li’, inermi e sotto gli occhi di tutti, federales compresi; l’alcalde avrebbe compiuto il capolavoro della sua carriera di aguzzino, se mai avesse dato un’occhiata a quei corpi che tanto disprezzava. Si sarebbe accorto che l’armata che a notte combatteva sotto la maschera degli squadroni neri adesso era tutta li’, più che vulnerabile, alla sua mercé, stesa, ferita o moribonda.
Per un attimo don Erminio si senti’ venir meno, poi prese l’iniziativa e comincio’ a parlare con la massima calma di cui disponeva.
“Amici…” disse con un filo di voce.
Doveva persuadere i campesinos scossi e increduli che, a dispetto delle superstizioni locali, non si trattava di spettri come qualcuno affermava, poiché gli spettri non viaggiano in comitiva.
“Non si tratta di presenze maligne, è il buon senso che lo spiega, anzi lo insegna”.

Non era il demonio. Come mai poteva esserlo? Dov’erano i piedi di capra? E di tutto, poi, puzzava quella mota tranne che di zolfo.

D’altra parte, spiego’, non potevano neppure essere angeli, come qualcun altro ipotizzava, poiché, come appurato dalla scienza, gli angeli non sanguinano come sanguinavano i presenti.

“Secondo Leibniz” disse con tono di chi la sa lunga “esistono corpi spirituali, chiamati Monadi. Questi sono eterni e indivisibili. Sono monadi Dio e l’uomo”. "Essendo eterni possono tornare da dove provengono".

Non sapeva cosa stava blaterando ma l’effetto fu tale che un mormorio sommesso si diffuse. Il ricorso alla teroia filosofico-scientifica li convinse, i campesinos non avevano mai sentito nominare Leibniz ma il suono di questo nome unito all’autorevolezza di Don Erminio li persuase che oramai il Parador aveva salpato le ancore, in rotta verso il moderno. E doveva abbandonare, lasciandosele alle spalle come scogli o secche pericolose, ogni sorta di culto animista o teoria ancestrale o superstizione popolare che lo teneva ancorato all’età della pietra.
L’unica domanda che fu posta la pose Felix, scuro in volto.
“Anche il parador è una monade?”
“Si capisce” replico’ fermo don Erminio per abbandonare al più presto il più insensato dei discorsi che avesse mai pronunciato.
Ci fu un silenzio di tomba. E poi un applauso.
Questo sguardo progressista venato di socialismo utopista e con riverberi teologico futuristi convinse i presenti che il ritorno in vita dei nostri cari è da cogliere come una lieta novella di cui ci si spiegherà le ragioni con il tempo (le monadi un giorno prenderanno la parola e spiegheranno) . Un mugugnare di assenso fu dunque pronunciato dai moltissimi presenti e generò quel suono tipico che aleggiava per l’aria surriscaldata come un coro russo.

Non si doma facilmente una massa stupita o spaventata. Quello fu dunque un passo decisivo, vissuto dal dottore come la vittoria di Napoleone nella campagna di Russia.
Felix, dal par suo, fu anche lui promosso sul campo al ruolo di coordinatore delle azioni di trasferimento. E cominciò la sua azione di diversivo per distrarre federales e pompieri mentre i soccorritori disponevano una pezza bagnata sulla fronte e sugli occhi fino a mascherare la reale identità dei redivivi giacché se questi fossero stati riconosciuti avrebbero subito soggiornato nelle patrie galere.

“mettete in fila i feriti più urgenti che possono camminare”
“gli altri stendeteli sotto l’eucaliptus, no dietro la grande roccia, dietro l’eucaliptus passano i pompieri”
“entro un paio di ore bisogna seppellire i cadaveri, prima che vadano in decomposizione”.

Era stato capocantiere, Felix, e disponeva di una certa sua sicumera, che dava sui gangheri all’alcalde. Ogni ordine lo colpiva al ventre peggio di una stilettata.
Ma non c’era null’altro da fare e ordinò, l’alcalde, dall’alto della sua magnanimità, di disporre il dannato trasferimento.
L’alcalde si sentiva febbricitante, le gambe molli; il suo duello recente con don Erminio non gli aveva certo giovato. Aveva il capogiro e sentiva gli occhi bruciare. Si slacciò il colletto e sedette su una sedia da campo dei pompieri.
“Ramirez” chiamò.
“sissignore”
“non abbiamo delle tende da campo?”
“al momento nossignore, potremmo richiederle al Governatore di Puerto Oruro, Signore; Ma occorrerebbero giorni prima che arrivino.”
“Dannazione”.
Constatò che era proprio con le spalle al muro, detestava il governatore di Puerto oruro, con le sue manie "culturali", e desistette all'idea di ostacolare il dottore creando un ospedale improvvisato là dove si trovavavno.
“Mandate degli uomini in caserma, fate spedire un dispaccio urgente, riunite i camion di stanza a Coloriu Arrubiu, me la vedio io con Siotto; voglio i camion qui entro un paio d’ore, si comincia il trasferimento”.
“signorsì”
“dove li portiamo signore?”
Rimase lì, per qualche secondo con lo sguardo perso. Impettito in posa da generale, ma assai meno preciso di un generale. Che sprovveduto; non aveva pensato a una destinazione, la cosa più importante. Fu soccorso dall’arrivo provvidenziale del capitano dei pompieri.
“avevamo pensato all’hangar dell’aeroporto di coloriu Arrubiu. Sempre se sua Eccellenza l’Alcalde è d’accordo”
“ottima idea, è ampio a sufficienza e servito da appropriate vie di comunciazione”

Salvato l’onore in quella snervante battaglia di posizioni crollò sulla sua sedia da campo. La febbre pareva divampare in quel corpo convalescente e lui si sentiva, per la prima volta nella sua esistenza, perduto e inadeguato.
Sotto assedio.
Visse quella mattina come l’ultima della sua lunga carriera, e si sentì pronto, rassegnato al suo destino, al punto che quando vide giungere le “accabbadoras”, tre vecchie dotate di martello che venivano a finire i malati incurabili, come da tradizione in quel luogo angusto che gli aveva dato i natali, al colmo di una sbornia di ego, credette che fossero lì per lui.
E cominciò a indietreggiare ridicolmente.
Non fu (e questo rappresentò un toccasana per il suo orgoglio) quasi notato, dato che i campesinos sembravano stranamente assorti nella pratica di deporre delle pezze bagnate sui volti dei feriti. Ma lui, l’alcalde Don Ignatio Rodriguez Ramos, si sentì al capolinea. Capì che probabilmente una stagione era conclusa. E mentalmente cominciò a riporre la sua autostima nello stesso armadio dove a suo tempo aveva riposto armi ben più acuminate, come odio, rancore e desiderio di vendetta.
A imperituro ricordo. Amen. Pensò tra sé e sé.
E si sentì stranamente autoironico, una sensazione nuova, regalatagli da San Evaristo, suo santo protettore in gioventù, che adesso, ne era certo, lo benediceva. Lui che era privo completamente di senso dell’umorismo adesso addirittura rideva di se stesso. Quale miracolo aveva potuto regalargli una sorte del genere? Si fece istintivamente il segno della croce e questo gesto sembrò svegliarlo da un torpore che aveva assalito membra e spirito. Aprì gli occhi e fissò una figura lontana lontana. Non riusciva a mettere a fuoco eppure quella figura gli sembrava familiare. Dietro un’acacia stava ritta, con fare ieratico e sembrava imbracciare qualcosa. Era proprio un fucile quello che imbracciava? Chi era che lo teneva sotto tiro?
E improvvisamente come un lampo fu tutto chiaro, quella figura era una figura a lui nota, una figura di donna, di cui aveva goduto le grazie, con la forza. Il suo nome era Lupita.

16 commenti:

andrea barbieri ha detto...
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andrea barbieri ha detto...

Igort ma hai tolto il topic sull'eutanasia? Mannaccia quel topic era coraggioso, era da intellettuale!

Comunque volevo segnalarti una rece a 5 di Voltolini su ttL, anzi te la posto sotto che è molto bella.
ciao

andrea barbieri ha detto...

5 è il numero perfetto», una Napoli di camorra e di affetti, drammatica e ironica, raccontata da Igort, tra i romanzieri che hanno portato il fumetto d’autore a una nuova maturità

di Dario Voltolini

Nino deve andare a uccidere un uomo, un fetente, ma non ne ha voglia, è depresso. Forse si sta pure ammalando. Il padre, Peppino lo Cicero, lo convince a bere un caffè prima di andare a fatica'. Parlano, ricordano i tempi andati. Peppino ricorda la moglie, Immacolata, che ormai non c'è più e per la quale prova tuttora un continuo, immodificato dolore. Dice al figlio: «Io per fidanzarmi con tua madre ci ho dovuto sterminare la famiglia interamente». Peppino lo Cicero ora è vecchio, ha smesso da un pezzo di sparare. Piange, ricordando l'amata moglie. «Papà - gli dice Nino -, non facite accussì, già sto depresso». Fuori comincia a piovere. Nino si deprime ancora di più, non la sopporta, la pioggia. Allora il padre gli porge un pacchetto. Fra due settimane è il compleanno di Nino, ma Peppino lo Cicero gli anticipa il regalo, per tirarlo un po' su di morale. Dentro c'è una King Cobra calibro 357 Magnum («È 'nu pucurillu pesantuccia ma ci si fa la mano», «Grazie papà, mi avete ridato la vita», «Nun esaggerà»). Nino parte, nell'oscurità del piovasco, e non tornerà mai più. Lo fredda un giovinastro con la zazzera rock'n'roll. E Peppino lo Cicero riprende nelle sue vecchie mani tremolanti le armi di quando ancora lavorava: ritorna in gioco, per vendicare il figlio ucciso. Una visione mistica lo ha intanto avvertito che due killer stanno per arrivare da lui. Peppino comincia con questi la serie dei rendiconti. Ucciderà il boss per cui ha sempre lavorato, prenderà in ostaggio il nipote del boss per cui lavora il ragazzo che gli ha ucciso Nino, faranno uno scambio di prigionieri. Altri spari regoleranno altri conti in vicende che si annidano una nell'altra, con colpi di scena e sorprese, in uno scenario cupo, nella Napoli all'inizio degli Anni Settanta del secolo scorso. Peppino ha di fronte a sé l'assassino di suo figlio. In mano tiene la King Cobra che Nino non ha potuto usare mai. In questo preciso punto la vicenda prende una direzione inattesa, che non possiamo anticipare. Così come non possiamo anticipare un altro paio di colpi di scena che tengono il lettore aderente al racconto fino ad oltre la postfazione, oltre la quarta di copertina. Ma possiamo dire invece che quando Peppino si trova sulle dune ventose del paese sudamericano in cui è volato con Rita («Napule pare accussì luntana»), a vivere un pezzo di vita inimmaginato, le tavole disegnate da Igort si alleggeriscono, prendono una luce d'ambiente dilatata e soffusa («Qui trovammo luce, sole. Non c'era più l'autunno, ma una specie di estate temperata»), sembrano quasi volarsene via per il vento raffigurato al loro interno. Romanzo grafico denso, compatto, di notevolissimo impasto stilistico e narrativo, 5 è il numero perfetto colloca il nostro Igort in quella classe di romanzieri assai particolari che hanno negli ultimi anni portato il fumetto d'autore a una nuova maturità. La Napoli di camorra e di affetti che Igort racconta, con una lingua che rappresenta una bella sfida per i numerosi traduttori stranieri al lavoro sulle sue tavole, è la cornice di una serie di metafore e di registri di assai felice amalgama: «Avevo voglia di lavorare su due registri, quello drammatico e quello ironico, - scrive l'autore nella sua Postfazione - Napoli mi pareva l'ambientazione ideale. Amavo quella città, era lo spunto ideale per raccontare un'essenza di contrasti. Grottesco, dolce, amaro e violento con cui identificavo il carattere della città». Resterebbe da spiegare il senso del titolo, con quel numero 5 che risulta così enigmatico accanto all'aggettivo di solito usato per il 3. Ma anche questo è preferibile lasciarlo scoprire al lettore. Diremo soltanto che la frase «5 è il numero perfetto» era l'adagio in cui riassumeva il senso della vita la pecora nera della famiglia, Lino, il cugino di Peppino lo Cicero, che «faceva il poliziotto e già questo era un disonore per la famiglia mia, anche se era nella polizia stradale e di camorra nun ne capiva 'na mazza. Poi un giorno lo trovarono morto 'n copp'o tetto...».

igort ha detto...

Carissimi, non ho tolto il topic sull'eutanasia. l'ho messo a nanna tra le bozze. I commenti mi parevano esauriti e l'argomento molto diffuso, perfino nei telegiornali.
L'ho fatto perché da più parti mi segnalano che argento pubblicato a spizzichi si legge con maggiore difficoltà e allora volevo rendere almeno il blog un tessuto continuo per facilitare la lettura del romanzo. spero di non dispiacere a nessuno con questa scelta egoista. Se abbiamo altri commenti da fare sul tema lo possiamo fare all'interno del blog, come sempre.
Per le recensioni, grazie per le segnalazioni. Mi dicono che sull'ultimo numero di panorama e su NOIR sono presenti altre due recensioni.
Sembra che 5 abbia visto la luce oggi e non nelle due edizioni precedenti di coconino. Ma tant'è, questa è l'esposizione delle major.

andrea barbieri ha detto...

Sì ma Voltolini con le major non c'entra eh, non te la pigliare con lui... e Tuttolibri della Stampa è una roccaforte di libri non graphic, recensire un graphic novel mica è facile, e poi ve' che bella rece che ha scritta!
La via del poeta è asfaltata di pazienza... :-)

igort ha detto...

No, Voltolini si è sempre dato da fare, anche su tuttolibri, non ha mica recensito solo 5. Lui è uno che segue.
Io parlavo dell'esposizione, hanno scritto in moltissimi, non mi lamento mica. Ma sono solo stupito che pare una novità. tutto qui. Mi fa piacere, mi pone solo dei grossi punti interrogativi.

Niccolò Storai ha detto...

Igort, la tua scelta di mettere il post sull' eutanasia è ben argomentata e condivisibile.
E' un argomento che merita tutto il rispetto possibile ed immaginabile.
A presto .

andrea barbieri ha detto...

Anche a me la cosa pone interrogativi, dato che c'è un'edizione bellissima Coconino da da anni reperibilissima. E ora c'è il bellissimo Baobab. Tutto questo dà il senso di una finzione che immagino per un autore (per di più editore!) deve far venire un certo sturbo (sturbo è un neologismo :-).
Però pensa che da un lato raggiungi nuovi lettori e dall'altro i lettori accorti contineranno a leggerti coconinicamente.

duccio ha detto...

..e probabilmente, inuriositi, passando per la "versione coconino" di Igort alcuni approfondiranno...
e scopriranno un intero universo brulicante di "raccontastorie".
è un po' come aver fatto una "piccola" crepa in una diga, e si sa, l'acqua spinge.
spinge, finchè non trova un varco.
complimenti.

Anonimo ha detto...

Ciao Igort,
capisco le ragioni della tua scelta, ma quel post sull'eutanasia era super. Si potrebbe reinserire magari dove non disturba.

Anonimo ha detto...

Ciao Igort,
ho riletto "5" e "Fats Weller". Da un punto di vista di narrazione grafica, di stile di disegno, etc mi sembra che "Fats" sia superiore, piu' personale, piu' tuo. Con "5" e con "sinatra" mi sembra che tu riprenda e reinterpreti tanti spunti di artisti americani e non che sono emersi negli ultimi 15 anni. Forse e' solo una questione di gusto personale: le tavole di "Fats" mi hanno emozionato (cosa rara...), mentre "5" mi e' sembrato piu' cerebrale, non sono riuscito a rispondere emotivamente. Parlo di disegno, di narrazione grafica. A livello di story telling "5" mi sembra piu' compiuto di "Fats". Come dice Barbieri "Fats" e' jazz. Io piu' semplicemente aggiungo che "Fats" avrebbe avuto bisogno di 200 pagine in piu' per sviluppare ed approfondire la storia. Sampayo si e' disamorato al progetto?

igort ha detto...

Non so che dire, Luca, le tue impressioni le rispetto. E' il gioco del nostro lavoro, la dinamica autore lettore.

Non ne condivido una virgola ma va bene cosi'.

Anonimo ha detto...

Certo, sono impressioni di un lettore. E' il fatto che tu non ne condivida una virgola mi incuriosisce moltissimo. Se hai tempo, mi potresti spiegare il perché?

andrea barbieri ha detto...

Uhm, non è paradossale dire che Fats è più "suo" quando è un lavoro collettivo con Sampayo?

A me pare così, che "suoi" siano soprattutto quelli scritti interamente da lui, le sue storie, e che il disegno non sia mai "suo" ma appartenga completamente alla storia, che sia dettato dal bisogno, che venga scelto come uno scrittore non grafico sceglie un registro linguistico. Per esempio Fats non aveva bisogno di quel colore elegantissimo (elegante come il jazz)? Sinatra non è perfetto in quello stile quasi immateriale?
andrea barbieri (non daniele barbieri, mio fratello ideale :-)

Anonimo ha detto...

Beh, intendevo "suo" per la parte grafica.

ausonia ha detto...

sono d'accordo sul dare continuità ad argento!. :)