30 aprile 2006

ARGENTO! (capitolo 2)




Mentre la vecchia estraeva il proiettile Alvino cercava di non pensare al dolore che sentiva nelle carni. Si concentrava sulle note dolci della musica. La conosceva a memoria e sapeva che a un dato momento c’era un crescendo di percussioni che gli piaceva, ma che sembrava non arrivare mai.

Plin.

Fece il proiettile d’argento quando rimbalzo’ sul piano di marmo della cucina.
“e con questo ci paghiamo un dente, caro Alvino, che "Erminio su dottori" aspetta da un pezzo”
Disse la donna, e risero.
Amava quella vecchia che si prendeva cura di lui. E che adesso gli asciugava una lacrima sulla guancia.

“hai già scritto?” Chiese timidamente Alvino.
“ho scritto”.

Era laconica la nonna quando era presa dai pensieri.

“Me la fai leggere, la storia?”
“Bah, più tardi, adesso devi riposare, riposare e cercare di riprenderti. Hai fame? Devi mangiare, lo sai che le trasformazioni rubano un sacco di energie. Dimmi, come ti sentivi.”
Gli porse un piatto di zuppa, caldo e fumante. Poi aggiunse:
“ E sopratutto mi interessa sapere cosa sognavi. Lo sai che i sogni raccontano molto di quel che sta per succedere. “

Parlavano per delle ore. E la vecchia annotava febbrilmente nel taccuino nero le storie di tutta una genia di uomini lupo che la famiglia cui apparteneva aveva ospitato.

Chi era stato il primo?
Lazarus Hascaroth III, che nel 1627 aveva straziato un intero gregge nel giro di poche settimane prima di essere abbattuto, ormai anziano, da un cacciatore di pellicce venuto dalla lontanissima Scozia.

Lazarus era stato il segreto di famiglia quando i Picocca avevano dovuto emigrare da Puerto Oruro a Mammarranca, nel tentativo, del tutto inefficace, di far perdere le tracce.
Le leggende, si sa, soffiano più forti del vento, e che la famiglia Picocca avesse avuto un uomo lupo tra le sue genti fu sulla bocca di tutti.

Da allora, per generazioni e generazioni, le donne avevano preso a compilare quello strano taccuino. Che serviva a riportare tutte le costanti, le anomalie, le caratteristiche di una stripe maledetta da quello che ci si ostinava a chiamare, malgrado tutto, “il dono”.

Nel settecento le corti di Austria e Danimarca avevano fatto segno di apprezzare ogni genere di bizzarria. E se lo contesero a suon di onori.
Ma fu in Ighilterra che infine prese residenza Hubaldinus Picocca, detto il mancino, che fu perfino insignito del titolo di arciduca di Worchester, allo scopo di tenerlo legato a corte.

Hubaldinus era bello di giorno e mostruoso le notti di luna piena. Esercitava il suo diritto nobiliare importunando le dame a piacimento. E lo faceva senza grazia alcuna, giacché la nobiltà di sentimenti non si trasmette con il titolo.
Mori’ ancora giovane, il duca mancino, per una alquanto villana infezione alle vie urinarie.
Il corpo donato alla scienza da Sua Maestà, fu sezionato dagli Esimi Professori dell’ univestità di Londra, che già aveva avuto a che fare con un certo Gwynplaine, mostro di altrettanto interesse, e non meno nobile.

Aveva generato numerosi figli, Hubaldinus, che fin da piccoli avevano terrorizzato le campagne inglesi. Alcuni furono abbatuti, ma si risvegliavano, senza traccia di ferite, poche ore dopo.
Fu in seguito alle torture loro inflitte che Il Duca di Welles fece sua l’informazione che servivano punte in argento, conficcate nel cuore, per fermarli. E li passo’ con una speciale spada da parte a parte.

Da allora il nobile metallo fu sinonimo di potere. Dato che l’argento contrastava le maledizioni , nei circoli esoterici di Londra e Berna esso divenne simbolo alchemico di sapere.
E prese a valere più dell’oro, com’è ovvio.

1776 Costantinopoli. Due gemelli furono catturati vivi ed esposti come pubbliche attrazioni.
Sul finire del settecento un circo slavo li aveva rapiti. E fu cosi’ che essi giunsero fino in Romania. Divennero stimati e ricercati, conversarono di filosofia e ermeneutica. Per poi sbranare Norbescu Primo, astrologo di Budapest, il quale incauto aveva sottovalutato il plenilunio incipiente.

Una goletta li aveva infine inghiottiti. Viaggiavano in incognito diretti a casa, alla loro terra natia, dato che, è risaputo, il Parador chiama i suoi figli con il canto della nostalgia.

Selim IV, si diceva nipote del sultano Selim II. E proveniva effetivamente dall’imperpo Ottomano.
Tuttavia ignoriamo se realmente avesse nelle sue vene un quarto di sangue Picocca.

Fatto sta che fu uomo lupo tra i più celebri, anche perché conversava in numerosi idiomi, cavalcava con uno strano senso di “grazia animale” e tirava di scherma come pochi al mondo.
Fu immenso e sublime corteggiatore.
Ricambiato. Amato. Desiderato.
Secondo I biografi del tempo colorito ambrato e occhi di ghiaccio, gli resero la vita facile. E reputazione di “impenetrabile”.
Eppure, recitano sempre le agiografie, a dispetto della fama di impenetrabile il suo cuore fu abitato da numerose passioni, che lo portarono a un peregrinare senza sosta.
Questo prima che un altro inglese, tale Sir Alfred Thomas Greene, lo impallinasse con proiettili d’argento.

Poi, durante il secolo decimo nono, la maledizione dei Picocca parve assopita. Sino a quando, attorno al 1861, quattro marmocchi, nati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro si riscoprirono affetti da quello che per secoli si era chiamato, sottovoce, “il dono”.
E le morti ripresero; e le cacce spietate e arbitrarie animarono le campagne e i palmeti le spianate e le montagne.


Queste storie Alvino Picocca le amava da bambino. Le aveva ascoltate dall’alba dei tempi, prima di addormentarsi. Che le donne avevano l’incarico infausto di trasmettere la conoscenza. E lui le aveva lette e rilette, di nascosto dal libro di famiglia che la nonna portava sempre con se.


Nei caldi pomeriggi d’estate, quando i palmizi dondolavano indolenti e l’afa si impadroniva delle stanche membra di sua nonna Aurelia, e il rosolio faceva il suo corso, Alvino prendeva avido il libro nero e leggeva.
Leggeva le cronache della sua stirpe e sognava, un giorno, di diventare grande come certi suoi avi.

FINE CAP. 2

Nessun commento: